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Ong e migranti: il senso di Piantedosi e Salvini per le leggi e la geografia

Ci risiamo. In mezzo al mare caracollano quattro navi strapiene di disperati slavati dall’annegamento nel Mediterraneo. Sono tre navi di Ong, il boccone perfetto per il nuovo governo affamato di disperati da bastonare per distogliere l’attenzione da quello che ci sarebbe da fare. Sono 1000 migranti in tutto. Clandestini, li chiamano molti membri dell’esecutivo che nemmeno nel loro nuovo ruolo riescono a sciacquarsi la bocca. Del resto l’assioma è banale, anche se non hanno il coraggio di ammetterlo: se sono neri sono clandestini, se sono poveri sono clandestini, se sono inutili sono clandestini.

Il ragionamento di Piantedosi diventa uno spot perfetto per Salvini

Il neo ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, calatosi subito nel ruolo del mangiamigranti per compiacere il governo, rilascia un’intervista al Corriere della Sera in cui dice sostanzialmente: queste quattro navi battono bandiera norvegese e tedesca quindi sono quei Paesi che dovrebbero «farsi carico dell’accoglienza» dei migranti soccorsi, poiché questi ultimi hanno «messo piede per la prima volta» proprio in quei Paesi, salendo sulle navi. Matteo Salvini sgrana gli occhi. Il ragionamento fila, funziona ed è uno spot perfetto per diventare slogan sui suoi social. Quindi rilancia: «Dove dovrebbe andare una nave norvegese? Semplice, in Norvegia». Applausi, sorrisi e pacche sulle spalle. Che bravi che siamo, si dicono.

Il regolamento di Dublino non è applicabile a bordo delle navi

Peccato che sia tutto un’enorme sciocchezza. Una sciocchezza, tra l’altro, sulla pelle di vite umane. È vero che le navi rappresentano un’estensione territoriale dei rispettivi Stati di bandiera. Lo stabilisce la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare fin dal 1982: navi che battono la bandiera di un solo Stato, salvo casi eccezionali, in mare “sono sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva”. Per dare credito alla loro sciocchezza dalle parti del governo si cita anche il Regolamento di Dublino (che curiosamente in Europa proprio la destra non ha mai voluto modificare) secondo il quale se “il richiedente asilo ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un Paese terzo, la frontiera di uno Stato membro” allora è quello Stato a essere “competente per l’esame della domanda di protezione internazionale”. Si legge così nell’articolo 13. Le leggi però bisogna conoscerle tutte. «Dublino si applica nel momento in cui si arriva a terra, Dublino non è applicabile a bordo delle navi, il caso Hirsi lo dimostra, unità governative che non hanno personale specializzato a bordo per poter fare lo screening non possono essere considerate la frontiera d’ingresso per l’applicazione della Convenzione di Dublino», spiegava in audizione parlamentare già nel 2017 il contrammiraglio della Guardia costiera italiana Nicola Carlone. Ci sarebbe anche una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo risalente al 2012. Solo che quella sentenza condannò l’Italia dell’ultimo governo Berlusconi per i respingimenti in mare e quindi è stata dimenticata in fretta. Vi si legge chiaramente che è impossibile esaminare la situazione dei migranti a bordo delle navi prima dello sbarco. Cade così anche l’idea di Giorgia Meloni di procedere alla richiesta dello status di rifugiato in mezzo al mare.

Il decreto anti rave party subirà almeno due modifiche dal Parlamento: le criticità riguardano intercettazioni e definizione del reato.
Matteo Piantedosi (Getty Images).

Le leggi e la geografia non possono piegarsi alla propaganda

Le norme sul soccorso marittimo sono chiare: gli sbarchi devono avvenire nel primo “porto sicuro” disponibile. E per “primo porto sicuro” si intende un luogo in cui venga garantito il rispetto dei diritti umani (quindi no, la Libia non è un porto sicuro) e il più vicino dal punto di vista geografico. Come ribadito anche dall’ambasciata norvegese in una nota diffusa dalla trasmissione Il Cavallo e la torre: «La responsabilità primaria nel coordinamento dei lavori per garantire un porto sicuro alle persone in difficoltà in mare è di competenza dello stato responsabile dell’area di ricerca e di salvataggio in cui è stata prestata tale assistenza. Anche gli Stati costieri confinanti hanno una responsabilità in tali questioni. La Norvegia non ha alcuna responsabilità ai sensi delle convenzioni sui diritti umani o del diritto del mare per le persone imbarcate a bordo di navi private battenti bandiera norvegese nel Mediterraneo». L’Italia sta lì, in mezzo al Mediterraneo, e di quella posizione se ne deve fare carico con oneri e onori. Le leggi e la geografia non possono piegarsi di fronte alla propaganda. Ai ministri e alla presidente del Consiglio tocca fare politica, politica sul serio, e cercare una soluzione mediando con l’Ue. Oppure possono fottersene e giocare con la vita delle persone. Non è difficile immaginare come andrà a finire.

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