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Giulio Cavalli

Giustizia, dopo il bavaglio sulle intercettazioni nel mirino c’è la legge Bonafede

Alla fine hanno dovuto mettere la fiducia, la diciannovesima del 2023. Anche se di fiducia, sul decreto omnibus sulla Giustizia passato ieri alla Camera, ce n’è poca perfino nella maggioranza. Il punto più rilevante del decreto riguarda l’estensione dell’uso delle intercettazioni oltre i reati di mafia: il tema, sollevato da una sentenza della Cassazione del 2022, ha spinto il governo ad allargarne l’uso anche ai reati aggravati dal metodo mafioso.

Il punto più rilevante del decreto giustizia riguarda l’estensione dell’uso delle intercettazioni oltre i reati di mafia

L’opposizione ha alzato la voce sul divieto di trascrizione delle intercettazioni non rilevanti ai fini delle indagini. Il Pd aveva avanzato dubbi sull’incostituzionalità della riforma che metterebbe in discussione il diritto alla difesa. Forza Italia ha ottenuto l’accordo su due emendamenti: uno sulla non trascrizione delle conversazioni irrilevanti e un altro sulla necessità da parte dei pm di motivare in maniera specifica i motivi per i quali si chiede di intercettare un indagato.

Paolo Emilio Russo, deputato di Forza Italia, intervenendo nell’Aula di Montecitorio, durante le dichiarazioni di voto di fiducia esulta: “Abbiamo migliorato il testo in senso garantista perché il garantismo è uno dei valori fondanti di Forza Italia, un principio che consideriamo inderogabile. Questo successo non è piaciuto a un pezzo dell’opposizione perché riafferma il ruolo che Forza Italia ha nel Paese da trent’anni”, ha detto all’Aula.

Così il decreto nato per blindare l’utilizzo delle intercettazioni nei processi di mafia è finito sotto una pioggia di emendamenti che di fatto renderà ancora più complicato indagare. Il messaggio politico è semplice: usare le intercettazioni per un’indagine sarà sempre più difficile. Esulta l’onorevole forzista Pietro Pittalis per la scomparsa, anche dei verbali, delle intercettazioni non rilevanti e per la limitazione “delle possibilità di utilizzo dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per cui sono stati disposti” a meno che “non risultino rilevanti e indispensabili per l’accertamento di reati per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza”.

Blitz delle destre con Azione e Iv sulla prescrizione. L’obiettivo è resuscitare la ex Cirielli cara a Berlusconi

Nel frattempo, sempre alla Camera, la destra (con Azione e Iv) piazza l’ennesimo blitz in Commissione Giustizia dove è stato adottato come testo base la proposta dello stesso Pittalis che prevede il ritorno alla legge ex Cirielli del 2005, una delle tante norme ad personam dell’era Berlusconi: se approvata il tempo di estinzione dei reati tornerebbe a correre in tutti i gradi di giudizio. Con l’effetto di cancellare la riforma Bonafede, che interrompe il decorso della prescrizione con la sentenza di primo grado. Contemporaneamente verrebbe eliminato anche il meccanismo dell’improcedibilità introdotto dalla riforma Cartabia.

Un blitz andato a buon fine anche grazie alla spinta della Lega di Matteo Salvini. E pazienza se quella norma – la ex Cirielli, appunto – fu a suo tempo già bollata come incostituzionale. Resta da vedere se l’atteggiamento sia da inserirsi più in una trattativa interna alla maggioranza o sia un reale proposito. Una cosa è certa: mentre il Governo mostra il pugno duro contro i minorenni, i genitori con figli che non vanno a scuola o contro i disperati che arrivano dal mare stona la mollezza con cui fanno di tutto per garantire l’impunità suii reati commessi dai “colletti bianchi”.

