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Giulio Cavalli

Onore ai cronisti morti in guerra e querele ai vivi

“Gli occhi degli inviati di guerra sono gli occhi di chi ha il coraggio di stare sul campo, al fianco dei civili, dei soldati, lungo la fragile linea che divide la vita dalla morte. I loro occhi sono gli occhi della guerra. Senza di loro noi saremmo ciechi, senza di loro noi non avremmo la possibilità di sapere davvero cosa accade nei teatri di guerra, facendoci sentire parte di quello che sta succedendo”. Lo ha detto la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in un videomessaggio all’inaugurazione della mostra fotografica ‘Bearing Witness’ all’Istituto italiano di cultura di New York.

La giornalista Meloni tace su Rocchelli ucciso dagli ucraini. E dopo Saviano, La Notizia e molti altri querela Canfora

“Io – ha aggiunto Meloni – voglio cogliere questa occasione per ringraziare i tanti professionisti che attraverso questo straordinario lavoro rendono un servizio grandioso all’informazione, al giornalismo, a noi rappresentanti delle Istituzioni che attraverso quegli scatti vediamo una realtà che ci aiuta a prendere delle scelte più consapevoli, fino ai cittadini”.

Peccato che tra i dovuti ringraziamenti la presidente del Consiglio continui a ignorare un giornalista italiano inviato di guerra ammazzato il 24 maggio 2014 che ancora deve avere giustizia. Per l’assassinio di Andrea Rocchelli e del collega russo Andrej Mironov è stato processato Vitaly Markiv, militare della Guardia nazionale ucraina, condannato a 24 anni in primo grado e poi assolto in Appello e in Cassazione. “La nostra è una irrisolta domanda di verità e giustizia – ha detto Elisa Signori, madre di Andy, in un intervento pubblicato sul sito di Articolo21 e ripreso da La Provincia pavese – per un delitto che la magistratura italiana definisce un crimine di guerra, ma su cui si stende l’oblio. L’obiettivo che ci proponiamo è porre fine all’impunità per questo delitto, consapevoli di difendere così la vita di civili e giornalisti che operano in scenari di crisi e di guerra”.

E peccato che il governo di Giorgia Meloni con i giornalisti qui in Italia insista a usare l’arma delle querele come forma di intimidazione: da Roberto Saviano, alle cause a noi de La Notizia fino alla querela annunciata ieri a Luciano Canfora (nella foto) questo governo dimostra di avere una strana idea della libertà di opinione e di stampa, confidando più nell’effetto giudiziario che nel dibattito.

“Un giorno tornerò alla mia professione” di giornalista, “perché ho sempre pensato che la politica sia un passaggio transitorio per tutti e guardo sempre con un occhio di favore a questa professione fondamentale, per la sua capacità di fare il suo lavoro nel migliore dei modi guardando alla responsabilità che si porta dietro con condizioni di libertà e stabilità, anche salariale”, aveva detto la presidente del Consiglio, nella conferenza stampa di fine anno.

Del passato giornalistico della premier e leader di Fratelli d’Italia, si hanno poche tracce ma della sua idea di giornalismo possiamo capire qualcosa. Giorgia Meloni ama i giornalisti di guerra ma i giornalisti di pace Giorgia Meloni li vorrebbe ciechi e sordi, senza occhi e senza orecchie, per poter stare più tranquilla.

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La Romagna annega nel fango. A Roma litigano sul commissario

L’ignobile balletto politico intorno alla nomina del commissario per le alluvioni in Emilia-Romagna registra l’ennesima puntata. Si parte con l’intervista di ieri del presidente della Regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini (Pd) che ripete che “il tema non è il nome”: “Io spero solo che chiunque scelgano non lo facciano per questioni di consenso senza tenere conto delle urgenze. Sarebbe deprimente. Io ora mi occupo di fare l’amministratore.

L’ignobile balletto politico intorno alla nomina del commissario per le alluvioni in Emilia-Romagna registra l’ennesima puntata

La politica è la mia vita, ma ci sono momenti in cui bisogna metterla da parte e darsi da fare senza tenere conto delle bandiere. Nell’emergenza lo schema politico salta. Io, l’ho già detto, spero solo che il commissario, chiunque sarà, non pensi di poter gestire questa situazione al telefono da Roma. Perché rallenterebbe tutto. Senza un confronto e una collaborazione serrata con gli amministratori di qui, sindaci in primis, la situazione non si risolve”, spiega Bonaccini a Repubblica. Il tema non è il nome ma è un attorcigliarsi continuo intorno al nome.

Giorgia Meloni non ha nascosto il suo fastidio sul dibattito che si è innescato, non mancando l’occasione di accusare i giornalisti di fomentare il chiacchiericcio e dimenticandosi che siano stati proprio i suoi presidenti di Regione (dal presidente della Calabria Occhiuto al veneto Zaia passando per il ligure Toti) a prendere posizione in favore di Bonaccini. “Non mi posso autonominare commissario, né mi interessa quale sarà il mio ruolo.

