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Giulio Cavalli

Commissione Ue, von der Leyen svela la sua squadra. Tra equilibri difficili e tante incognite

In un’atmosfera carica di aspettative, Ursula von der Leyen ha finalmente alzato il sipario sulla sua nuova squadra di commissari europei. L’annuncio, giunto questa mattina a Strasburgo, segna un momento cruciale per il futuro dell’Unione Europea, delineando le figure che guideranno le politiche comunitarie nei prossimi cinque anni.

“Oggi presento una squadra di donne e uomini competenti e motivati, pronti a lavorare insieme per un’Unione più forte, più sicura e più competitiva,” ha dichiarato von der Leyen, aprendo la conferenza stampa. Le sue parole hanno dato il via a una presentazione che ha rivelato una Commissione rinnovata, con un equilibrio delicato tra continuità e cambiamento.

La squadra per sfide cruciali

Al centro dell’attenzione, sei vicepresidenze esecutive che incarnano le priorità dell’Unione. L’italiano Raffaele Fitto, dei Conservatori europei, guiderà Coesione e Riforme, una scelta che ha sollevato più di un sopracciglio negli ambienti progressisti. La spagnola Teresa Ribera si occuperà di Transizione ecologica e Concorrenza, sottolineando l’impegno dell’Ue verso una decarbonizzazione competitiva. Il francese Stéphane Séjourné, subentrato in extremis al dimissionario Thierry Breton, gestirà Prosperità e Strategia industriale.

Completano il quadro delle vicepresidenze la finlandese Henna Virkkunen per Sicurezza e Sovranità tecnologica, l’estone Kaja Kallas come Alto Rappresentante per gli Affari Esteri, e la romena Roxana Mînzatu per Persone, Competenze e Preparazione.

La composizione riflette anche le sfide geopolitiche attuali. Il nuovo portafoglio della Difesa, affidato al lituano Andrius Kubilius, segnala la volontà dell’Ue di rafforzare la propria autonomia strategica. Maroš Šefčovič della Slovacchia si occuperà del delicato dossier del Commercio, mentre il polacco Piotr Serafin gestirà il Bilancio.

L’austriaco Magnus Brunner avrà la responsabilità degli Affari Interni e Migrazioni, un tema sempre caldo nell’agenda europea. Wopke Hoekstra dei Paesi Bassi manterrà il portafoglio dell’Azione per il Clima, sottolineando la continuità dell’impegno europeo in questo ambito. L’ungherese Oliver Varhelyi passerà dall’Allargamento alla Salute e al Benessere degli Animali, mentre il lettone Valdis Dombrovskis si occuperà di Economia e Semplificazione.

Il danese Dan Jorgensen avrà la cruciale delega all’Energia, il greco Apostolos Tzitzikostas ai Trasporti, mentre l’agricoltura sarà affidata al lussemburghese Christophe Hansen. Infine, l’irlandese Michael McGrath si occuperà di Giustizia e Stato di Diritto.

Un percorso accidentato verso l’approvazione

Von der Leyen ha delineato tre filoni principali che guideranno l’azione della Commissione: prosperità, sicurezza e democrazia, con le transizioni gemelle – decarbonizzazione e digitalizzazione – come sfide trasversali. “Dobbiamo garantire una transizione equa per tutti,” ha sottolineato la presidente, “e per farlo serve una coraggiosa strategia industriale che abbracci l’innovazione senza lasciare indietro nessuno.”

Il percorso che ha portato a questa composizione non è stato privo di ostacoli. Le intense trattative hanno visto momenti di tensione tra le diverse famiglie politiche europee, con l’irritazione dei liberali, l’ultimatum dei socialisti e le perplessità dei verdi. Le dimissioni di Breton hanno aggiunto un elemento di dramma dell’ultima ora. Nonostante le difficoltà, von der Leyen ha cercato di trasmettere un messaggio di unità. “I commissari non rappresentano i loro paesi, ma l’Europa e la nostra causa comune,” ha ribadito, sottolineando l’importanza di un approccio coeso alle sfide future.

Ora si apre la fase delle audizioni parlamentari, un passaggio non scontato che potrebbe riservare sorprese. Solo al termine di questo processo, con il voto finale dell’Europarlamento, sapremo se la nuova Commissione avrà la forza necessaria per guidare l’Unione Europea attraverso le turbolenze che si profilano all’orizzonte, dalle crisi climatiche alle tensioni geopolitiche, fino al rilancio della competitività globale.

