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Aiuti umanitari made in Israele, profitti sulla pelle dei civili

C’è un mistero che attraversa i camion carichi di aiuti diretti a Gaza: chi paga La Gaza Humanitarian Foundation, progetto umanitario formalmente sostenuto dagli Stati Uniti, serve a nutrire 1,2 milioni di persone. Ma dietro le scatole di cibo ci sono aziende israeliane che trattano ogni consegna come un’occasione d’affari. Il problema non è solo etico, è contabile: i fondi sono opachi, le responsabilità sfuggenti, i guadagni altissimi.

Il parlamento israeliano ha appena spostato 700 milioni di shekel nel bilancio della difesa, cifra identica a quella stimata per l’intera operazione. Ufficialmente nessuno conferma il collegamento, ma il deputato Beliak ha messo a verbale i suoi sospetti. Silenzio. Nel frattempo, ditte come Shaldag, i fratelli Neumann e i Bitan movimentano, impacchettano e rivendono. A Gaza, la fame si misura in polli kosher venduti a 250 shekel al chilo: carne congelata che parte da Israele e arriva filtrata da una catena di profitti.

La beffa è doppia. Chi denuncia i rifornimenti viene attaccato dagli estremisti (Tzav 9 dà fuoco ai camion), chi partecipa al business finge di “non sapere nulla”. Il governo lascia fare, anche perché la guerra conviene: a chi la prolunga, a chi la appalta, a chi la monetizza. Si chiama umanitarismo privatizzato, ed è perfettamente compatibile con l’assedio.

A Tel Aviv si litiga sulla tregua. I ministri Ben-Gvir e Smotrich vogliono sabotarla, Netanyahu promette ostaggi a chiunque possa garantirgli il potere. Le famiglie dei prigionieri urlano: “Non siete più ebrei”. Ma tutto si tiene:è il capitalismo bellico nella sua forma più sfacciata. 

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