Ma la cosa certa è che in qualsiasi veste ho sempre dimostrato che ci metto sempre la determinazione per fare ciò che serve a questa terra”, ha detto ieri il presidente della Regione Emilia Romagna, intervenendo alla trasmissione di La7 L’Aria che tira. “Io ci sono e ci sarò finché non avremo ricostruito tutto indipendentemente dal mio ruolo – ha detto Bonaccini -. È il governo che deve decidere cosa fare”.

A stopparlo ci ha pensato subito il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri: “Ha ragione Giorgia Meloni quando dice che la questione del Commissario verrà affrontata a tempo debito. In questi giorni – dice Gasparri – il presidente della Regione Emilia Romagna Bonaccini ha ringraziato pubblicamente per aver avuto la possibilità di incontrare la premier Giorgia Meloni e i ministri competenti a Palazzo Chigi per discutere le azioni da adottare nei territorio colpiti dall’alluvione. Poi, sulla base di diverse valutazioni, sarà il governo stesso a decidere se il Commissario dovrà essere Bonaccini oppure un’altra figura nazionale. Dipenderà dall’entità dell’emergenza”.

Ieri il capogruppo di Fratelli d’Italia Foti ha rilanciato l’accusa contro il presidente dell’Emilia Romagna di non essere riuscito a spendere i fondi del Ministero alle Infrastrtture per la messa in sicurezza dei corsi d’acqua esondati in questi giorni. Dura la reazione del Pd che in una nota congiunta di Marco Simiani, capogruppo Pd in Commissione Ambiente e Virginio Merola Capogruppo Pd in Commissione Finanze di Montecitorio intima alla maggioranza di “gettare discredito sull’operato del governatore Bonaccini: la sua regione, secondo i dati Ispra, visto l’ultimo rapporto del ReNDiS, con 4,4 anni, è infatti la prima, nelle regioni del nord in Italia per i tempi di l’attuazione degli interventi di mitigazione del rischio idrogeologico, a dispetto del Veneto che è l’ultima con 6,8 anni.

Le fake news, in questo contesto, rilanciate dal Capogruppo di Fdi Foti a Montecitorio su presunte inadempienze, si commentano da sole e hanno come unico scopo quello di giustificare i ritardi del governo sulla nomina del Commissario”, scrivono. Il problema politico di fondo è che Bonaccini insiste, anche nelle sue ultime interviste, a contrapporre l’ambientalismo al lavoro come un Feltri qualsiasi. Parlando dell’obiettivo i consumo di suolo a saldo zero a Repubblica Bonaccini ha risposto che “ci si può anche ragionare. Purché si tenga conto che questa regione, da poverissima che era nel primo dopoguerra, è diventata ricca. E che ha il tasso di disoccupazione più basso del Paese. Oltre ad avere il numero più alto di studenti universitari. E livelli altissimi di welfare.

Insomma che non si commetta l’errore di mettere in contrapposizione ambiente e lavoro, perché sarebbe uno sbaglio madornale”, spiega il presidente. Dare per scontato che solo il nuovo cemento possa essere motore dell’economia è un’idea miope e superata da anni ma sopratutto è un’idea considerata vecchia e sbagliata nella gran parte dei partiti socialdemocratici europei.

Il nocciolo politico della questione (vale a destra e a sinistra) è che non c’è più tempo per le promesse di una classe dirigente che sul consumo di suolo e sulla coscienza ambientalista ha già fallito. Le alluvioni recenti e quelli che verranno sono la plastica dimostrazione di un allarme che richiede una svolta di uomini, di pratiche e di idee. E il balletto sul commissario mentre i romagnoli faticano a ripulirsi dal fango è solo l’ennesimo dibattito fuori fuoco.

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Inutili e con paghe da fame. Professori in rivolta contro i tutor di Valditara

Per il ministro Giuseppe Valditara, manco a dirlo, doveva essere “una rivoluzione”. Il ministro della Scuola e del Merito immaginava 40mila professori delle superiori nei percorsi di formazione per la funzione di tutor e di orientatore, lasciando poi ai dirigenti la selezione tra i professori che avrebbero dovuto candidarsi su base volontaria. Non è andata propriamente così.

Per il ministro Valditara si annuncia un altro flop. Sindacati in rivolta contro i percorsi di formazione per la funzione di tutor e di orientatore

Di “merito” nell’idea del governo ce n’era pochissimo. Il tutor arriverebbe a guadagnare tra gli 2.850 e i 4.750 euro lordi per intervenire su gruppi composti da 30 o 50 studenti. I conti al netto sono semplici: si tratta di poco più di 7 euro all’ora. Dell’inutilità di nuove figure professionali sotto pagate in questa scuola non se ne sente proprio il bisogno.

Come sottolinea Cobas Scuola si tratta di un’ulteriore “perdita di ruolo dei docenti disciplinari e alla destrutturazione del processo didattico-educativo: non saranno più la formazione culturale e la consapevolezza critica a determinare la scelta del percorso post-scolastico, ma le competenze di apprendimenti personalizzati”, dicono i Cobas.