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Un referendum che conta e il tempo che stringe

C’è un referendum importante e c’è il tempo che stringe. Lo scorso 4 settembre Riccardo Magi di +Europa ha depositato alla Corte di Cassazione un nuovo referendum abrogativo che propone di modificare la legge che regola la concessione della cittadinanza italiana ai cittadini stranieri.

Mentre nel Parlamento si scioglievano i propositi estivi di Antonio Tajani e di Forza Italia il referendum propone di intervenire su due lettere del primo comma dell’articolo 9 della legge sulla cittadinanza, quello che stabilisce le modalità di concessione della cittadinanza italiana agli stranieri.

Si vuole portare per tutti gli stranieri maggiorenni a cinque anni il periodo di residenza legale nel nostro Paese necessario a chiedere la cittadinanza italiana. Come spiega Paolo Bonetti, professore di Diritto Costituzionale e pubblico dell’Università degli Studi di Milano Bicocca, «la legge del 1992 ha deciso, invece, uno spezzettamento di questi termini, riducendoli a quattro anni per i cittadini dell’Unione europea e portandoli da cinque a dieci anni per i cittadini degli Stati extra-Ue». 

Portare a cinque anni il tempo per richiedere la cittadinanza – sempre rispettando gli altri requisiti come conoscere la lingua, pagare le tasse e avere stabilità economica – allineerebbe l’Italia alle altre legislazioni dei paesi europei, come ad esempio la Germania che è intervenuta sullo stesso punto a fine giugno. 

Il quesito referendario deve essere depositato come le 500 mila firme richieste entro fine settembre. Si firma qui https://pnri.firmereferendum.giustizia.it/referendum/open/dettaglio-open/1100000

Buon martedì. 

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Quel Patto con la Tunisia e il cimitero di sabbia

Il deserto come discarica umana. Questo il piano del presidente tunisino Kaïs Saïed, l’”alleato affidabile” di Giorgia Meloni nella gestione dei flussi migratori. Ma affidabile per cosa Per abbandonare esseri umani nel deserto senza acqua né cibo?

I fatti parlano chiaro: 29 migranti della Sierra Leone, parte di un gruppo di 42, risultano dispersi dopo essere stati abbandonati dalle autorità tunisine al confine con l’Algeria. Tra loro, bambini e donne incinte. Anderson, 24 anni, racconta di 12 giorni nel deserto prima del salvataggio. Il suo crimine? Viaggiare da Sfax a Tunisi per rinnovare lo status di richiedente asilo.

Questa non è un’eccezione, ma una pratica sistematica. Human Rights Watch denuncia: da un anno i migranti vengono spinti verso i confini desertici, violando palesemente il diritto internazionale. L’Oim stima 15mila migranti solo nel campo di Sfax, molti dei quali rischiano lo stesso destino.

Intanto, sei corpi di migranti, incluso un bambino, sono stati recuperati al largo di Monastir. Numeri che si aggiungono a una tragedia in corso, mentre l’Italia stringe accordi con Saïed.

Intanto il presidente tunisino si prepara a elezioni farsa, negando l’accreditamento agli osservatori internazionali. Un’ulteriore prova della deriva autoritaria che l’Italia e l’Europa fingono di non vedere.

La Tunisia è diventata una trappola mortale per i migranti. Gruppi come Rifugiati in Libia lanciano l’allarme: “La situazione sta andando di male in peggio”. Le morti aumentano, i diritti vengono calpestati, e il clima repressivo rende persino illegale aiutare i richiedenti asilo.

Eppure il governo italiano continua a stringere la mano a Saïed, chiudendo entrambi gli occhi. In nome di cosa Di una “stabilità” che sa di sabbia e sangue.

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Perché il caso Open Arms che vede imputato Salvini è diverso da quelli della Diciotti e della Gregoretti

La destra di governo, nel tentativo di difendere Matteo Salvini dal processo Open Arms, sta cercando di equiparare questo caso a quelli della Gregoretti e della Diciotti. Ma un’analisi attenta rivela differenze sostanziali che non possono essere ignorate.

Partiamo dai fatti. Nel caso Diciotti (agosto 2018) e Gregoretti (luglio 2019), Salvini non è stato processato. Per l’Open Arms (agosto 2019), invece, è stato rinviato a giudizio. Stessa accusa di sequestro di persona, esiti diversi. Perché?

