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Giulio Cavalli

Regime Change, tra dittatori buoni e rivoluzionari cattivi: settant’anni di rovesciamenti sotto la regia dell’Occidente

L’esportazione della democrazia è il grande mito fondativo della politica estera occidentale. Una bandiera impugnata da Washington e Londra, e a ruota da Bruxelles, ogni volta che si rende necessario giustificare una guerra, un colpo di Stato, una destabilizzazione. Ma la cronaca storica, alla prova dei documenti e delle conseguenze, racconta tutt’altro: guerre mascherate da operazioni umanitarie, regimi democratici rovesciati nel nome della libertà, e il caos sistematico come prodotto finale. Non è solo una sequenza di errori: è un metodo. Perché le bugie ricorrono, le motivazioni si ripetono, e i risultati – repressione, terrorismo, povertà – sono la regola, non l’eccezione.

Iran 1953: il “peccato originale”

Il primo esempio di questa dottrina dell’ipocrisia ha il volto di Mohammad Mossadeq, primo ministro democraticamente eletto in Iran. Il suo “errore”? Nazionalizzare il petrolio, togliendo profitti alla Anglo-Iranian Oil Company. La CIA e l’MI6 lo dipinsero come burattino dei sovietici e lo rovesciarono con l’Operazione Ajax. In realtà, Mossadeq non era comunista, ma un nazionalista riformista. Il vero obiettivo era proteggere gli interessi energetici occidentali. Il risultato fu lo Scià: un dittatore feroce, sostenuto per decenni da Washington. Un regime di torture, censura e corruzione, che portò – come prevedibile – alla rivoluzione islamica del 1979. Una lezione che l’Occidente si è ben guardato dal imparare.

Cile 1973: democrazia contro mercato

Vent’anni dopo, il copione si replica in America Latina. Il presidente cileno Salvador Allende viene democraticamente eletto e attua una politica di nazionalizzazioni – in particolare del rame, controllato da multinazionali USA. La risposta della Casa Bianca è chirurgica: propaganda, sabotaggi economici, sostegno ai militari. L’11 settembre 1973 il golpe di Pinochet rovescia Allende. L’esito: 17 anni di dittatura, torture di Stato, desaparecidos. Il Cile diventa un laboratorio neoliberista sotto supervisione di Chicago Boys e FMI. Il crimine è chiaro: punire chi, pur votato, prova a sottrarsi ai meccanismi dell’economia coloniale americana.

Iraq 2003: la guerra delle bufale

Nel XXI secolo l’ipocrisia si fa più raffinata. L’Iraq di Saddam Hussein viene accusato di possedere armi di distruzione di massa e di collaborare con Al-Qaeda. Due menzogne strategicamente orchestrate. L’invasione americana avviene senza mandato ONU, e il risultato è noto: centinaia di migliaia di morti, una guerra civile interminabile, la nascita dello Stato Islamico. La democrazia promessa non arriva mai. Ma il petrolio, sì: l’industria irachena viene privatizzata, le compagnie occidentali tornano operative. Il rapporto Chilcot, nel 2016, ha formalizzato ciò che era evidente: nessuna minaccia imminente, intelligence manipolata, guerra illegale.

Libia 2011: da Gheddafi all’anarchia

La caduta di Gheddafi fu spacciata come intervento umanitario per evitare un “genocidio” a Bengasi. La NATO bombardò per mesi con il sostegno dell’ONU. Gheddafi fu ucciso, ma la Libia si trasformò in uno Stato fallito. Milizie armate, tratta di esseri umani, infiltrazioni jihadiste, due governi rivali. L’obiettivo dichiarato – protezione dei civili – fu ampiamente superato. Le vere motivazioni? L’accesso al petrolio e la paura, da parte della Francia, che Gheddafi lanciasse una moneta panafricana d’oro che avrebbe minacciato il franco CFA. Un’altra volta, l’umanitarismo servì solo a mascherare interessi coloniali.