Accade così che nel Paese in cui si inaspriscono le pene per un rave party si ammorbidisca l’attenzione sui delittii contro la pubblica amministrazione, spesso spia di reati di matrice mafiosa. In attesa ovviamente di arrivare a un attacco diretto alla magistratura, appena la maggioranza troverà la quadra.

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Salvini gioca con il Ponte. Come un bimbo con i Lego

Come capita a chi ha il terrore di avere idee troppo labili per diventare memoria, il ministro alle Infrastrutture Matteo Salvini ha deciso che il Ponte sullo Stretto debba essere l’eredità da lasciare agli italiani. Che l’opera gli interessi per una mera soddisfazione personale lo dimostra la sfilza di dichiarazioni dei tempi passati in cui il leghista definiva quest’opera inutile, costosa e perfino dannosa.

Il ministro alle Infrastrutture Salvini ha deciso che il Ponte sullo Stretto debba essere l’eredità da lasciare agli italiani

Nel ruolo della mamma che limita il bimbo cattivo c’è la presidente del Consiglio Giorgia Meloni che due giorni fa ha fatto sapere all’alleato del governo che no, i soldi per il gioco del Ponte non ci sono. Anzi, a ben vedere, di soldi non ce ne sono nemmeno per stilare una Legge di Bilancio degna di questo nome. “Governare vuol dire fare delle scelte e darsi priorità. Il nostro scopo non deve essere quello di inseguire il consenso, ma di raggiungere risultati concreti”, ha detto Giorgia.

La traduzione è fin troppo semplice: caro Matteo smetti di cincischiare e impara a diventare un ometto. Ieri Salvini di tutta risposta ha deciso di adottare la tattica del mulo. Finge di non capire, strizza gli occhi sperando che la realtà intorno svanisca come un brutto sogno.

“Sul finanziamento all’opera non sono sereno, di più, sono assolutamente soddisfatto di quello che abbiamo pianificato”, ha detto Salvini ieri a Milano, garantendo che i cantieri si apriranno nell’estate del 2024 (la stagione dei parchi dei divertimenti) e che nel 2032 ci saranno i primi treni. “Io sono convinto che gli italiani 10 anni di tempo ce li daranno”, ha detto Salvini, sicuro di essere ancora ministro per allora. E qualcuno gli avrà detto accarezzandolo “sì certo Matteo, certo, ma adesso fai il bravo”.

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Fiasco Rai firmato Pino Insegno. Il mercante in fiera vende il flop delle destre

Ha trascorso gli ultimi mesi lamentandosi di una dittatura ostile che l’avrebbe escluso dalla televisione. Poi quando finalmente ha ottenuto la sua trasmissione in Rai (con l’amica Giorgia Meloni al governo) si scopre che a non guardarlo sono i telespettatori, mica i dirigenti. Lunedì 25 settembre Pino Insegno ha debuttato con la sua trasmissione Il mercante in fiera in fascia preserale su Rai2.

Ascolti a picco per Il mercante in fiera. Insegno su Rai2 è passato dal 3,4% del debutto all’1,9% della terza puntata

Il risultato è stato da brividi: il 3.4% e una media di 638mila spettatori, superato anche da Via dei Matti N. 0 con Stefano Bollani e Valentina Cenni che, su Rai3, hanno totalizzato il 4.5% di share con 904mila appassionati. Insegno è stato battuto anche dalla serie CSI Miami su Italia1 con i suoi 695mila spettatori (3.9%) e in valori assoluti anche dalla soap di Rete4 Tempesta d’Amore, che ha segnato invece 651mila affezionati (3.4%). Ancora peggio la terza puntata che ha totalizzato l’1,9% con 358.000 spettatori.

Non potendo accusare sabotatori comunisti (ormai in Rai la vicinanza con il governo è un prerequisito essenziale) Insegno ci aveva spiegato che il risultato della sua prima puntata “non è un flop”. “Gli ascolti sono buoni, – aveva commentato il conduttore nella giornata di martedì parlando con Adnkronos) in linea con la rete, un po’ più alti, la cosa bella è che finiamo il programma al 5% di share quindi il programma è andato in crescendo e ha chiuso in grande crescendo. Quello che dobbiamo fare noi ora è cercare di raddoppiare gli ascolti di quella fascia’’.