Le differenze cruciali: navi, contesto politico e azioni legali

La prima differenza cruciale riguarda la natura delle imbarcazioni. Diciotti e Gregoretti sono navi militari italiane, quindi sotto diretto controllo statale. L’Open Arms, al contrario, è una nave umanitaria di una Ong spagnola. Questa distinzione non è marginale: il decreto sicurezza-bis, in vigore all’epoca dei fatti Gregoretti e Open Arms, escludeva esplicitamente il divieto di ingresso per navi militari italiane.

Il contesto politico è un altro elemento chiave. Nel caso Diciotti, Lega e M5S governavano insieme e il Senato negò l’autorizzazione a procedere. Per la Gregoretti, il decreto sicurezza-bis era appena entrato in vigore e l’azione di Salvini poteva essere interpretata come una “legittima conseguenza di scelte politiche condivise dall’esecutivo”, come ha stabilito il giudice di Catania. 

Per l’Open Arms, lo scenario era radicalmente mutato. Il governo Conte I era in piena crisi, con una netta divisione interna sulle politiche migratorie. L’allora premier Conte e parte del governo si dissociarono apertamente dalle scelte di Salvini, come dimostrato dal carteggio citato nell’atto d’accusa del tribunale dei ministri di Palermo.

Un altro aspetto fondamentale riguarda le azioni legali. Nel caso Open Arms, un ricorso al Tar del Lazio sospese il divieto di ingresso, creando un precedente giuridico significativo. I giudici amministrativi ritennero che non si potesse applicare il divieto a una nave di soccorso con naufraghi a bordo. Salvini, ignorando questa decisione, si espose a contestazioni più gravi.

Emergenza umanitaria e responsabilità individuale: i fattori chiave del caso Open Arms

Le condizioni a bordo delle navi rappresentano un ulteriore elemento di distinzione. Diciotti e Gregoretti, pur non essendo attrezzate per lunghe permanenze, erano comunque navi militari con standard minimi garantiti. L’Open Arms, bloccata per 19 giorni, si trovò in una situazione di emergenza sanitaria e psicologica ben più grave, come documentato da diverse relazioni mediche.

Nel caso Gregoretti, ad esempio, il Tribunale dei Ministri ha evidenziato che la nave non era attrezzata per ospitare un elevato numero di persone per diversi giorni. I migranti erano sul ponte di coperta, esposti agli agenti atmosferici, con temperature di 35 gradi. La relazione medica riportava casi di scabbia, micosi cutanee e persino un caso sospetto di tubercolosi.

Infine, c’è la questione della responsabilità politica. Nei casi Diciotti e Gregoretti, l’azione di Salvini sembrava rientrare in una linea condivisa dal governo. Per l’Open Arms, le 114 pagine dell’atto d’accusa dei giudici del tribunale dei ministri di Palermo presentano un quadro diverso: mail con il premier Conte, atti amministrativi e testimonianze di alti funzionari del Viminale indicano che quella decisione fu “espressione dell’attività amministrativa e non di indirizzo politico” ascrivibile solo a Salvini

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Commissione Ue, Breton sbatte la porta in faccia a von der Leyen

In un’Europa già provata da crisi su crisi l’ultima novità che giunge da Bruxelles ha il sapore amaro dell’ennesimo incaglio. La Commissione von der Leyen, ancora in fase embrionale, sta perdendo pezzi come un vecchio orologio mal assemblato. L’ultimo ingranaggio a saltare è stato nientemeno che Thierry Breton, il commissario francese che ha deciso di abbandonare la nave prima ancora che salpasse, lanciando accuse che fanno tremare i vetri del Berlaymont.

Il terremoto Breton: accuse e dimissioni scuotono Bruxelles

Ma andiamo con ordine, se di ordine si può parlare in questo caos istituzionale che sta facendo impallidire persino i più cinici osservatori della politica europea. Breton, indicato da Macron per un secondo mandato, ha improvvisamente gettato la spugna, accusando Ursula von der Leyen di aver giocato sporco. Secondo il commissario dimissionario, la presidente avrebbe tentato di convincere Macron a scaricarlo, promettendo in cambio un portafoglio più succulento per la Francia. Una mossa degna del più basso mercanteggiamento politico, che fa sembrare le trattative per un governo italiano un esempio di fair play.