Afghanistan 2001-2021: due decenni di menzogne

Dopo l’11 settembre, gli USA invadono l’Afghanistan per sradicare Al-Qaeda. I Talebani vengono rovesciati, ma il Paese resta occupato per vent’anni. Si parla di “nation building”, diritti delle donne, scuole, libertà. I documenti interni, pubblicati dal Washington Post (“Afghanistan Papers”), svelano invece il cinismo: le amministrazioni USA sapevano che il conflitto era ingiocabile, ma mentivano sistematicamente. L’obiettivo reale? Il controllo geopolitico e le rotte energetiche: gas, petrolio, terre rare. Nel 2021 i Talebani tornano al potere. Nulla è cambiato, salvo le macerie e i morti.

Guatemala, Congo, Egitto: la lista continua

Il Guatemala nel 1954: il governo Arbenz viene rovesciato perché vuole ridurre il potere della United Fruit Company. Risultato: dittature militari e una guerra civile con oltre 200.000 morti. In Congo, Mobutu viene sostenuto dagli USA per decenni in cambio del controllo su rame, coltan e cobalto. In Egitto, l’Occidente loda la primavera araba solo finché non arriva al potere un presidente islamista: a quel punto il colpo di Stato militare viene benedetto in nome della stabilità.

Il copione: bufale, risorse, distruzione

Ogni intervento segue uno schema fisso: si costruisce una minaccia (comunismo, terrorismo, genocidio). Si diffonde una bugia legittimante (armi, massacri imminenti, collaborazioni terroristiche). Si interviene militarmente per “proteggere” qualcuno. Si garantisce l’accesso a petrolio, minerali, rotte strategiche. Si lascia un Paese in frantumi.

In questa catena, la democrazia è sempre l’ultima delle priorità. Più spesso, è il primo bersaglio.

Il prezzo dell’ipocrisia

La storia dei cambi di regime imposti dall’Occidente non è una storia di fallimenti. È una storia di coerenza. L’obiettivo non è mai stato la libertà, ma l’accesso alle risorse, il dominio strategico, la punizione di chi osa affrancarsi. Le bufale – dal comunismo a Mossadeq al genocidio inventato di Gheddafi – sono strumenti di marketing bellico. E l’Occidente, ogni volta, si dice sorpreso dalle macerie. Ma non c’è sorpresa: c’è solo complicità. E se la democrazia resta in piedi in certe zone del mondo, è nonostante – e non grazie – a chi voleva esportarla a colpi di bombe.

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Il lavoro sporco

Mentre a Gaza i palestinesi muoiono nel silenzio, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato in diretta tv che l’obiettivo dichiarato della sua guerra all’Iran è l’eliminazione della Guida suprema Khamenei. Nessuna ambiguità: secondo lui, uccidere il capo politico e spirituale del regime iraniano non provocherebbe un’escalation, ma “porterebbe la pace”.

Siamo oltre l’ipocrisia diplomatica. Israele non si nasconde più: rivendica il diritto di assassinare i vertici di altri Stati, ben sapendo di godere dell’impunità garantita dalla complicità occidentale. “Sta facendo il lavoro sporco per tutti noi”, ha dichiarato il cancelliere tedesco Merz. Così si costruisce il caos utile a mantenere il primato militare in Medio Oriente.

Netanyahu ha scatenato la guerra contro Teheran proprio alla vigilia di un possibile negoziato tra Stati Uniti e Iran. Trump ha esitato, ma poi ha applaudito. Perché per Washington va bene se Israele distrugge gli impianti nucleari iraniani, anche se servirebbe la bomba americana per abbattere l’impianto sotterraneo di Fordo.

Il cambio di regime è un’ossessione ricorrente: lo è stato in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria. Ogni volta il risultato è stato un Paese a pezzi. Ora il bersaglio è l’Iran: 90 milioni di abitanti, confini con sette Stati, riserve energetiche immense. Un boccone enorme, che nemmeno la potenza militare israeliana può masticare senza soffocare.

Ma Netanyahu ha bisogno di guerra. Per tenersi stretto il potere, per zittire le critiche, per non far parlare Gaza. Il rischio è quello che Pierre Haski ha definito “una guerra senza limiti”: né militari né morali. Perché quando si annuncia la volontà di uccidere il capo di un altro Stato, la pace è già stata assassinata.