Secondo Insegno i telespettatori avrebbero bisogno di “scoprire che c’è un programma”: “andrà sempre meglio”, ha assicurato. In realtà il comico non la dice tutta: l’anno scorso, infatti, – come nota Marco Zonetti per Dagospia – il telefilm Blue Bloods, con la replica dell’episodio dal titolo Interferenza (andato in onda la prima volta il 15 maggio 2020) ottenne ben 906mila spettatori con il 4.91%.

Il telefilm precedente, Hawaii Five 0, con l’ennesima riproposizione dell’episodio Nella rete (andato in onda per la prima volta nel lontano 26 agosto 2012…), fece 519mila spettatori con il 3.72%, una percentuale di share più alta di quella di Insegno. C’è un’altra piccola differenza: lo show di Insegno costa molto più di una vecchia replica poiché è realizzato da una società esterna, la Banijay.

Vi ricordate quando la destra tuonava contro il programma di Fabio Fazio perché si avvaleva di esterni? Ecco, esattamente così. Solo che Fazio in Rai raccoglieva numeri che ingolosivano gli inserzionisti e si ripagava da solo. Il giorno successivo, martedì 26, la trasmissione si preparava quindi per veleggiare verso il raddoppio. Com’è andata La seconda puntata si è fermata al 2.0% di share con 364mila spettatori. Sostanzialmente metà delle persone che hanno seguito il debutto hanno preferito guardare altro.

Il conduttore amico della Meloni lamentava l’ostracismo della tv pubblica. Ora ha un programma ma il pubblico latita

Ora in Rai cominciano a preoccuparsi sul serio. Se è vero che il format della trasmissione è la brutta copia di un fallimento che risale a diciassette anni fa (allora andava in onda su Italia 1) in viale Mazzini preoccupa la conduzione de L’eredità che partirà da gennaio, con Insegno al posto di Flavio Insinna. Una fallimento in quel caso peserebbe non poco sulle casse dell’azienda pubblica.

Pino Insegno negli ultimi mesi si è difeso dall’accusa di essere tornato in Rai per la sua vicinanza alla premier esibendo i suoi quarant’anni di carriera. Quando gli è stato chiesto perché fosse andato per ben due volte a Palazzo Chigi per appuntamenti privati con la presidente del Consiglio ha giustificato le sue visite con alcune iniziative per sostenere malati di Sla e perché “il caffè è buono”. “Con FdI mi sono sentito di stare vicino a un cambiamento, con la speranza che sia reale, importante”, ha detto in una recente intervista. Ora gli conviene sperare anche un po’ per se stesso.

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L’Italia affonda, Meloni esalta la pesca dell’Esselunga

Giorgia Meloni, così indaffarata come ama raccontarsi e così schiva quando c’è da rispondere alle domande ieri ha trovato il tempo di affrontare un tema che affligge il Paese: l’ultimo spot pubblicitario della catena di supermercati Esselunga, da sempre molto vicina ai partiti di governo.

Protagonista della réclame della catena di supermercati Esselunga la figlia di genitori separati. Alla faccia della famiglia tradizionale

La protagonista del cortometraggio è una bambina – Emma – figlia di genitori che solo alla fine si scopre essere separati. Compera una pesca assieme alla mamma e la regala poi al papà, dicendo però che gliela manda la mamma. Sui social c’è chi confronta il nuovo spot ai classici del Mulino Bianco, sottolineando che “finalmente viene raffigurata una famiglia reale e non immaginaria” e c’è chi invece si mette dalla parte dei bambini sostenendo che la vicenda di Emma “risveglia sofferenze in chi ha provato l’esperienza della separazione”.