Secondo la Flc Cgil “si tratta di un modello che si sovrappone all’attuale impostazione didattica delle scuole, fondata sulla corresponsabilità dei consigli di classe. Avrebbe avuto senso l’istituzione di un tutor per classe e non per gruppi così estesi con scarsa efficacia di orientamento del singolo”. Il fallimento previsto si è avverato.

I numeri che arrivano dalle scuole in previsione della chiusura del bando a fine mese sono impietosi: “Sono ormai tantissime le scuole italiane in cui è in corso una vera e propria rivolta contro l’idea di Valditara di trasformare i professori e professoresse in tutor a 7,34 euro l’ora. C’era da aspettarselo. Da anni il corpo docente chiede salari più alti, non lavoretti part-time per arrotondare”, spiega Elisabetta Piccolotti dell’Alleanza Verdi Sinistra.

“Il tema è alzare gli stipendi di tutti e non solo di chi – prosegue la parlamentare rossoverde della commissione cultura di Montecitorio – si trova nella condizione, o nella necessità, di fare lavoro in più per pochi euro. I professori e le professoresse devono essere messi in condizione di occuparsi pienamente della didattica, riversando sull’insegnamento tutte le proprie energie. Questa priorità è già stata messa in discussione dal continuo aggravio burocratico a cui gli insegnanti sono stati sottoposti. Come fossero degli amministrativi o dei funzionari. Ora la novità è il docente tutor, orientatore o consulente”.

Secondo Piccolotti si tratta dell’ennesima “scelta inutile del Governo laddove per combattere la dispersione scolastica servirebbe il riconoscimento della professionalità dei docenti con un aumento generalizzato della retribuzione, almeno fino alla media europea, e l’aumento del numero degli insegnanti e del tempo scuola in tutti gli istituti, soprattutto nelle aree a grave disagio sociale ed economico”.

I bandi per il corso di formazione di 20 ore per diventare “tutor” è andato deserto. I docenti, com’era immaginabile, non rinunciano a ore per l’istruzione dei ragazzi per “formarsi” a un ruolo che è già nelle loro funzioni. I “tutor” rimangono un’idea buona per averci fatto la conferenza stampa.

“Aspettiamo i numeri, gli esiti finali delle candidature a tutor e poi vediamo. Anche se ritengo che l’operazione tutor e orientatore andava costruita, proprio dal punto di vista comunicativo, in modo più approfondito e più organico”, dice Ivana Barbacci, segretaria generale Cisl Scuola. La scadenza delle candidature è fissata per il prossimo 31 maggio. Il finale è già scritto.

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Mai tante armi italiane vendute all’Egitto. Regeni è già dimenticato

C’è l’impronta italiana nelle armi che in Egitto vengono usate per reprimere i diritti umani e l’uccisione del ricercatore italiano Giulio Regeni non ha fermato il flusso. Anzi l’ha rimpinguato. È il risultato del rapporto Made in Italy per reprimere in Egitto di EgyptWide, l’Ong egizio-italiana che si occupa di diritti umani. I ricercatori e le ricercatrici di EgyptWide hanno condotto un’analisi incrociata su dati provenienti da diverse fonti ufficiali e governative, arrivando a documentare il volume e il valore delle armi italiane piccole e leggere esportate in Egitto tra il 2013 e il 2021.

L’export di armi verso l’Egitto crollò dopo il caso della morte di Giulio Regeni. Ma dal 2019 è tornato a volare

L’uso di armi piccole e leggere italiane in violazioni dei diritti umani è stato indagato analizzando un campione di materiali audiovisivi di oltre 169 unità, dal cui studio sono emerse prove fotografiche dell’uso di Salw italiane nelle violazioni dei diritti umani in Egitto. Secondo il rapporto, tra il 2013 e il 2021, l’Italia ha esportato in Egitto armi piccole e leggere per un valore di circa 19 milioni di euro.

Il valore delle armi piccole e leggere autorizzate per l’esportazione verso l’Egitto nello stesso periodo potrebbe superare i 62 milioni, escludendo quello di munizioni e componenti di ricambio. Il materiale ricevuto dall’Egitto include oltre 30.120 revolver e pistole, più di 3.600 fucili e oltre 470 fucili d’assalto, a cui si aggiunge un numero imprecisato di carabine, mitragliatrici, munizioni, parti di ricambio e attrezzature per la direzione del tiro, tecnologie militare e software.

Tra il 2013 e il 2021, nonostante le conclusioni del Consiglio d’Europa dell’agosto 2013, con le quali i Paesi membri dell’Ue avevano concordato una sospensione delle forniture di armi all’Egitto alla luce delle gravi violazioni dei diritti umani, e in aperta violazione della legge italiana sul commercio di armi (L.1990, N. 185), nonché del quadro normativo europeo sull’esportazione di armi (Posizione comune 2008/944, da qui in avanti 2008/944/Pesc), l’Italia non ha mai interrotto la fornitura di armi all’Egitto.