Buon mercoledì. 

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La crociata (tradita) contro i bonus: il governo delle destre ha creato e rifinanziato nuove e vecchie agevolazioni

Nel settembre 2024, Giorgia Meloni ribadiva ancora una volta la fine di un’epoca: “È finita la stagione dei bonus”. Una dichiarazione netta, pronunciata con l’intento di marcare una cesura rispetto alle politiche dei governi precedenti, accusati di distribuire sussidi a pioggia, senza visione sistemica. Eppure, oggi, lo stesso governo annuncia di voler “rendere strutturale il bonus elettrodomestici”. La retorica della discontinuità si è scontrata con l’ossatura stessa della legislatura. Perché la stagione dei bonus non è mai finita: ha solo cambiato linguaggio, target e finalità politiche.

Bonus vecchi, nuovi, trasformati

Secondo l’analisi dei testi di legge e delle manovre economiche, l’esecutivo ha confermato e spesso ampliato molti degli strumenti preesistenti, introducendone di nuovi. Il bonus elettrodomestici, fiore all’occhiello del 2025, è emblematico: 30% di sconto per l’acquisto di prodotti ad alta efficienza (fino a 200 euro), con vincoli precisi su classe energetica e produzione in Europa. La misura è finanziata con 50 milioni di euro e dichiaratamente orientata a sostenere la “transizione ecologica” e il “made in Italy”.

Non è l’unico. Con il bonus “nuovi nati” (1.000 euro una tantum per ogni figlio, Isee sotto i 40.000 euro), il fondo Dote Famiglia (30 milioni per attività extrascolastiche in famiglie con Isee basso), e il rifinanziamento del fondo per la morosità incolpevole, il governo ha delineato un ecosistema di incentivi che si rivolge a precisi bacini elettorali: famiglie numerose, giovani, lavoratori a basso reddito.

A queste si aggiungono agevolazioni confermate e potenziate rispetto al passato: il bonus asilo nido sale a 3.600 euro annui, esteso anche a nuclei senza primogeniti; il bonus psicologo è stato reso “strutturale” (dal 2028), con un aumento dei fondi a 9,5 milioni nel 2025 (erano 5 milioni nel 2023, 25 milioni nel 2022). La “Carta Dedicata a te” è stata rifinanziata e rafforzata, portando il contributo per famiglie con Isee fino a 15.000 euro a 500 euro annui. Anche il bonus carburante (fino a 200 euro) è stato mantenuto, nonostante fosse nato come misura temporanea nel 2022.

Contraddizioni programmatiche

È difficile conciliare questa proliferazione con la promessa di archiviare la stagione delle mance. L’unica differenza è nella semantica: le nuove misure si chiamano “carte”, “contributi”, “doti”, ma funzionano con le stesse logiche dei bonus tanto criticati. In molti casi, sono addirittura una loro evoluzione più mirata: il bonus cultura universale (18app) è stato abolito e sostituito da due carte separate (cultura e merito), legate a Isee o voti scolastici. Il bonus trasporti è confluito nella carta sociale. Il superbonus è stato definanziato, ma i bonus edilizi minori – come quello per le ristrutturazioni – sono rimasti, seppur ridotti.

Il paradosso è che alcune di queste misure erano state esplicitamente contestate quando il centrodestra era all’opposizione. La Lega aveva bollato il bonus affitti come “assistenzialismo”. Fratelli d’Italia aveva denunciato il “sussidiarismo senza visione” del reddito di cittadinanza, per poi mantenerne una forma riformulata (l’Assegno di Inclusione) e affiancarlo ad altre agevolazioni settoriali. Anche il bonus bebè, ritenuto troppo generico durante la campagna elettorale, è stato riformulato e rilanciato nel 2025.

Una politica fiscale mascherata

Il ricorso al termine “strutturale” serve da foglia di fico. Il bonus elettrodomestici, come la carta per i nuovi nati, sono finanziati solo per un anno. Altre misure dipendono da coperture da rinnovare annualmente. La strutturalità, più che un fatto, è un’intenzione politica: si promette di stabilizzare ciò che resta precario nei numeri e nei bilanci.