Von der Leyen, nel suo tentativo di creare una Commissione equilibrata dal punto di vista di genere – un nobile intento, non c’è dubbio – sembra aver scambiato Bruxelles per un set televisivo dove si possono sostituire i concorrenti a piacimento. Slovenia e Romania hanno già dovuto ritirare i loro candidati maschi, sostituendoli con figure femminili. 

Ora c’è la lettera di dimissioni di Breton, un documento che meriterebbe di essere incorniciato e appeso nelle aule di scienze politiche come esempio di come non gestire una transizione di potere. Il commissario uscente accusa von der Leyen di una “governance discutibile”, un eufemismo che nasconde probabilmente un giudizio ben più severo. E quando un uomo che ha passato gli ultimi cinque anni a navigare le acque della politica europea parla di “governance discutibile”, c’è da preoccuparsi seriamente.

“Negli ultimi cinque anni, mi sono sforzato incessantemente di sostenere e promuovere il bene comune europeo, al di sopra degli interessi nazionali e di partito. È stato un onore”, ha scritto Breton nella sua lettera. “Tuttavia, alla luce di questi ultimi sviluppi – ulteriore testimonianza di governance discutibile – devo concludere che non posso più esercitare i miei doveri”

Una Commissione in bilico: le sfide dell’Europa nell’era dell’incertezza

Il timing di questa débâcle non potrebbe essere peggiore. L’Europa si trova ad affrontare sfide epocali: una guerra alle porte, una crisi energetica che minaccia di mandare in tilt le economie del continente, per non parlare dei venti di populismo che soffiano sempre più forti.

La mossa di Breton getta ora Parigi nel caos. Macron si trova a dover nominare un nuovo candidato commissario, in un momento in cui la Francia avrebbe bisogno di tutta la sua influenza a Bruxelles. E non è un segreto che i rapporti tra l’Eliseo e la Commissione fossero già tesi prima di questo incidente diplomatico.

Quello che emerge da questo pantano istituzionale è l’immagine di un’Europa incapace di gestire persino i suoi processi interni più basilari. Se questo è il livello di competenza e coesione che possiamo aspettarci dalla nuova Commissione, c’è da chiedersi come potrà affrontare le sfide titaniche che l’attendono.

La strada per la nuova Commissione si preannuncia lunga e tortuosa. E mentre a Bruxelles si gioca a scacchi con le poltrone, il resto del mondo non aspetta. La speranza è che da questo caos possa emergere una leadership all’altezza delle sfide che ci attendono. Ma al momento, l’unica certezza è che la Commissione von der Leyen sta perdendo pezzi ancora prima di partire. E con essa, rischia di sgretolarsi anche la credibilità dell’intero progetto europeo.

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Caso Asso 29, il Tribunale di Roma ordina un visto per chi fu respinto in Libia

Nel cuore dell’estate del 2018, mentre le spiagge italiane si riempivano di vacanzieri, nel Mediterraneo si consumava l’ennesima illegalità di Stato. La nave mercantile Asso 29 diventava protagonista involontaria di un episodio destinato a lasciare il segno nella storia giuridica italiana. Oggi, a distanza di sei anni, il Tribunale di Roma ha emesso una sentenza che potrebbe cambiare le carte in tavola nel complesso scenario dei respingimenti in mare, smontando il castello di norme su cui si basa la retorica di governo. 

Il caso Asso 29: anatomia di un respingimento controverso

Era il 2 luglio 2018 quando l’Asso 29, seguendo le indicazioni delle autorità italiane, imbarcava oltre 260 persone precedentemente intercettate dalla motovedetta libica Zuwara. Fin qui, potrebbe sembrare un’operazione di routine nel controverso panorama dei soccorsi in mare. Ma è quello che accadde dopo a sollevare un polverone: anziché dirigersi verso un porto italiano, l’Asso 29 fece rotta su Tripoli, riportando i naufraghi in Libia.

La decisione di ricondurre i naufraghi in territorio libico non è passata inosservata. Da quel momento, è iniziata una battaglia legale che ha visto coinvolti attivisti, avvocati e, naturalmente, i sopravvissuti a quel respingimento. Una battaglia che, passo dopo passo, sta mettendo in discussione per l’ennesima volta l’intero sistema dei respingimenti verso la Libia.

