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Lavoro, perché la Spagna dovrebbe essere un modello per l’Italia

Per cassare sul comandamento del “non c’è alternativa” per riformare il mondo del lavoro si potrebbe fare un giro nella vicina Spagna che, guarda caso, è scomparsa dalla stampa nazionale. Si troverebbe, ad esempio, una seria legge sui rider (che qui da noi sono serviti solo in pandemia per eroicizzare gli stipendi bassi e precari) senza occuparsi di disciplinare il lavoro del rider e senza costituire una specifica fattispecie giuridica ma inserendola nella forma contrattuale del lavoro subordinato (che da quelle parti è ancora una cosa seria), riconoscendo che la capacità di controllo, organizzazione, valutazione e profilazione (anche se attraverso un algoritmo) rientra in un rapporto dipendente.

Un rider a Madrid (Getty Images)

In Italia non esiste ancora il salario minimo

Non è un caso che la Commissione europea di regolazione del settore sia partita proprio dall’iniziativa spagnola. Quando si dice “le buone prassi”. Ci potremmo accorgere che in Spagna già dal 2020 è stato introdotto di un reddito minimo vitale, con buona pace dei terrorizzati dall’avvento della dittatura del Sussidistan, e poco tempo fa il governo di Madrid e i due principali sindacati del Paese, Ugt e Comisiones Obreras, hanno stretto un patto per fissare il salario minimo di quest’anno a 1.000 euro al mese (per 14 mensilità), con un aumento di 35 euro rispetto a quello del 2021. Anche lì le due principali associazioni degli imprenditori spagnoli, Ceoe e Cepyme, avevano urlato «non è il momento!» e avevano lamentato «il contesto economico di incertezza». Del resto in Ue sono 21 i Paesi che hanno un salario minimo nazionale con il Lussemburgo che è il primo Stato Ue per importo mensile (oltre 2 mila euro), seguito da Irlanda, Paesi Bassi, Belgio, Germania e Francia. L’Italia invece è uno dei sei Paesi Ue a essere sprovvisto. Per dire.

Un gruppo di lavoratori agricoli a Lepe, in Spagna (Getty Images)

In Spagna il 3,4% del Pnrr utilizzato per limitare le esternalizzazioni

Ma soprattutto in Spagna, dopo lo Statuto dei lavoratori del 1980, per la prima volta si assiste a una riforma che non spinge verso una maggiore liberalizzazione (come avevano fatto sia socialisti sia conservatori) ma cerca una configurazione del mercato del lavoro recuperando spazi di maggiore rigidità. In Spagna avviene ciò che i liberali e liberisti di casa nostra definiscono “vecchio” e “impossibile”. Così si torna a parlare di contratti collettivi che non sono un manuale di buone intenzioni ma che rivendicano il proprio primato di settore sui singoli accordi aziendali (che possono comunque distinguersi offrendo condizioni più favorevoli). In Spagna il 3,4% del Pnrr viene utilizzato per limitare le forme di esternalizzazione del lavoro con contratti interinali, per adeguare i salari dei lavoratori e per ridurre le forme di contratti a tempo determinato. E poiché gli spagnoli prendono tremendamente sul serio le scelte del governo è stato introdotto un inasprimento delle sanzioni per le irregolarità dei contratti. Lì non attacca la favola degli imprenditori “vessati dai controlli”, evidentemente. Mesi e mesi ascoltando il dibattito sul lavoro in Italia e poi basta prendere il primo treno per Madrid per accorgersi che la propaganda è un castello di carta. Non male, davvero.

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