Una cosa è certa: il feticcio della famiglia tradizionale (e quindi indissolubile) ha mandato in solluchero gente come l’ex senatore Pillon e i tradizionalisti più convinti. Ieri è arrivato anche l’agognato parere della presidente del Consiglio: “Leggo che questo spot avrebbe generato diverse polemiche e contestazioni. Io lo trovo molto bello e toccante”, ha scritto sui social Meloni.

Che mentre il Paese affonda dietro a decine di emergenze ha ritenuto fondamentale esprimere la propria opinione politicizzando uno spot pubblicitario di un imprenditorie privato (amico suo) sul solco della migliore politica figliastra delle televendite. Del resto Meloni non ha il problema di separarsi, non essendo ancora sposata come pretenderebbe la famiglia tradizionale che insistentemente propugna.

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L’ipocrisia (ancora) su Giulio Regeni

L’Egitto non può impedire che l’Italia processi gli imputati per il sequestro, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni, e il giudizio nei loro confronti potrà celebrarsi anche in loro assenza. Lo ha stabilito la Corte costituzionale che ha annunciato oggi la sua decisione.

La Consulta ha raccolto la richiesta avanzata dalla Procura di Roma per sbloccare il processo contro quattro appartenenti alle forze di sicurezza della Repubblica araba d’Egitto: il generale Sabir Tariq, i colonnelli Mohamed Athar Kamel e Helmy Uhsam, il maggiore Magdi Ibrahim Sharif. Sono accusati di aver rapito al Cairo, la sera del 25 gennaio 2016, il ricercatore italiano Giulio Regeni, ritrovato cadavere lungo la strada per Alessandria il 3 febbraio successivo. Il maggiore Sharif è accusato anche delle percorse e dell’omicidio di Giulio.

Il processo si è incagliato per la reticenza dell’Egtto e del suo presidente al Sisi. Verrebbe da pensare che un atteggiamento del genere da parte delle autorità egiziane abbia fatto perdere la pazienza anche alla politica, soprattutto con un governo che si professa sovranista, in difesa “della Patria” e occupato a fare ottenere giustizia “prima agli italiani”.

Niente di tutto questo. Alice Franchini, responsabile campagne di EgyptWide, ieri ci ha fatto sapere che «l’export di armi italiane all’Egitto non solo non si è ridotto, come qualcuno sostiene, ma dal 2018 osserviamo un trend di crescita costante»: il volume è passato dai 35 milioni di euro del 2021 ai 72 milioni del 2022. Praticamente il doppio.

Buon giovedì. 

foto del Comune di Torino – Comune di Torino, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=48032436

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Italiani alla canna del gas. Santanchè li vuole in vacanza

Allergica alle interviste come la sua presidente del Consiglio Giorgia Meloni, la ministra del Turismo Daniela Santanchè ha scritto una lettera al quotidiano Libero per spiegarci che “chi viaggia esce dal suo ambiente per andare verso un altro, ed è qui che avviene l’incontro tra culture, tradizioni e stili di vita differenti, che genera un patrimonio di ricchezza, immateriale ed economico, che contribuisce alla crescita di una Nazione. Il valore del turismo – dice la ministra -, quale motore culturale e acceleratore economico, è alla base del lavoro che governo e ministero stanno facendo per portare il comparto a essere la prima industria italiana e traino del Pil”.

Il problema secondo la ministra del Turismo Daniela Santanchè è che gli italiani vanno in vacanza troppo poco

Il problema secondo ministra che ha promesso di portare “l’azienda Italia” ai vertici mondiali del turismo è che gli italiani vanno in vacanza troppo poco. “Dobbiamo emanciparci dal concetto di stagionalità”, dice Santanchè, inorridita dal fatto che questi bifolchi degli italiani visitino il mare per qualche settimana d’estate e solo alcuni di loro anche la montagna d’inverno.

