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Memorandum – C’è il nostro sangue

Da cinque anni goccioliamo sangue. Lo lasciamo in giro, macchiamo le nostre cose, goccioliamo nei nostri percorsi quotidiani, lasciamo impronte al mattino sulla tazzina del caffè, poi sui sedili delle nostre auto, sulle sedie dei nostri uffici, sulle pacche date ai nostri amici, sulle carezze e sul cuscino.

Ieri il memorandum Italia-Libia è stato rinnovato in automatico per altri 3 anni.

È accaduto, non c’erano dubbi, nel modo più vigliacco: stando zitti. Del resto bisogna essere campioni di codardia per riuscire a digerire le conseguenze drammatiche sulla pelle di almeno 100mila persone che dal 2017 a oggi sono state catturate dalla cosiddetta Guardia costiera Libia e riportate forzatamente il Libia, un paese che non può essere in nessun modo considerato sicuro.

Cosa sia la vita dei migranti in Libia è ormai sotto gli occhi del mondo. Ci sono documenti, video, audio, relazioni internazionali che raccontano di donne scelte ogni notte negli stanzoni delle prigioni libiche per soddisfare gli appetiti sessuali dei loro carcerieri. Ci sono le grida dei ragazzi, anche giovanissimi, a cui vengono rotte le dita, i denti, con la schiena segnata dalle botte e dalla plastica lasciata colare incandescente mentre dall’altro capo del telefono ai famigliari vengono chiesti più soldi. Ci sono le prove di uomini appartenenti alla cosiddetta Guardia costiera libica che appena si tolgono quella putrida divisa diventano gli scafisti che dicono di combattere. Ci sono le prove di condizioni di vita disumane, uomini come topi lasciati in capannoni bui senza i già basilari servizi, corpi che dormono l’uno sull’altro. Abbiamo tutto quello che serve per sapere. Ma non sappiamo, non vogliamo sapere.


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L’Italia e l’Unione Europea continuano a impiegare in Libia sempre più risorse pubbliche e a considerarlo un paese con cui poter stringere accordi, all’interno di un complesso sistema basato sulle politiche di esternalizzazione delle frontiere, che delega ai paesi di origine e transito la gestione dei flussi migratori, con il sostegno economico e la collaborazione dell’Unione Europea e degli Stati membri. Il Memorandum Italia – Libia crea le condizioni per la violazione dei diritti di migranti e rifugiati agevolando indirettamente pratiche di sfruttamento e di tortura perpetrate in maniera sistematica e tali da costituire crimini contro l’umanità”, scrivevano alcuni giorni fa le oltre 40 organizzazioni che sono scese in piazza per chiedere all’Italia e all’Europa di riconoscere le proprie responsabilità e di non rinnovare gli accordi con la Libia.

Il Memorandum prevede il sostegno alla Guardia costiera libica, attraverso fondi, mezzi e addestramento. Continuare a supportarla significa non solo contribuire direttamente e materialmente al respingimento di uomini, donne e bambini ma anche sostenere i centri di detenzione dove le persone vengono sottoposte a trattamenti inumani e degradanti, abusate e uccise. Dal 2017 la Guardia costiera libica ha ricevuto oltre 100 milioni in formazione e equipaggiamenti (57,2 milioni dal Fondo fiduciario per l’Africa e 45 milioni solo attraverso la missione militare italiana dedicata). Soldi pubblici e risorse destinate alla cooperazione e allo sviluppo, impiegate invece per il rafforzamento delle frontiere, senza alcuna salvaguardia dei diritti umani, né alcun meccanismo di monitoraggio e revisione richiesto dalle norme finanziarie dell’UE. Ugualmente le risorse utilizzate per l’implementazione degli interventi umanitari non hanno bilanciato i crimini contro l’umanità che sono commessi attraverso il Memorandum.

Solo che quel memorandum contiene le impronte digitali di governi di destra e di sinistra, attraversa la storia dei partiti politici italiani che in questi 5 anni hanno usato la solidarietà come vessillo per concimare la guerra elettorale. C’è la prima firma, il 2 febbraio del 2017, dell’ex ministro all’Interno Marco Minniti, salvinista ancora prima di Salvini, che per il governo Gentiloni ha stretto gli accordi con il primo ministro del Governo di Riconciliazione Nazionale libico Fayez al-Sarraj. Ci sono le ditate dei ministri Di Maio e Lamorgese nella proroga del 2 febbraio del 2020. Quando il ministro degli Esteri prometteva di “migliorare gli accordi” che invece sono rimasti intatti e Giuseppe Conte annunciava l’avvio di nuovi negoziati con Tripoli.

Sono cinque anni che trattiamo la Libia come se fosse uno Stato e fingiamo di non sapere che il quadro politico particolarmente instabile disegna un Paese in mano alle bande. Qualsiasi rinnovo sarebbe stato inaccettabile se avessimo avuto occhi per vedere che la Libia è un Paese che vive sulle violazioni ai danni di donne, uomini, bambini e bambine. La Missione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite parla di “un’impossibilità strutturale di apportare qualsiasi forma di miglioramento delle condizioni di vita delle persone migranti in Libia, a cui si aggiunge un inadeguato accesso dei richiedenti asilo e rifugiati alla protezione internazionale”, descrivendo una Libia dove “episodi di violenza, torture e riduzione in schiavitù sono all’ordine del giorno” e dove risulta evidente “la commistione delle autorità libiche con le milizie, e il loro coinvolgimento nel sistema di detenzione arbitraria, sfruttamento e abuso dei migranti e dei richiedenti asilo”.

Ai bordi dell’Europa abbiamo scelto un sacco dell’umido dove buttare i nostri errori e i nostri orrori. Abbiamo deciso di appaltare i nostri confini a aguzzini pagati e addestrati da noi. Se noi siamo i mandanti dei crimini che avvengono nel Mediterraneo e in Libia quello non è sangue nostro? L’unica vera “grande opera” costruita dagli ultimi governi è un cimitero liquido che seppellisce i disperati dopo averli cucinati nei lager. Aiutiamoli “a casa loro”, si diceva dalle nostre parti qualche anno fa. Lo scrisse perfino il segretario del PD Matteo Renzi in un suo libro. Casa loro gocciola dall’accordo che c’è tra casa nostra e casa loro. Un “patto disumano” in cui “la sofferenza dei migranti detenuti nei campi in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità”: sono parole dell’Alto commissario Onu per i diritti umani. E noi da cinque anni lasciamo macchie di sangue in giro e non ce ne siamo ancora accorti.

(da Ultima Voce)