L’operazione è chiara: dismettere i bonus “degli altri”, presentati come sprechi o “truffe” (come nel caso del Superbonus), per reindirizzare la spesa verso strumenti compatibili con la narrazione del governo. È un pragmatismo selettivo, che conserva la stessa logica di micro-incentivi ma ne cambia i connotati simbolici. Con l’aggiunta, fondamentale, di una regia più centralizzata e meno redistributiva.

La coerenza è un’altra cosa

Nella sostanza, la stagione dei bonus non è finita: è solo stata adattata. A cambiare non sono le fondamenta dello strumento, ma i destinatari e l’ideologia di riferimento. La promessa di Meloni si è sgonfiata di fronte alla necessità di dare risposte immediate, al di fuori di una riforma fiscale vera e compiuta. Il risultato è un’Italia ancora una volta affidata ai sussidi temporanei, incasellata in un sistema di aiuti che vive di proroghe, fondi una tantum e strategie comunicative. Una stagione infinita, malgrado gli annunci.

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Meloni, l’ininfluencer

Diceva Meloni che avrebbe dato all’Italia un ruolo centrale nel mondo. E poi è arrivata Gaza. E poi è arrivato l’Iran. E il mondo, inchiodato tra le bombe israeliane e i missili di Teheran, ha riscoperto la cruda gerarchia delle potenze.

La presidente del Consiglio italiana ha fatto tutto quello che una media potenza può permettersi di fare: ha telefonato, ha partecipato, ha twittato. Ha persino sbuffato a un tavolo del G7 dopo una battuta di Macron, diventando meme prima che notizia. Il vertice in videoconferenza del 13 giugno, le consultazioni con Trump e i leader arabi, l’iniziativa italiana per il cessate il fuoco a Gaza: tutte azioni diligenti, ma prive di esito, prive di peso.

Meloni ha parlato con Netanyahu chiedendo aiuti umanitari, ma non ha mai messo in discussione il memorandum militare italo-israeliano. Ha invocato una de-escalation, ma l’Italia è rimasta tra i Paesi che si oppongono a sanzioni Ue contro Tel Aviv. Ha offerto Roma come sede di negoziati, ma nessuno – né Usa né Iran – l’ha presa in considerazione. A mediare, semmai, è stato l’Oman.

E mentre Macron promuoveva conferenze Onu per la Palestina, e Scholz ammoniva Israele da Amman, Meloni raccoglieva “cauti apprezzamenti” per una proposta che nessuno ha discusso. Il G7 si è chiuso con un comunicato su cui la mano italiana è impercettibile: il diritto di Israele a difendersi c’è, l’Iran resta il “problema”, e l’appello al cessate il fuoco è un inciso marginale.

Non è solo una questione di contenuti. È una questione di visibilità, di rilevanza, di credibilità. Meloni è stata nei luoghi giusti, con le parole giuste, nel momento sbagliato o, forse, con il peso sbagliato. La stampa internazionale non la cita tra i leader determinanti. I dossier diplomatici la collocano nel gruppo dei prudenti, dei presenti ma irrilevanti. La sua presenza è registrata, ma mai decisiva.

È questa l’ininfluenza che conta. Quella che non nasce dall’assenza, ma dall’insignificanza. Giorgia Meloni non ha perso un’occasione: l’ha semplicemente vissuta da comparsa. In un mondo che brucia, l’Italia ha portato un secchio vuoto e il desiderio di essere ricordata per averlo agitato.

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Gaza affamata e svuotata, iniziata la deportazione

Sono tornati a sparare sugli affamati. Ancora. A Khan Yunis, 74 morti e oltre 200 feriti — alcuni in condizioni disperate — mentre aspettavano un carico di aiuti umanitari. Poche ore dopo, le cifre diventano più spaventose: almeno 300 tra uccisi e feriti. Un’altra strage, un altro silenzio internazionale.