Alcuni dei più comuni modelli italiani di armi piccole e leggere esportati nel periodo tra il 2013 e il 2021 (come i fucili Arx 160, prodotti dalla Fabbrica d’Armi Beretta S.p.A.), sono stati utilizzati nel contesto di esecuzioni extragiudiziali nel Sinai settentrionale; modelli italiani di armi piccole e leggere Beretta 70/90, Benelli SuperNova Tactical e Beretta 92FS sono stati utilizzati da militari e forze di sicurezza egiziane per intimidire e disperdere civili nell’ambito di operazioni di sicurezza urbana; fucili Beretta 70/90 sono stati utilizzati dalle forze speciali ad Al-Nahda e Rabaa Al-Adawiya, durante il massacro del 2013 in cui hanno perso la vita quasi mille civili.

Dopo il crollo di esportazioni di armi in Egitto (da 37 a 7 milioni) nel 2016 in seguito all’uccisione di Giulio Regeni dal 2019 in poi l’esportazione di piccole armi italiane ha raggiunto il suo picco. Dalle nostre parti le ingiustizie subite da nostri concittadini e la repressione dei diritti civili sono un ottimo motivo per rinforzare le collaborazioni. L’importante è mantenere un profilo impegnato e contrito di fronte alle ingiustizia e avere sempre pronto un discorso in occasione dei funerali e dei loro anniversari.

Poi quando irrompono i numeri, come in questo caso, la notizia potrà incagliarsi in qualche giornale che crede ancora nel proprio ruolo. Lo sdegno sui soldi insanguinati per il potere è un piccolo intoppo che si risolve facilmente. Questa è solo l’ennesima cicatrice sul corpo già morto di Giulio Regeni.

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Bonaccini flirta con Meloni per i soldi dell’alluvione

Sorride la premier Giorgia Meloni mentre annuncia in conferenza stampa “l’estensione delle competenze del commissario alla Siccità, per la verifica e il monitoraggio delle opere di drenaggio dell’acqua”. “C’è un passaggio bizzarro perché il commissario alla Siccità oggi si occupi anche dell’alluvione ma è la situazione climatica in cui ci troviamo”, dice Meloni, e dentro quel “bizzarro” c’è l’ignoranza – se non addirittura il negazionismo – di chi crede che siccità e alluvioni siano due fenomeni che si smentiscono e non gli effetti dello stesso male.

Il presidente del Pd, Stefano Bonaccini, che amoreggia con la leader di FdI. Cosa non si fa quando ci sono tanti miliardi in ballo

Al suo fianco Stefano Bonaccini non proferisce verbo. La lotta politica, dice lui e dicono i suoi, deve essere lasciata da parte in nome dell’emergenza. Come si possa non polemizzare con chi non riconosce le vere cause dell’emergenza e quindi a rigor di logica non farà nulla per fermarla è un concetto che sfugge. Ora il presidente dell’Emilia Romagna punta ai ristori – c’è da capirlo – che siano il più veloci e funzionali possibili per aiutare i suoi concittadini a rimettersi in piedi. Ma a suon di ristori, di emergenza proclamate e di sconti fiscali, non si fa altro che aspettare la prossima tragedia.

All’esponente Pd, presidente della Regione, ciò che interessa ora è essere nominato commissario. Il commissario alla ricostruzione dopo l’alluvione in Emilia-Romagna “deve conoscere bene il territorio”, dice Bonaccini riferendosi ovviamente a se stesso. “Riteniamo che Bonaccini sia la figura più adatta a fare il commissario e a gestire questa emergenza perché conosce l’Emilia Romagna e la macchina meglio di chiunque altro. In Emilia è ancora in piedi la cabina di regia per la ricostruzione post terremoto, ed è una macchina già oliata che ha lavorato bene”, spiega l’ex capogruppo al Senato dei dem, Simona Malpezzi.

A spingere sulla nomina di Bonaccini ci sono anche metri della maggioranza come il presidente della regione Calabria Roberto Occhiuto, Vittorio Sgarbi, il presidente ligure Giovanni Toti e il calendiano Osvaldo Napoli. L’ex candidato alla segreteria del Pd tiene un profilo diplomatico ma ha qualche sbavatura: “Sulla nomina del commissario in Emilia-Romagna lascio alla Lega polemiche e speculazioni politiche. Io mi occupo di stare vicino alle popolazioni colpite”. Il presidente dei deputati della Lega Riccardo Molinari gli risponde a stretto giro: “Non c’è nessuno da Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega che ha detto no a Bonaccini per una ragione politica, immagino che in questo momento nel governo ci sia una discussione di opportunità”.

Si è in quel bivio in cui le parole vanno misurate ma l’effetto dall’esterno è stordente. Bonaccini ripete che non bisogna chiedersi “se” l’alluvione accadrà di nuovo ma quando e dal governo rispondono che si tratta solo di una sfortunata serie di eventi. “Stefano si sta comportando così per il bene della sua gente, ora occorre unità”, ci dice un senatore del Pd. Sarà. Intanto il centrodestra in Regione avverte Bonaccini. “è evidente che se verranno accettate responsabilità ci aspettiamo dimissioni di massa”, dice la Lega in Regione: “Quello che è stato fatto è troppo poco e forse non è conforme”. Con chi ce l’hanno? Con Bonaccini, appunto. A questo punto la sua nomina o la sua mancata nomina non potrà non apparire un altissimo esercizio di ipocrisia.