Deve esserle sfuggita – come spesso le accade – la realtà dei cittadini che dovrebbe governare: a mancare agli italiani non sono i soldi per le vacanze ma molto più prosaicamente i soldi per arrivare a fine mese, più che per arrivare in una località turistica. Se avesse trovato il tempo di leggere i dati avrebbe scoperto – immaginiamo con stupore – che oggi in Italia sono le spese per mangiare, per scaldarsi e per riempire il serbatoio dell’auto a impedire “l’incontro tra culture” degli italiani. Di una cosa siamo sicuri: per la ministra qualsiasi eventuale fallimento sarà, come sempre, colpa dei cittadini.

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Migranti, la Tunisia ridicolizza Meloni e Bruxelles

Ci sono molti modi per fallire e il governo Meloni sull’immigrazione ha scelto il peggiore: rendendosi ridicolo. Nella lettera della presidente del Consiglio Giorgia Meloni al cancelliere tedesco Scholz, ad esempio, torna in auge la teoria del cosiddetto “pull factor”, ovvero delle Ong che spingerebbero i migranti a imbarcarsi nel Mediterraneo aumentando sensibilmente le partenze.

Intanto Carroccio e Fratelli d’Italia continuano a diffondere la falsa teoria del pull factor

È questo il motivo per cui il ministro alle Infrastrutture Matteo Salvini da due giorni insiste a denunciare un “atto ostile” da parte della Germania che ha deciso di finanziare alcune organizzazione non governative che operano anche in Italia. Il loro ragionamento è semplice, persino banale: se le Ong aumentano gli sbarchi pagare le Ong significa mettere l’Italia nella condizione di subire una pressione migratoria maggiore. Ma se non fosse così? Se non fosse così saremmo di fronte all’ennesima patetica bugia di chi cerca lo scontro istituzionale per alzare i toni e fare incetta di qualche manciata di voti. E infatti non è così.

Come osserva Pagella politica che ha analizzato i numeri (e su quelli non si può mentire) dall’inizio del 2023 sono sbarcati sulle coste italiane oltre 133 mila migranti, quasi il doppio rispetto allo stesso periodo del 2022 e il triplo rispetto allo stesso periodo del 2021. In compenso la percentuale di migranti salvati dalle navi Ong nel Mar Mediterraneo è diminuita sia in valore assoluto sia in percentuale. Secondo i dati del Ministero dell’Interno, nei primi sette mesi di quest’anno le Ong hanno salvato meno di 4 mila migranti, circa il 4 per cento sul totale di quelli soccorsi in mare.

Così i sovranisti cercano di scaricare sulle Ong la colpa del loro fallimento sugli sbarchi

Nei primi sette mesi del 2022 questi numeri erano stati pari rispettivamente a oltre 6 mila e al 15 per cento. In totale i migranti soccorsi tra gennaio e luglio 2023 sono stati quasi 65 mila, nello stesso periodo del 2022 erano stati circa un terzo. Basta una semplice occhiata ai numeri per capire già di primo acchito quindi che non ci sia nessun collegamento. A settembre 2020 è stata pubblicata una ricerca realizzata da Eugenio Cusumano, ricercatore in Relazioni internazionali dell’Università di Leiden, nei Paesi Bassi, e da Matteo Villa, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi).

I due ricercatori, aggiornando un loro studio del 2019, si sono chiesti, numeri alla mano, quanto fosse solida la teoria del pull factor. Per rispondere a questa domanda, hanno analizzato i dati delle partenze dei migranti dalle coste della Libia avvenute tra gennaio 2014 e l’inizio di gennaio 2020. Le fonti di questi dati sono la Guardia costiera italiana, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr).