La distribuzione del cibo è diventata un’arma non solo nella sua scarsità, ma nella sua mappa: quattro centri di distribuzione per oltre due milioni di persone, tutti collocati strategicamente per forzare la popolazione verso sud. Per ricevere aiuti, i palestinesi devono spostarsi chilometri tra macerie e mine, in piena zona militare. E spesso, come ieri, devono morire per un sacco di farina.

Il piano è dichiarato: “Riceveranno aiuti solo se non torneranno nei luoghi da cui provengono”, ha detto Netanyahu in una riunione riservata della Commissione Esteri e Difesa della Knesset l’11 maggio. L’obiettivo è svuotare il nord di Gaza. E poiché i trasferimenti non stanno funzionando come previsto, l’escalation è la risposta. Bombardare, affamare, sparare: costringere alla fuga.

Nel frattempo, si consolidano le cosiddette “zone di concentrazione”: tre porzioni di terra, senza servizi, senza acqua, senza riparo. Se il piano andrà a compimento, 2 milioni di persone saranno stipate nel 40% del territorio della Striscia, con una densità di oltre 15.000 persone per chilometro quadrato. Il termine tecnico è “concentration zones”, usato dallo stesso esercito israeliano. Il nome storico, purtroppo, lo conosciamo: deportazione. 

La deportazione è già in corso. L’Europa tace, gli Stati Uniti firmano assegni.

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La bomba che non c’è: trent’anni di allarmi israeliani sull’Iran

Nel 1992, Shimon Peres dichiarava alla televisione francese che l’Iran avrebbe avuto la bomba atomica «entro il 1999». Benjamin Netanyahu, appena un anno dopo, rincarava la dose: «Teheran svilupperà la sua prima bomba nucleare entro il 1999». Era l’inizio di una narrazione destinata a diventare ciclica. Ogni governo israeliano, da allora, ha continuato ad annunciare che la Repubblica Islamica era a un passo dall’atomica. E ogni volta quella soglia non è mai stata raggiunta.

La svolta arriva nei primi anni ’90, dopo la Guerra del Golfo e il crollo dell’URSS. Israele, privo di un nemico convenzionale immediato, riorienta la propria dottrina di sicurezza e individua nell’Iran l’avversario strategico da opporre al proprio isolamento regionale. La minaccia atomica, più che un dato di intelligence, diventa uno strumento di diplomazia preventiva. Già nel 1992, oltre a Peres, anche Netanyahu parla in Parlamento di «tre-cinque anni» come orizzonte per la prima bomba iraniana. Scadenze che si sposteranno, costantemente, di anno in anno.

Uno schema ripetuto

Nel 1996 Peres aggiorna: l’Iran avrà l’arma nel 2000. Nel 1999, un alto ufficiale militare stima la scadenza al 2004. Nel 2001, il ministro della Difesa fissa il limite al 2005. Nel 2008 il generale Isaac Ben-Israel afferma che «gli iraniani sono a uno o due anni dalla bomba»; nel 2009 Yossi Baidatz parla di materiale fissile sufficiente «entro l’anno». Anche il discorso all’ONU di Netanyahu nel 2012 – con la celebre “bomba disegnata” – inserisce una nuova deadline: «meno di un anno al punto di non ritorno». Ma pochi mesi dopo, un rapporto del Mossad trapelato alla stampa lo smentisce: l’Iran non sta compiendo le attività necessarie alla produzione di un ordigno.

Intanto, gli obiettivi israeliani si consolidano: ottenere sanzioni, influenzare le decisioni strategiche statunitensi, rallentare i negoziati internazionali e legittimare operazioni militari. Il 2018 è emblematico: il Mossad trafuga l’archivio nucleare iraniano e Netanyahu lo presenta in televisione come «prova definitiva» della doppiezza di Teheran. In realtà, si tratta di documenti relativi a un programma sospeso nel 2003, già noto in parte agli ispettori IAEA. Ma tanto basta a Donald Trump per ritirarsi dal JCPOA.