 

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Avanza il camerata Bignami. Un altro flagello si abbatte sull’Emilia-Romagna

Se non dovesse essere il presidente dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini (Pd) il prossimo commissario straordinario in Emilia Romagna, Giorgia Meloni ha già in mente il suo nome: il suo compagno di partito viceministro alle Infrastrutture Galeazzo Bignami. La Lega sta lavorando alacremente a qualche nome dei suoi ma questi mesi hanno già chiarito che le scelte di Meloni sono le uniche che contano. Lui, Bignami, ieri ha parlato in un’intervista a QN: “La stima di un miliardo di danni alle infrastrutture regionali di Bonaccini è “destinata a cambiare nelle prossime settimane, sia a causa delle frane sia per le altre lesioni subite dal territorio.

Il vice ministro di FdI, Galeazzo Bignami, fotografato con la divisa delle SS in pole per il ruolo di commissario all’emergenza alluvione

L’orografia di interi luoghi è stata trasformata: ci aspetta una lunga fase non solo di ripristino, ma anche di vera e propria progettazione di strade e infrastrutture danneggiate”, dice. “Tutte le strade che si potevano liberare – spiega – sono già state liberate, altre presentano lesioni così significative che il loro recupero è impossibile in condizioni di sicurezza, altre infine non esistono proprio più”. Per l’estate però “sono convinto che le principali strade saranno tutte riattivate per garantire, a chi vorrà andare in vacanza in Romagna, di poterlo fare. Così come di raggiungere e muoversi da quei territori per ragioni lavorative”.

Difficile non riconoscere nelle sue parole la postura di chi pregusta la sedia da commissario. Nel pomeriggio di ieri il viceministro ha incassato anche l’endorsement del berlusconiano Alessandro Cattaneo: “Bignami è stato un amministratore locale ed è legato al territorio, e oggi ha un ruolo operativo. Come lui ci sono altre figure, per me quando si parla di queste emergenze vanno scelte le persone migliori al di là dell’appartenenza al partito”, ha detto il deputato di Forza Italia. Ma qual è il curriculum di Bignami che lo proietta nel novero degli abili gestori di un’emergenza Galeazzo Bignami è salito agli onori della cronaca per gesta non sue: in diretta a Sanremo Fedez ha strappato la foto in cui il viceministro era allegramente travestito da gerarca nazista. “Era solo una festa di addio al nubilato”, ha spiegato Bignami. Del resto chi di noi non si è mai vestito da nazista per ridere in compagnia

Attivo nella politica bolognese dal 1996, Bignami è stato prima consigliere comunale e poi regionale, prima di diventare deputato con Fratelli d’Italia nel 2018. Di lui si ricordano le prese di posizioni contro i diritti (degli altri). Come raccontò l’Espresso, per esempio, presentò un esposto alla Procura contro il centro per la comunità Lgbtq+ Cassero di Bologna, definendolo luogo di “iniziative volgari che offendono l’intelligenza e il decoro di chiunque abbia un minimo senso di decenza”. Sua fu la richiesta di cancellare la serie A casa dei Loud, perché un personaggio veniva presentato come bisessuale, e quella di schedare le scuole di Bologna con un bollino rosso, giallo o verde a seconda del livello di “ideologia gender” contenuta nei programmi scolastici contro omofobia e bullismo.

Una vita passata a contestare i Gay Pride, le manifestazioni che celebrano le conquiste per i diritti civili e l’uguaglianza della comunità Lgbtq+, e contro il Gender bender festival, finanziato con fondi europei pari a 1 milione e 200 mila euro, che secondo Bignami servirebbe a “smontare la sessualità maschile e femminile, irridere la religione ed esaltare le forme di dominio e di sottomissione gay”.

Bignami ha anche tentato di limitare il diritto ad accedere all’interruzione di gravidanza per le donne in Emilia Romagna, proponendo di riformare il sistema dei consultori e ridurre gli aborti. Contemporaneamente si è anche impegnato in una “schedatura” discriminatoria in diretta Facebook, andando a leggere ad alta voce i nomi degli inquilini della case popolari nel quartiere della Bolognina, violando la privacy delle persone per denunciare la “sostituzione etnica”, per la presenza di persone di origine straniera tra gli inquilini. Un commissario perfetto, insomma, con un curriculum incontestabile.

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Riscrivere la storia dell’Antimafia. Ecco il vero piano delle destre

A loro non interessa la Commissione Antimafia. Quello è solo uno dei tanti orpelli che servono per corroborare la narrazione. E la narrazione sulla mafia di questo governo è spaventosa perché nega gli ultimi 30 anni di storia di questo Paese. L’elezione di Chiara Colosimo come presidente è l’ennesimo anello di una riscrittura generale della storia.