Secondo lo studio, gli unici fattori che nell’arco di tempo analizzato hanno avuto un impatto nell’aumento del numero delle partenze sono stati le condizioni meteo (quelle favorevoli incentivano le traversate in mare) e il livello di instabilità politica (calcolato usando l’andamento della produzione di petrolio in Libia). A conclusioni simili è arrivata una ricerca più recente, pubblicata a inizio agosto di quest’anno sulla rivista scientifica Scientific Reports, che fa parte del gruppo che pubblica anche Nature. Perfino l’Agenzia dell’Ue Fronte ha smesso di votare il “pull factor” nei suoi documenti.

La Tunisia mette alla porta i delegati Ue. Finora Saied non ha visto un euro. E snobba ancora gli inviati europei

Si ritorna quindi alla domanda iniziale: se si accusa la Germania per un condizionamento che nei fatti non esiste che figura si fa Pessima, appunto. Anche perché nel frattempo il cosiddetto “Stato amico” – ovvero la Tunisia – elemento fondante del Piano Mattei sventolato da Giorgia Meloni continua a smentire tutte le promesse. Il presidente tunisino Saied ha deciso, nel corso di una riunione del Consiglio di sicurezza nazionale tenutasi al Palazzo di Cartagine, di incaricare il ministero degli Esteri, della migrazione e dei tunisini all’estero di informare Bruxelles della “decisione di rinviare la visita di una delegazione del Consiglio europeo” che aveva previsto di “recarsi in Tunisia, a una data successiva da concordare tra le due parti”. Ci sono molti modi di fallire, loro hanno scelto il peggiore.

Leggi anche: Carta straccia l’intesa con la Tunisia sui migranti

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Giulio Cavalli | Fanpage

Autore, attore, scrittore, politicamente attivo. Racconto storie, sul palcoscenico, su carte e su schermo e cerco di tenere allenato il muscolo della curiosità. Collaboro dal 2013 con Fanpage.it, curando le rubriche “Le uova nel paniere” e “L’eroe del giorno” e realizzando il format video “RadioMafiopoli“. Quando alcuni mafiosi mi hanno dato dello “scassaminchia” ho deciso di aggiungerlo alle referenze.

Il governo apparecchia il bottino per le mafie

Può andare sempre peggio, possono sempre fare peggio. La bozza dell’ennesimo decreto migrazione che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni si prepara a discutere con i suoi ministri è un ulteriore passo sul sentiero della disumanità e della cretineria politica.

Svetta tra gli orrori la modifica che riguarda i “minori stranieri non accompagnati”. Sono in sostanza – vale la pena di dirlo – bambini e ragazzini che attraversano l’Africa, passano tra i denti della Libia e sbarcano (se non annegano) sulle coste italiane. Purtroppo per loro sono neri e non hanno una pesca con cui intenerire il pubblico televisivo italiano in un lacrimevole spot pubblicitario.

Dalle parti del governo hanno deciso che d’ora in poi l’età potrà essere “apparente”, al pari della temperatura percepita, affidata a un non specificato “sesto senso di Stato”. Quelli “apparentemente” sedicenni potranno essere controllati su mandato “orale” della Procura senza più doversi preoccupare che gli esami avvengano in “un luogo idoneo” e con tutte le cautele “rispettose dell’età presunta, del sesso e dell’integrità fisica e psichica della persona”  come accadeva fino a oggi.

A questo punto i minori percepiti potranno essere gettati in mezzo agli adulti, fingendo che i migranti minorenni siano i più vulnerabili. Accadrà quindi che questi ragazzi con ancora meno tutele diventeranno il bottino perfetto per ingrossare la manovalanza della criminalità organizzata più di quanto già avvenga. A quel punto certi giornalacci di destra potranno strillare contro la mancata integrazione e la propensione criminale e Meloni e Salvini potranno riproporsi per risolvere il problema che hanno ceato.

Buon mercoledì.

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Una legge per annacquare il reato di tortura. FdI non perde il vizio

A marzo di quest’anno le opposizioni avevano lanciato l’allarme: il recondito sogno della maggioranza di rivedere il reato di tortura era un pericolo reale. Oggetto della discussione fu un disegno di legge per abrogare il reato di tortura introdotto nell’ordinamento italiano nel 2017 dopo un tormentato iter parlamentare. A presentarla, alcuni esponenti di Fratelli d’Italia, prima firmataria Imma Vietri.