Dal disegno alla bomba mai costruita

La strategia si aggiorna: l’unità di misura non è più “anni alla bomba”, ma “tempo di breakout”, ovvero le settimane teoriche necessarie all’Iran per produrre uranio arricchito sufficiente a costruire un’arma. Nel giugno 2025, all’indomani degli attacchi israeliani su impianti nucleari iraniani, fonti militari dichiarano che Teheran è «a poche settimane dalla bomba». Ma anche stavolta l’IAEA smentisce: l’Iran possiede sì materiale arricchito, ma non un programma attivo di militarizzazione. La soglia tra uso civile e militare resta da verificare.

Non è la prima volta. Il National Intelligence Estimate statunitense del 2007 aveva già concluso che il programma militare era stato interrotto nel 2003. Lo stesso Mossad, nel 2012, contraddiceva pubblicamente il proprio primo ministro. La discrepanza tra retorica e intelligence è diventata strutturale: il messaggio politico è funzionale, e spesso scollegato dalla realtà tecnica.

Una minaccia utile, ma non vera

Da trent’anni Israele presenta l’Iran come pericolo imminente. E ogni volta la soglia si allontana. Non è un errore di calcolo: è una strategia. Ha funzionato per ottenere pressioni diplomatiche, per legittimare guerre segrete, per trasformare un rischio in leva. Ma ha anche contribuito a costruire un clima di allarme permanente, che alimenta escalation e delegittima ogni soluzione diplomatica. Oggi come nel 1992, la bomba iraniana continua a non esistere. Ma serve, ancora, a giustificare chi la evoca.

Leggi anche: La Cnn smonta la propaganda di Netanyahu “L’Iran non sta costruendo la bomba atomica”

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Non era tutto il possibile: era il minimo sindacale del controllo

Hanno passato giorni a dire che “il Copasir ha lavorato bene”. A destra, soprattutto, dalle parti del governo hanno vagato per giorni belli satolli dicendo che la vicenda del direttore di Fanpage, Francesco Cancellato, spiato con lo spyware Graphite dell’azienda israeliana Paragon Solutions, era “chiusa”.

Per giorni abbiamo dovuto sorbirci anche certi giornalisti scendiletto del governo che si complimentavano con il Copasir, diligentemente guidato dal dem Lorenzo Guerini, il quale aveva stilato una relazione superata dagli eventi poco dopo essere stata resa pubblica.

Ora si riapre tutto. La notizia del telefono intercettato anche al giornalista – sempre di Fanpage, guarda a volte il caso – Ciro Pellegrino, era l’elefante nella stanza e il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica è costretto a fare nuovi approfondimenti. Sul tavolo rimane anche la versione di Paragon che contraddice sostanzialmente la relazione precedente. Poi c’è il rapporto di Citizen Lab che mette nero su bianco che sia Cancellato, sia Pellegrino, sia un terzo (o forse due?) giornalista siano stati intercettati tutti dallo stesso soggetto.

Ben vengano nuove indagini. Se non sono stati i servizi a spiare i giornalisti, allora potrebbe trattarsi di un’agenzia privata (per conto di chi?) oppure di un Paese straniero, ipotesi molto più improbabile.

Una cosa è certa: sono in molti, in questa storia, a essere timidi nella ricerca della verità. Hanno passato giorni a ripetere che era stato fatto “tutto il possibile”. Non era vero.

Buon martedì.

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La reputazione di Netanyahu che brucia più dei civili

Il massacro di Gaza ha minato alle fondamenta la retorica dell’“unica democrazia del Medio Oriente”. Le immagini dei bambini affamati uccisi in fila per il cibo, degli ospedali devastati, delle fosse comuni hanno rotto il patto ipocrita tra Israele e le sue alleanze occidentali. Quando l’indignazione internazionale ha iniziato a farsi pericolosa, Benjamin Netanyahu ha spostato il mirino: non più Gaza, ma Teheran.

L’attacco all’Iran non è soltanto un’operazione militare. È una manovra mediatica. Serve a riscrivere la narrazione: da carnefice a vittima, da Stato assediante a Paese aggredito. Così, nel cuore di un’opinione pubblica ormai stanca della complicità, Israele tenta di riprendersi la scena invocando ancora una volta la minaccia esistenziale e il diritto alla difesa.