La sentenza che cambia tutto: un visto per riparare l’illegalità

La sentenza emessa dal Tribunale di Roma nei giorni scorsi rappresenta l’ultimo, significativo tassello di questo percorso. Già a fine giugno i giudici avevano stabilito che le autorità italiane e il comandante della Asso 29 avrebbero dovuto garantire lo sbarco dei naufraghi in un luogo sicuro. E la Libia, sottolineano i togati, non può essere considerata tale.

Ma c’è di più. Il Tribunale della capitale nei giorni scorsi ha ordinato all’Ambasciata italiana a Tripoli di rilasciare un visto d’ingresso a uno dei ricorrenti, permettendogli di entrare in Italia e chiedere protezione internazionale. Una decisione che apre scenari inediti e potenzialmente dirompenti.

Le implicazioni di questa sentenza vanno ben oltre il caso specifico dell’Asso 29. Mettono in discussione l’intera architettura degli accordi tra Italia e Libia in materia di gestione dei flussi migratori. Se la Libia non è un porto sicuro, come si giustificano i respingimenti operati con il supporto della guardia costiera libica lautamente finanziata dal governo italiano?

Il caso Asso 29: le reazioni

Le reazioni non si sono fatte attendere. Le avvocate Lucia Gennari del progetto Sciabaca&Oruka di ASGI e Ginevra Maccarone del collegio difensivo hanno accolto con favore la decisione. “Questo ragionamento si applica evidentemente a tutti i casi in cui le autorità offrono supporto ai libici nell’operare le intercettazioni”, hanno dichiarato, sottolineando come ogni volta che ciò accade si configuri una violazione del principio di non-refoulement.

Non è la prima volta che la magistratura italiana si esprime in questi termini. Già a giugno, lo stesso Tribunale di Roma aveva condannato le autorità italiane a risarcire altri cinque ricorrenti coinvolti nel caso Asso 29. Ma la sentenza di questi giorni fa un passo ulteriore, ordinando concretamente il rilascio di un visto d’ingresso.

Mentre le aule dei tribunali dibattono, la situazione sul terreno rimane drammatica. Molte delle persone respinte dalla Asso 29 si trovano ancora in Libia, in condizioni che i rapporti internazionali descrivono come altamente pericolose. Organizzazioni per i diritti umani stanno lavorando per permettere loro di entrare legalmente in Italia e chiedere protezione.

La sentenza del Tribunale di Roma riafferma principi fondamentali del diritto internazionale e potrebbe avere ripercussioni significative sulle future politiche migratorie italiane ed europee. Nono stante il vittimismo di qualche ministro italiano. 

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Difesa respinta

Il responsabile editoriale di Pagella politica Carlo Canepa in poche righe ha demolito la retorica di Matteo Salvini sul caso Open Arms mettendo in fila i fatti.

Salvini afferma di essere a processo per aver “difeso i confini”, ma la realtà è più complessa. Il Tribunale dei Ministri lo ha indagato per possibile sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio, in relazione al blocco della nave Open Arms nell’agosto 2019.

La cronologia presentata da Salvini non corrisponde a quella ricostruita dalle autorità. La Open Arms non stava “vagando” per raccogliere migranti, ma effettuava salvataggi e chiedeva ripetutamente l’assegnazione di un porto sicuro. Le offerte di aiuto da parte di Malta e Spagna, citate da Salvini, erano in realtà limitate o impraticabili date le condizioni a bordo.

Contrariamente a quanto affermato, lo sbarco di minorenni e persone vulnerabili non fu immediato, ma avvenne dopo giorni e diverse opposizioni. Inoltre, il secondo decreto di divieto d’ingresso nelle acque italiane fu firmato solo da Salvini, non da altri ministri come lui sostiene.

I dati sugli sbarchi citati dall’ex ministro sono parziali e non tengono conto che il calo era iniziato prima del suo mandato. Inoltre, sebbene il numero assoluto di morti in mare sia diminuito, la percentuale rispetto alle partenze è aumentata durante la sua gestione.

Infine, l’interpretazione di Salvini dell’articolo 52 della Costituzione sulla “difesa della patria” in relazione ai migranti appare forzata e discutibile.

Difesa repinta.

Buon lunedì.