Colosimo in sella alla Commissione Antimafia è l’ultimo anello. La macchina della contronarrazione è già al lavoro

Accade in tutti i campi, figurarsi se poteva mancare un tema così sensibile come la criminalità organizzata su cui il centrodestra ha ancora molto da spiegare. Negare gli accadimenti e se possibile ribaltarli. Il primo passo consiste nel sotterrare le notizie: che un ex sottosegretario come Nicola Cosentino, uomo forte di Silvio Berlusconi in Campania e collega di governo di Giorgia Meloni, sia stato condannato in via definitiva come punto di riferimento politico dei Casalesi è passato sotto traccia.

Poco si è parlato anche dell’assoluzione di Roberto Saviano che fu querelato dall’attuale ministro Gennaro Sangiuliano per essere stato definito “galoppino” di quello stesso Cosentino. è solo una delle tante notizie sparite dai radar del dibattito pubblico: l’importante è tenere separata la mafia dalla politica per poterla normalizzare. È una lezione che conosciamo da decenni. È naturale che in uno scenario di questo tipo anche la riabilitazione di Marcello Dell’Utri (e il silenzio sul ruolo di Berlusconi) diventino un gioco da ragazzi.

A ricordaselo sono i giovani che sfilano a Palermo che vorrebbero urlarlo al sindaco Lagalla e al governatore Schifani. Non c’è problema, basta manganellarli. L’altro ieri in Aula il senatore Maurizio Gasparri ha mostrato le coordinate del revisionismo: “C’è chi ha concretizzato l’opera e l’azione di Falcone e chi lo ha contrastato da vivo e lo ha celebrato da morto. E anche su Borsellino, c’è chi ha archiviato l’inchiesta su mafia e appalti, ci sono le firme. Eh, lo so, ce ne sono anche in quest’Aula…”. Il riferimento è chiaro: il campione dell’antimafia sarebbe Berlusconi e il nemico di Borsellino dovrebbe essere l’ex magistrato Roberto Scarpinato, oggi senatore del Movimento 5 Stelle. Anche questo è un veleno che circola da tempo. Per svilire l’antimafia basta delegittimare i simboli.

Peccato che proprio su questa vicenda siano stati condannati per diffamazione lo scorso febbraio i giornalisti Piero Sansonetti e Damiano Aliprandi. Il reato? Lesione della reputazione dello stesso Scarpinato e del magistrato Guido Lo Forte accusati di avere “affossato” un’inchiesta che invece non è mai stata archiviata. La narrazione di questa maggioranza però della verità storica e perfino della verità processuale se ne frega. Quello che conta è occupare i posti per moltiplicare le voci che spandono menzogne.

Così 31 anni dopo accade serenamente che si possa definire il maxi processo istruito da Falcone e Borsellino come simbolo della “perversione di un sistema giurisdizionale trasfigurato in missione sociale, l’aberrazione dell’azione penale che esporta l’ordine costituzionale e la legalità andando a strascico nel territorio-canaglia”. Lo scrive il “riformista” sito de Linkiesta – mica Libero o Il Giornale – spiegandoci che Falcone ”pur in perfetta buona fede, e pur dedicandovisi al costo della vita ebbe del proprio ruolo un’idea molto discutibile: e della giustizia in generale un concetto missionario in nome del quale magari si è fatto male alla mafia, ma sicuramente non si è fatto bene a quel che si dice lo Stato di diritto”. La narrazione anti-anti-mafiosa è servita.

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Dopo razza ed etnia ci mancava il ceppo. Per Lollobrigida non c’è speranza

Razza l’ha detto, etnia pure. Ora ha sputato fuori anche il ceppo. Il ministro dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida, cognato d’Italia lo immaginiamo curvo sul vocabolario a scorrere i sinonimi. Domani lo immaginiamo mentre parla di stirpe italiana, o casato italico, oppure c’è il ceppo (anche se si presta a facili battute). O potrebbe stupirci con la prosapia o la schiatta.

Neppure lo schiaffo assestato da Mattarella ha sortito effetti. Il ministro Lollobrigida ora s’inventa Manzoni padrino del matrimonio

Ciò che conta è non perdere il collegamento carezzevole con quell’idea malsana e un po’ matta del popolo da difendere dalla futuribile sostituzione etnica. Probabilmente è anche abbastanza sconsolato bel vedere che la cognata Giorgia Meloni e l’alleato Matteo Salvini l’hanno lasciato solo in questa quotidiana battaglia di retroguardia.

Di certo sono rimasti addosso alla maggioranza i segni delle cinque dita lasciati dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che in occasione del centocinquantesimo anniversario della morte di Alessandro Manzoni ha dovuto scartare per un attimo dal campo della letteratura e spiegare che “è la persona, in quanto figlia di dio, e non la stirpe, l’appartenenza a un gruppo etnico o a una comunità nazionale, a essere destinataria di diritti universali, di tutela e di protezione. È l’uomo in quanto tale, non solo in quanto appartenente a una nazione, in quanto cittadino, a essere portatore di dignità e di diritti”.