Ma questa volta non basta. La legittimità dell’attacco preventivo, motivato da informazioni di intelligence che nessuno può verificare, ricorda le falsità con cui fu giustificata la guerra in Iraq. Con una differenza: oggi, la credibilità degli Stati Uniti e di Israele è già logorata, e il loro doppio standard – per cui Teheran viola i trattati sul nucleare ma Tel Aviv nemmeno li firma – è diventato insostenibile.

Netanyahu non cerca sicurezza, ma consenso. Dentro Israele, ha bisogno di guerra per mantenere il potere. Fuori, ha bisogno di alimentare il caos per sembrare l’unico in grado di governarlo. Ma il Medio Oriente non è un laboratorio per ambizioni personali. È fatto di popoli che esistono, soffrono, reagiscono. E che pagano il prezzo delle guerre usate come propaganda. Come i bambini bombardati ieri nell’ospedale pediatrico di Teheran. 

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Povertà esclusa anche dal vocabolario

Cancellare la parola “povertà” dai discorsi ufficiali non cancella la povertà. Il governo Meloni, da due anni, sembra convinto del contrario. L’assenza di riferimenti alla condizione materiale di milioni di italiani è diventata una strategia politica: si sostituisce il dato con la percezione, il bisogno con la colpa, il problema con il silenzio. Ma i numeri restano lì, impietosi, a smentire la propaganda.

Nel 2024, secondo Caritas, 5,6 milioni di italiani vivevano in povertà assoluta. Il 23,5% di loro lavorava. Le retribuzioni reali sono crollate del 4,4% dal 2019. Più di 6 milioni di persone hanno rinunciato alle cure per motivi economici. Eppure, nella narrazione della maggioranza, la povertà è diventata un dato “residuo”, un fastidio da contenere più che da affrontare. L’Assegno di Inclusione, che ha sostituito il Reddito di Cittadinanza, ha escluso 850mila famiglie povere. Di queste, 620mila non hanno più ricevuto alcun sostegno. Il Supporto per la formazione e il lavoro è stato erogato a meno di 100mila persone: 350 euro al mese per chi accetta corsi di formazione, vincolati e insufficienti.

Il taglio netto alla spesa per la povertà – 3,3 miliardi in meno rispetto al 2022 – è stato giustificato in nome dell’efficienza. Ma è servito solo a ridurre la platea, non il bisogno. Anzi: ha alimentato il disagio abitativo (33% degli assistiti Caritas), aggravato la povertà minorile, marginalizzato i lavoratori poveri.

Quando erano all’opposizione, Meloni, Salvini e Tajani deridevano il Reddito di Cittadinanza come “metadone di Stato”. Ora che governano, hanno costruito una povertà selettiva: quella “degna” (disabili, minori, over 60) può essere riconosciuta; quella che lavora, affitta, cerca cure, può essere ignorata. I poveri sono diventati “occupabili”, quindi invisibili. Ma i dati non si piegano alla retorica. Il rapporto Caritas 2025 lo certifica: la povertà non è scomparsa, è solo stata esclusa dal discorso pubblico. È questa la vera coerenza del governo Meloni: una guerra ai poveri mascherata da lotta alla povertà.

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Il mondo che marcisce nei magazzini: le ricadute umanitarie dei tagli USAID

C’è un campo profughi a Leopoli, in Ucraina, dove la fame ha ormai superato la paura delle bombe. Fino a poche settimane fa, mille pasti caldi al giorno sostenevano gli sfollati. Oggi ne restano trecento. Dal primo settembre, nemmeno quelli. È uno dei tanti effetti della decisione americana di tagliare, in un colpo solo, oltre il 90% dei finanziamenti all’USAID: sessanta miliardi di dollari evaporati in nome dell’“America First” e affidati a un ventottenne con trascorsi nel team di Elon Musk per smantellare l’agenzia. Una mano ideologica ha spento i frigoriferi nei centri nutrizionali, chiuso i rubinetti delle cliniche, lasciato marcire 66mila tonnellate di cibo in magazzini di Dubai, Djibouti e Houston.