Nella foto: la Open Arms attracca al porto di Crotone, gennaio 2024 (Francesco Placco)

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Il ministro forte con i deboli, debole con la legge

C’è una domanda semplice per smontare il ministro Matteo Salvini a proposito del suo imbarazzante video su sfondo nero in cui dichiara di essere colpevole di “avere difeso l’Italia: da chi? 

Da chi ha difeso l’Italia Matteo Salvini tenendo una banda di disperati su una nave. Ci ha difeso da donne e bambini? Da chi ci ha difeso Matteo Salvini colpevole di omissione di soccorso poiché con la nave bloccata al porto l’operazione Sar – di ricerca e soccorso – era ancora attiva Ci ha difeso dagli scafisti che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni aveva promesso di scovare in tutto l’orbe terraqueo prima di stringere le mani dei governi che sugli scafisti reggono il proprio potere ricattatorio?

Salvini non è “colpevole di avere difeso l’Italia”. Salvini è politicamente colpevole di essere forte con i deboli e debole con i forti. Salvini è politicamente colpevole di essere parte di un governo che vede lui sotto processo, Delmastro che sarà a processo, Santanchè che sarà a processo, Pozzolo che sarà a processo, Montaruli già condannata, Sangiuliano probabilmente indagato, Toti ai servizi sociali. 

Salvini è politicamente colpevole di alimentare il giogo che ha trasformato Rainews in un triste megafono di governo. Salvini è politicamente colpevole di avere inventato la concimazione dei bassi istinti come metodo elettorale. Salvini è politicamente colpevole di avere trascinato l’Italia in un grottesco processo in cui rivendica di essere al di sopra del diritto internazionale. 

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La crociata contro gli eco-attivisti, dal Regno Unito all’Italia di Giorgia Meloni – Lettera43

In Gran Bretagna chi protesta per il clima rischia il carcere. Con pene superiori a quelle previste per aggressione a sfondo razziale. Le organizzazioni per i diritti lanciano l’allarme, ma l’esempio britannico pare aver già attecchito nel nostro Paese. Come dimostrano il giro di vite sul blocco stradale e il caso Baggio. Questa destra non si fa mancare proprio nulla.

La crociata contro gli eco-attivisti, dal Regno Unito all’Italia di Giorgia Meloni

Stephen Gingell ha 57 anni e lo scorso 12 novembre insieme a una quarantina di persone ha trascorso mezz’ora su Holloway Road nel nord di Londra. Una marcia lenta per protestare contro i combustibili fossili e il cambiamento climatico. La campagna Just stop oil nel Regno Unito sta coinvolgendo giovani e adulti. A dicembre 2023 si è dichiarato colpevole di fronte al tribunale di Wimbledon. Il suo caso è stato trasferito al tribunale di Manchester che ha emesso la sentenza definitiva: sei mesi di carcere per avere violato l’articolo 7 del Public Order Act 2023 che vieta «qualsiasi atto che impedisca a macchine da stampa di giornali, centrali elettriche, siti di estrazione o distribuzione di petrolio e gas, porti, aeroporti, ferrovie o strade di essere utilizzati o gestiti in qualsiasi misura». L’organizzazione per i diritti umani Liberty ha criticato la condanna di Gingell. Katy Watts, un avvocato dell’organizzazione, ha detto che «è scioccante vedere sentenze così dure impartite ai manifestanti». «Questa», ha aggiunto, «è un’altra legge inutile e draconiana introdotta da un governo che è deciso a scoraggiare le persone dal difendere ciò in cui credono. È un chiaro tentativo di mettere a tacere le persone e per il governo di nascondersi da ogni responsabilità». All’avvocato per i diritti umani è toccato ricordare che «la protesta è un diritto fondamentale, non un dono dello Stato. Il governo dovrebbe proteggere il nostro diritto di protestare, non criminalizzarlo».

La crociata contro gli eco-attivisti, dal Regno Unito all'Italia di Giorgia Meloni
Una manifestazione di Just Stop Oil nel Regno Unito (Getty Images).