Siamo certi che Mattarella avrebbe voluto ripetere il discorso tenendo il ministro per l’orecchio ma il Presidente in tema di cortesia istituzionale, anche nel redarguire, è sempre stato un maestro. Dopo essere stato sculacciato dal suo Presidente della Repubblica, dopo avere già guadagnato una pessima figura quando si scusò di aver parlato di sostituzione etnica confessando che era “per ignoranza” e non “per razzismo”, un ministro della Repubblica potrebbe ritirarsi di buon ordine. In una Paese normale ci si aspetterebbe che presenti le dimissioni; nel Paese impudico e impunito che siamo ci si aspetterebbe almeno che il ministro rifletta. E invece no.

Lollobrigida decide di rilasciare un’intervista in cui dice “Ma no, io credo che il Presidente Mattarella, se avesse voluto riferirsi a me, avrebbe fatto in modo che lo sapessi prima”. Il cognato d’Italia ha scambiato Mattarella per l’insegnante di sostegno, il tutor dei membri del governo. Forse ha ragione il ministro: Mattarella ha deciso di scrivere quella parte del suo discorso per rispondere a un passante con cui aveva litigato precedentemente dal salumiere. Dice Lollobrigida: “Io ascolto sempre con deferenza le parole del presidente della Repubblica, come quelle del Papa. Non penso che vadano interpretate. Altrimenti rischieremmo di strumentalizzarle”.

Il ministro non ha voluto sforzarsi di capire a chi si riferisse Mattarella per non strumentalizzare le sue parole. Lo aiutiamo noi: parlava di lui. Nella sagra delle bestialità si aggiunge Manzoni come padrino della famiglia tradizionale (“C’è stato un autore italiano, come colui che ha scritto i Promessi sposi, che più ha trasmesso il concetto di matrimonio e dunque di famiglia”, chiede Lollobrigida) e cultore del “Dio, patria, famiglia”: “L’Italia, per Manzoni, è ‘una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor’. C’era un forte contenuto patriottico nelle sue opere”, ci spiega Lollobrigida che conclude: “Io so solo che mi sono stufato di precisare in continuazione. Anzi, ho proprio rinunciato”. Meglio così, ministro. Ci rinunci.

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Il giorno nero dell’antimafia

Il primo record di cui avremmo volentieri fatto a meno è la presidenza della Commissione antimafia un nome sgradito ai familiari delle vittime di mafia. Le perplessità legate alla fedelissima di Giorgia Meloni sono state, fin dall’inizio, legate alla sua inesperienza sul tema in un Paese in cui di professionalità antimaf ce ne sono moltissime. Poi è arrivata la famosa puntata di Report (che non a caso qualcuno vorrebbe chiudere) sulla presunta vicinanza tra Colosimo e Luigi Ciavardini , l’ex estremista nero dei Nar, condannato a 30 anni per la strage di Bologna. Dalle parti di Fratelli d’Italia avevano spiegato che la foto che ritraeva Ciavardini e Colosimo fosse legata a una serie di eventi di associazioni che si occupano di carcere. Nella maggioranza non hanno trovato un altro nome in grado di rassicurare i familiari delle vittime.

M5s, Pd e Avs hanno fatto muro all’elezione di Colosimo alla presidenza. Poi sono tornati in Aula per leggere vicepresidenti e segretari. Accade così che come vice della probabile peggiore presidente della Commissione antimafia nella storia d’Italia ci sia l’ex procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho, ora deputato del Movimento 5 Stelle. A chi ha sottolineato il controsenso di contestare la presidente per poi farne da vice l’ex magistrato Roberto Scarpinato (senatore M5S) spiega che dovevano «avere uno spazio all’interno dell’Ufficio di presidenza per fare le nostre proposte». Vedremo l’evolversi di questo inizio nefasto. De Raho stamattina spiega che nel suo ruolo vigilerà sui processi sulle stragi. Colosimo intervistata da Libero attacca già la minoranza. Ci sono già tutti gli elementi per l’inopportuno errore politico dell’opposizione.

Ieri, durante la commemorazione per la morte del giudice Giovanni Falcone, alcuni poliziotti hanno bastonato il popolo di Palermo in corteo con la Cgil e altre sigle. In città l’ultimo episodio in cui si usò la forza contro i cittadini palermitani per questioni di mafia e di antimafia risale ai tempi del funerale di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti di scorta. Non proprio un bel presagio. I politici da difendere in questo caso sono il sindaco di Palermo Roberto Lagalla e il presidente della Sicilia Renato Schifani, eletti anche con la spinta elettorale di due condannati per mafia come Marcello Dell’Utri e Totò Cuffaro. 31 anni dopo anche i cognomi sono gli stessi.

È la cronaca cruda di una giornata nera anche nei simboli.

Buon mercoledì.

 

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C’era una volta Prima gli italiani. L’alluvione spazza via l’ultimo slogan delle destre

L’hanno ripetuto allo sfinimento “prima gli italiani”. “Prima gli italiani” era il mantra inserito in qualsiasi discussione per evidenziare la presunta incapacità dei loro avversari politici. Bisognava aiutare una popolazione in difficoltà o bisognava accogliere dei rifugiati? “Prima gli italiani”, urlavano a squarciagola. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni – in buona compagnia del suo alleato Salvini – era pronta a perlustrare i cassonetti della cronaca nera pur di dimostrare che si spendevano soldi per “aiutare gli stranieri mentre gli italiani di casa nostra sono indigenti e i terremotati sono ancora nelle tende”.