Il cibo stoccato avrebbe potuto sfamare tutta Gaza per un mese e mezzo. Invece, sarà forse trasformato in mangime per animali. È il simbolo perfetto: una montagna di risorse accatastate e famiglie disperate dall’altra parte del mondo, divise da un abbandono voluto. I programmi nutrizionali finanziati da USAID coprivano circa metà del fabbisogno globale. Ora, in paesi come Nigeria, Bangladesh e Nepal, un milione di bambini non riceve più alimenti terapeutici. In almeno diciassette paesi, le scorte sono esaurite. Secondo l’UNICEF, 2,4 milioni di bambini gravemente malnutriti rischiano di morire entro fine anno.

HIV, farmaci finiti e morti programmate

Le cliniche chiudono. I medici restano soli. In Zambia, in una struttura che contava ventuno operatori sanitari, ne è rimasto uno: il dottor Oswell Sindaza. Serve 6.400 pazienti da solo. In Kenya, Sarah Thomas ha perso l’accesso agli antiretrovirali per sé e per i suoi figli. Kevin, undici anni, è morto di tubercolosi, una malattia facilmente curabile, se non fosse che la clinica ha chiuso. In Uganda, il piccolo Migande Andrew è morto a quattordici anni: i farmaci per l’HIV sono finiti. L’insegnante Mary, positiva anche lei, è deceduta poche settimane dopo.

Secondo l’OMS, otto paesi — tra cui Haiti, Kenya, Sud Sudan e Burkina Faso — esauriranno le scorte di farmaci salvavita entro l’estate. Lo stesso piano PEPFAR, che aveva salvato 26 milioni di vite dal 2003, è stato amputato. Il risultato, secondo il tracker dell’Università di Boston, potrebbe essere di 176.000 morti in più solo nel 2025, e fino a 16 milioni entro il 2040.

Donne incinte, bambini piccoli, nessuna assistenza

In Liberia, dove gli aiuti statunitensi costituivano oltre il 40% del bilancio sanitario, è stato sospeso un programma da oltre 100 milioni di dollari che garantiva cure gratuite per le donne incinte. In Etiopia, i centri medici nelle aree di conflitto hanno chiuso. In Afghanistan, dove l’OMS avverte che l’80% dei servizi sanitari potrebbe sparire, già a marzo erano stati chiusi 167 presidi.

Le stime sono drammatiche: 7,9 milioni di morti infantili e oltre mezzo milione di decessi materni aggiuntivi entro il 2040. A essere colpiti non sono settori “ideologici”, come ha provato a far credere la retorica ufficiale, ma le strutture fondamentali della sopravvivenza.

Istruzione cancellata, futuro bruciato

L’Afghanistan è l’esempio più brutale. I programmi scolastici comunitari gestiti da ONG e finanziati dagli Stati Uniti sono stati chiusi, lasciando fuori dalla scuola 300.000 bambini, molte delle quali ragazze già escluse dal sistema pubblico. In Nepal, una ragazza rischia ora un matrimonio precoce perché è stato sospeso il programma che la aiutava a superare gli esami. In Etiopia, la chiusura di un asilo ha costretto una madre single a rinunciare al lavoro.

I tagli hanno colpito i programmi a più alto rendimento: educazione, diritti delle donne, assistenza all’infanzia. Non sono tagli neutri. Sono un investimento nella miseria futura. Economicamente disastrosi, moralmente catastrofici.

Una strategia di disgregazione

I responsabili americani parlano di deroghe umanitarie “temporanee”, ma la realtà è fatta di magazzini pieni di cibo che marcisce mentre milioni soffrono la fame, e pazienti costretti a interrompere cure salvavita. Le organizzazioni sul campo parlano di “abbandono totale”. L’OMS ha definito la situazione un “bagno di sangue” per la sanità globale.

Le conseguenze non sono solo umanitarie. Il vuoto lasciato dagli Stati Uniti è già oggetto di conquista da parte di altre potenze. L’epidemia globale di carestie, malattie e instabilità non è l’effetto di un virus. È il frutto deliberato di un ordine esecutivo.

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