Nel Regno Unito da quando nell’aprile 2022 è iniziata la campagna Just Stop Oil sono stati arrestati 2 mila attivisti

Nell’ottobre del 2022 due attivisti sempre di Just Stop Oil hanno scalato un ponte sul Dartford Crossing, costringendo la polizia a chiuderlo al traffico. Morgan Trowland, 40 anni, e Marcus Decker, 34 anni, sono stati condannati a fine aprile del 2023 a più di due anni e mezzo ciascuno per aver causato un «disturbo pubblico». Il giudice Collery pronunciando la sentenza ha detto di avere voluto essere estremamente severo per evitare emulazioni. Da quando la campagna Just Stop Oil è iniziata, il primo aprile 2022, più di 2 mila persone sono state arrestate e 138 hanno trascorso del tempo in prigione. Lo scorso luglio, in un caso che ha avuto risonanza a livello internazionale, cinque manifestanti inglesi (tra cui il co-fondatore di Just Stop Oil Roger Hallam) sono stati condannati dai quattro ai cinque anni per avere partecipato a una riunione su Zoom in cui si pianificava una manifestazione di protesta sull’autostrada M25 che circonda la Greater London.

La crociata contro gli eco-attivisti, dal Regno Unito all'Italia di Giorgia Meloni
Protesta contro la condanna di Daniel Shaw, Louise Lancaster, Lucia Whittaker De Abreu, Cressida Gethin e Roger Hallam (Getty Images).

Il caso Baggio, l’applicazione della sorveglianza speciale e il Ddl anti-Gandhi

L’inquietante linea repressiva britannica ha lo stesso retrogusto dell’applicazione, in Italia, della sorveglianza speciale per Giacomo Baggio, attivista di Ultima Generazione. Per lui recentemente la questura di Roma ha chiesto due anni di obbligo di permanenza nel Comune di residenza, coprifuoco notturno dalle 20:00 alle 7:00, obbligo di firma quotidiano e divieto di partecipare a qualsiasi manifestazione a sfondo politico, compresi gli eventi culturali. Tutto questo mentre si discute alla Camera il cosiddetto “Ddl anti-Gandhi” che vorrebbe inasprire le pene per il blocco stradale e introdurre nuove fattispecie di reato specificamente modellate sulle proteste ambientaliste. Anche nel caso italiano lo scopo sarebbe quello di ottenere un effetto deterrente.

La crociata contro gli eco-attivisti, dal Regno Unito all'Italia di Giorgia Meloni
Giacomo Baggio (da youtube).

L’esempio di Londra sarà seguito dai Paesi autoritari. A partire dall’Italia meloniana

Linda Lakhdhir, direttrice legale di Climate Rights International, sul Guardian racconta che nel Regno Unito nel 2023, l’allora ministro degli Interni Suella Braverman ha introdotto una legge che consente alla polizia di fermare le proteste se disturbano anche «in misura minore» le persone che svolgono le loro attività quotidiane. Le novità legislative sotto i Tories hanno reso la pena per i manifestanti che si “attaccano” a un oggetto, per terra o a un’altra persona con una qualche forma di adesivo o manette più di due volte superiore a quella per aggressione a sfondo razziale. «Che a uno piacciano o meno le tattiche dei manifestanti climatici, la protesta pacifica – compresa la disobbedienza civile pacifica – è un diritto fondamentale», spiega Lakhdhir. «Coloro che si impegnano nella disobbedienza civile sono disposti a pagarne le conseguenze. Ma, in una società democratica, le leggi e la loro applicazione dovrebbero essere ragionevoli e le conseguenze proporzionate. In più di 10 anni di ricerca e difesa sul diritto di protestare, ho visto come le restrizioni a quel diritto portino a un soffocamento della società civile e a un governo che si isola dalle critiche dei suoi cittadini». Per Lakhdhir «l’esempio che sta dando il Regno Unito è quello che sarà seguito da Paesi autoritari desiderosi di giustificare i propri giri di vite sulle proteste». La sensazione è che il primo Paese autoritario che ha raccolto l’esempio sia proprio l’Italia di Giorgia Meloni.

L’articolo proviene da Lettera43 qui https://www.lettera43.it/attivisti-clima-regno-unito-arresti-just-stop-oil-blocco-stradale-giacomo-baggio-ultima-generazione/

Il Pnrr tra ritardi e ostacoli: a rimetterci è pure il Terzo settore

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) doveva rappresentare un’opportunità storica per l’Italia e per il Terzo settore. Tuttavia, l’analisi dei dati forniti da Openpolis rivela un quadro preoccupante, caratterizzato da ritardi, complessità burocratiche e scarso coinvolgimento del no profit.