Sulle armi all’Ucraina imposte dalla Nato il Governo non bada a spese. Ma per gli sfollati dell’alluvione c’è solo un terzo del necessario

Il benaltrismo funziona, ma solo se si è all’opposizione. Per questo con l’Italia travolta dal fango e con migliaia di sfollati che non riescono a trovare la speranza per dirsi che ce la faranno a ripartire ora quel “prima gli italiani!” ha l’effetto di un boomerang. I romagnoli con la faccia che lacrima terra e pioggia sono l’esempio perfetto delle difficoltà su cui questa destra ha costruito il suo impero di consenso. Se al governo al posto di Matteo e Giorgia ci fosse stato chiunque altro i social vomiterebbero ogni secondo la lista della spesa da sbattere in faccia con l’accusa di mancanza di amore della Patria. Farla ora è facilissimo.

Il decreto del Consiglio dei ministri per l’alluvione è un compitino senza nessuno slancio. Lo sa benissimo Giorgia Meloni che infatti manda in avanscoperta a chiarire che “i risarcimenti per tutto quello che stiamo vedendo ovviamente non si esauriranno con il decreto di oggi. Ci saranno le stime, le quantificazioni, ci sono le strade da ripristinare. Adesso siamo ai primi provvedimenti che riguardano i mutui, i pagamenti da bloccare, le cose che purtroppo conosciamo in queste occasioni che non sono uniche nella storia del Paese”.

Prendere tempo è la strategia, la solita. Non si può non notare però che questo Consiglio dei ministri sia arrivato tardi perché – dicevano – serviva il tempo per riuscire a fare qualcosa di speciale. Di speciale non c’è nulla. Si parte dal nome del decreto, perché i nomi sono importanti: “decreto alluvioni”. L’importante è evitare qualsiasi possibilità di collegamento con la tragedia in Romagna con la crisi climatica. È un tamponare una diga con i tappi di sughero: la politica del raccontare le alluvioni come un fatto “eccezionale” è il primo enorme errore.

Immersi nella loro propaganda dalle parti del governo temono che prevenire sia un sinonimo di presagire e non vogliono essere uccelli del malaugurio. È sostanzialmente la strategia che avrebbero voluto attuare per il Covid: aspettare che passi. Così il famigerato decreto Alluvioni è una lunga lista di soluzioni emergenziali che servono, eccome, ma che tradiscono la mancanza di qualsiasi disegno politico. “Prima gli italiani!”, dicevano ma ora che sono loro al posto di quelli impallinavano rispondono allo stesso modo: “Non ci sono soldi”.

Il viceministro dell’Economia, Maurizio Leo, ha detto che “il governo sta pensando a risorse provenienti da lotterie aggiuntive e dal ricavato delle aste di auto sequestrate alla criminalità organizzata”. Ricostruire una regione in ginocchio con i soldi delle lotterie e con i soldi (che da sempre non si riescono a ottenere) dalle aste di auto rende perfettamente l’idea del navigare a vista senza una traiettoria. “Complessivamente questo primo provvedimento prevede uno stanziamento di oltre 2 miliardi di euro per le zone colpite”, dice la presidente Giorgia Meloni. 2 miliardi di euro nel bilancio dello Stato, cari populisti sovranisti, sono briciole.

Si potrebbe a questo punto stendere un editoriale facile come quelli che appaiono nei quotidiani megafoni di questo potere. Due miliardi di euro sono 1/7 dei costi per il trasognato Ponte sullo Stretto che state regalando a Salvini per farlo giocare a fare il ministro. Due miliardi di euro sono meno di un decimo rispetto a ai 26,5 miliardi stimati di spesa militare per accontentare il ministro della Difesa Guido Crosetto. Compriamo elicotteri con i soldi che basterebbero per rimettere in piedi tutti gli agricoltori, tutti i cittadini, tutte le strutture pubbliche delle prossime 15 alluvioni.

“Prima gli italiani” diventa un “prima i nostri italiani”: persino Stefano Bonaccini rimane in bilico come commissario per l’emergenza, quando da sempre il presidente di Regione è stato il nome indicato. “Prima gli italiani”, urlavate, e ora per non regala uno spicchio di visibilità a quello che voi considerate un avversario (anche con gli stivali pieni di fango) siete pronti a pensare “prima ai vostri amici di partito”.

Siete così preoccupati degli italiani sfollati che avete trovato il tempo di inserire nel decreto anche una bella norma per i rigassificatori: una semplificazione della “disciplina in materia di realizzazione di nuova capacità di rigassificazione nazionale e si qualificano come opere di pubblica utilità, indifferibili e urgenti, quelle a ciò finalizzate mediante unità galleggianti di stoccaggio e rigassificazione“, come riferisce il comunicato di Palazzo Chigi. “Prima gli italiani”, urlavate e invece questo governo è smascherato: gli italiani sono lì a sperare nei riavi del Superenalotto per ricomprarsi la casa.

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