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Così la giornalista Shireen Abu Akleh è stata uccisa due volte

C’è qualcosa di tragicamente istruttivo intorno all’omicidio della giornalista di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, colpita in faccia da un proiettile che ha centrato l’unico lembo di pelle scoperto dalle protezioni della sua divisa in cui la scritta Press che la identificava chiaramente come cronista era ben visibile. C’è innanzitutto la difesa immediata di Israele che ha raccontato di «spari palestinesi» pubblicando un video che nulla c’entrava con il luogo in cui Abu Akleh è deceduta. Da lì a poco è stato però reso pubblico un altro video in cui l’omicidio viene ripreso in tutta la sua chiarezza e infatti già poche ore dopo le autorità israeliane hanno dovuto riposizionarsi parlando di «legittimo dubbio» che fosse stata uccisa da un militare israeliano. In casi come questo non c’è niente di meglio della Corte Penale Internazionale che questi crimini li conosce benissimo, li sa analizzare e ha tutta l’autorevolezza per poter emettere un verdetto.  Nel frattempo in Italia si assiste a un tilt dell’informazione e della politica in cui si nota un’incredibile fatica perfino a pronunciare la parola Palestina, disonorando Shireen Abu Akleh anche da morta visto che la sua è stata una delle voci più importanti in questi anni sui diritti negati ai palestinesi.

Così la giornalista Shireen Abu Akleh è stata uccisa due volte
Candele davanti alla foto di Shireen Abu Akleh in Cisgiordania (Getty Images).

La Federazione internazionale dei giornalisti ha denunciato Israele alla Corte penale internazionale

Ma molti si sono dimenticati che lo schema dell’omicidio della giornalista di Al Jazeera non è una novità: nel 2018, i giornalisti Ahmed Abu Hussein e Yasser Mortaja sono stati uccisi da cecchini israeliani mentre seguivano la Grande Marcia del Ritorno. Muath Amarneh e Nedal Eshtayeh sono stati mutilati dal fuoco dei cecchini israeliani rispettivamente nel 2019 e nel 2015. Basil Faraj, Fadel Shana, Hussam Salama, Imad Abu Zahra, Issam Tillawi, Khaled Reyadh Hamad, Mahmoud al-Kumi, Mohamed Abu Halima e molti altri giornalisti hanno sofferto per mano delle forze israeliane nel corso degli anni. L’anno scorso i raid aerei israeliani hanno bombardato sedi di media nella Striscia di Gaza tra cui l’edificio di al-Jalaa di 11 piani, che ospitava Al Jazeera e gli uffici dell’Associated Press. Lo scorso 25 aprile la Corte penale internazionale (CPI) ha formalmente confermato di aver ricevuto una denuncia presentata all’inizio di aprile dalla Federazione internazionale dei giornalisti contro lo Stato di Israele: nella denuncia si legge di un vero e proprio “sistema” per colpire i giornalisti che lavorano in Palestina. Ora alla lista si può aggiungere il nome di Abu Akleh. Il materiale per l’inchiesta è già tutto lì e l’ultimo omicidio (di cui si è parlato molto di più degli altri anche per il passaporto Usa della giornalista) è solo un ulteriore tassello.

Così la giornalista Shireen Abu Akleh è stata uccisa due volte
Scontri al funerale della giornalista Shireen Abu Akleh a Gerusalemme (Getty Images).

Per provare a costruire la pace bisognerebbe iniziare a essere intellettualmente onesti

Poi si potrebbe trovare il coraggio di raccontare che i familiari della vittima si sono ritrovati accerchiati dalla polizia israeliana poche ore dopo l’omicidio perché accusati di “assembramento non autorizzato”. Si potrebbero anche rivedere le immagini dei soldati israeliani che pestano le persone che trasportano la bara di Shireen Abu Akleh. L’accusa Avere esposto la bandiera palestinese. A proposito di cancel culture che qui dalle nostre parti va così di moda. Si potrebbe anche parlare di un telegiornale di una rete pubblica che è riuscito a presentare la violenza dei militari contro un corteo per una bara con il sottotitolo “forze in campo per sedare le sommosse”. Qual è il limite di tutto questo? Quando si recupera un po’ di dignità nel raccontare i fatti? Per provare a costruire la pace bisognerebbe almeno cominciare a essere seri e intellettualmente onesti.

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