I numeri parlano chiaro: su diverse misure cruciali per il Terzo settore, l’attuazione procede a rilento. Nel settore sanitario, ad esempio, il progetto delle Centrali Operative Territoriali (Cot) mostra significativi ritardi. Al 22 gennaio 2024, risultavano stipulati 574 contratti per la realizzazione di altrettante Cot, a fronte di un obiettivo di 600 centrali operative entro fine 2024. Alcune Regioni hanno accumulato ritardi tali da rendere necessari piani di rientro.

Ritardi e complessità: il Pnrr zoppica sui progetti chiave

Ancora più critica la situazione degli interventi di contrasto alla povertà educativa nel Mezzogiorno, unica misura che vede gli enti del Terzo settore come soggetti attuatori. Dei 220 milioni stanziati, risultano attivati progetti per soli 62,4 milioni di euro. Un dato che evidenzia le difficoltà del settore nell’accedere e gestire i fondi del Pnrr.

La rigenerazione urbana, altro ambito di interesse per il no profit, presenta incongruenze preoccupanti. Per i Piani Urbani Integrati, risultano attivi progetti per 2,9 miliardi di euro, una cifra che supera di gran lunga l’attuale importo assegnato alla misura (1,4 miliardi). Questa discrepanza solleva dubbi sulla effettiva realizzabilità di tutti gli interventi previsti.

Un nodo cruciale riguarda la distribuzione territoriale delle risorse. Nonostante l’obiettivo di destinare il 40% dei fondi al Sud, diverse misure mostrano percentuali inferiori. È il caso dei progetti per le Green communities, con solo il 36,3% delle risorse al Mezzogiorno, o degli interventi per il miglioramento della qualità dei servizi pubblici digitali, fermi al 34,3% per il Sud.

Trasparenza e monitoraggio: le zone d’ombra del Piano

La scarsa trasparenza e la difficoltà di monitoraggio di molti progetti rappresentano un’ulteriore criticità. Con l’uscita dal perimetro del Pnrr di alcune misure, vengono meno gli stringenti obblighi di rendicontazione previsti dal Piano. È il caso, ad esempio, degli 803 progetti per le infrastrutture sociali di comunità, del valore di circa 500 milioni, non più inclusi nel Pnrr. O ancora dei 254 interventi sui beni confiscati, per 300 milioni complessivi.

Anche laddove i progetti rimangono nel Piano, si registrano riduzioni degli obiettivi o slittamenti temporali. L’investimento per asili nido e scuole dell’infanzia, ad esempio, ha visto una revisione al ribasso del target di nuovi posti da creare (da 264.480 a 150.480). Per l’housing sociale e le stazioni di posta per i senza fissa dimora, è stato posticipato di un anno il termine per il completamento degli interventi.

La capacità di spesa rappresenta un altro elemento di preoccupazione. Per diverse misure di interesse per il Terzo settore, le risorse effettivamente assegnate sono ancora ben al di sotto degli stanziamenti previsti. Per il Servizio Civile, ad esempio, dei 650 milioni stanziati, risultano assegnati progetti per soli 428 milioni di euro.

La complessità delle procedure burocratiche amplifica queste criticità. Il programma Gol (Garanzia Occupabilità Lavoratori) è emblematico: nonostante diversi interventi correttivi per semplificare l’accesso ai fondi, al 18 aprile 2024 risultavano attivi solo 968 progetti per un importo di 658,4 milioni, a fronte di uno stanziamento complessivo di 5,5 miliardi.

Il quadro che emerge è quello di un’opportunità che rischia di essere mancata. La mancanza di un coinvolgimento strutturale del Terzo settore nella progettazione e attuazione degli interventi limita l’efficacia del Pnrr proprio in quei settori – dal welfare all’inclusione sociale – in cui il no profit potrebbe giocare un ruolo chiave.

Per invertire la rotta, servirebbe un cambio di passo deciso: procedure più snelle per l’accesso ai fondi, un maggiore ruolo degli enti nella co-progettazione degli interventi, e soprattutto un monitoraggio costante e trasparente dell’attuazione del Piano. Solo così il Pnrr potrà trasformarsi da semplice elenco di progetti e risorse in un vero motore di cambiamento, capace di valorizzare appieno il contributo del Terzo settore per una ripresa equa e sostenibile.

I dati di Openpolis lanciano un chiaro allarme: senza un intervento deciso, il rischio è che questa occasione storica si trasformi in un’ennesima promessa mancata per il Terzo settore e, di conseguenza, per tutto il Paese.

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