Il ddl Vietri che punta a rivedere il reato di tortura arriva in Commissione al Senato. Maglie più larghe per gli agenti violenti

Con il provvedimento, assegnato in Commissione Giustizia del Senato, si intendono di fatto abrogare gli articoli 613-bis e 613-ter del codice penale che introducevano il reato e si lascia in piedi solo una sorta di aggravante all’articolo 61 del codice penale. “L’incertezza applicativa in cui è lasciato l’interprete” con le norme introdotte nel 2017, “potrebbe comportare la pericolosa attrazione nella nuova fattispecie penale di tutte le condotte dei soggetti preposti all’applicazione della legge, in particolare del personale delle Forze di polizia che per l’esercizio delle proprie funzioni – spiegano i firmatari nella relazione al ddl – è autorizzato a ricorrere legittimamente anche a mezzi di coazione fisica”.

Se non si abrogassero gli articoli 613-bis e 613-ter, si legge ancora “potrebbero finire nelle maglie del reato in esame comportamenti chiaramente estranei al suo ambito d’applicazione classico, tra cui un rigoroso uso della forza da parte della polizia durante un arresto o in operazioni di ordine pubblico particolarmente delicate o la collocazione di un detenuto in una cella sovraffollata”.

Negli ultimi mesi il governo si è affrettato a sminuire l’allarme spiegando che l’abolizione o la modifica del reato di tortura non era all’ordine del giorno, ma ieri in commissione Giustizia del Senato c’è stato l’esame di due disegni di legge che propongono di allargare le maglie della legge vigente fino a renderla omeopatica. Uno prevede la modifica (M5S) e l’altro (FdI) l’abrogazione, declassando la tortura ad aggravante comune. Con l’abolizione prevista dalla proposta di Fratelli d’Italia, che sottintende di conseguenza la derubricazione ad aggravante comune, si elimina la punibilità di chi utilizza la tortura come uno strumento di sopraffazione e, quindi, ciò risulta rischioso e non conforme con l’etica collettiva.

Un risultato simile potrebbe presentarsi anche con una modifica, definita “migliorativa”, della disciplina attualmente in vigore. Il rischio, qui, è quello di rallentare o eliminare i processi e le procedure già in corso e di far cadere in prescrizione i reati, come dichiarato anche dal Garante nazionale delle persone private della libertà personale.

Presentato un testo che riduce il reato per i pubblici ufficiali. Amnesty scrive a La Russa per fermare il blitz

Sul tentativo di abrogazione nei giorni scorsi è intervenuta anche Amnesty International con un appello al presidente del Senato Ignazio La Russa in cui si sottolinea che dopo quasi trent’anni dalla ratifica della Convenzione Onu contro la tortura da parte dell’Italia (nel 1989), finalmente, nel 2017 il Parlamento ha adempiuto all’obbligo di introdurre nell’ordinamento penale il reato di tortura punendo in maniera adeguata gravissime violazioni della dignità umana e dell’integrità psichica e fisica delle persone compiute da pubblici ufficiali.

“È pertanto motivo di grande preoccupazione che a soli sei anni dall’introduzione del reato, il parlamento si appresti a discuterne la possibile abrogazione e la sua derubricazione ad aggravante comune. – scrive l’organizzazione – In questi sei anni, nelle carceri e in altri luoghi di detenzione, non sono purtroppo mancati episodi di violenza perpetrati da pubblici ufficiali di gravità e caratteristiche tali da essere perseguiti come atti di tortura”. Per questo Amnesty chiede di respingere “ogni ipotesi di abrogazione del reato di tortura” e di adoperarsi piuttosto “per il suo rafforzamento”.

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