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Giulio Cavalli

Quell’irresistibile voglia del carcere per i giornalisti

Eccola, di nuovo, quell’irresistibile voglia di Fratelli d’Italia di imbavagliare il giornalismo. Il capogruppo al Senato di Fratelli d’Italia nonché relatore del ddl diffamazione Gianni Berrino cede all’incontinenza criminogena e presenta un emendamento che prevede il carcere fino a 3 anni e la multa fino a 120mila euro per “condotte reiterate e coordinate” di diffusione di notizie false. L’emendamento aggiunge un comma al ddl Balboni, punendo la “diffusione di notizie false con il mezzo della stampa”. Prevista anche la pena accessoria dell’interdizione dalla professione di giornalista per un periodo da tre mesi a tre anni. Inoltre, quando le condotte “consistono nell’attribuzione, a taluno che si sa innocente, di fatti costituenti reato, la pena è aumentata da un terzo alla metà”.

Dubbi di Fi e Lega sulla proposta di FdI, che prevede fino a 4 anni e mezzo di carcere per i giornalisti

È l’esatto opposto di ciò che aveva chiesto la Consulta a giugno nel 2021 quando una sentenza – relatore il giudice Francesco Viganò – l’articolo 13 della legge sulla stampa del 1948 che finora faceva scattare, in caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa compiuta mediante l’attribuzione di un fatto determinato, la reclusione da uno a sei anni. Dalle parti di Fratelli d’Italia hanno avuto la gran pensata di introdurre un nuovo articolo – il 13 bis – alla legge sulla stampa, dopo che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’articolo 13 della legge sulla stampa proprio perché prevedeva pene detentive, in contrasto con la giurisprudenza della Cedu. 

Fnsi: “Misura incivile”

“Nessuno ha diritto di inventarsi fatti falsi e precisi per ledere l’onore delle persone. Quello non è diritto di informazione ma orchestrata macchina del fango, che lede anche il diritto alla corretta e veritiera informazione”, spiega il meloniano nel tentativo di rendere potabile una norma che fa a pugni con la Costituzione italiana e con il diritto internazionale. E a dimostrazione di quanto sia avventata la sua incursione in commissione giustizia ci sono le reazione dei suoi compagni di maggioranza, tutt’altro che felici di dover smussare l’ennesima spinta autoritaria proprio a ridosso delle elezioni europee. Il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin spiega che non c’è stato il tempo per “approfondire il contenuto degli emendamenti” e rimanda alla sentenza della Consulta, affossando di fatto l’iniziativa del suo collega. Dal canto suo, la presidente della Commissione Giustizia al Senato Giulia Bongiorno (Lega), non entra nel merito ma annuncia una riunione di maggioranza, sottolineando però che il Carroccio “tiene soprattutto a focalizzare l’attenzione sul tema del titolo degli articoli e delle rettifiche”. E pensare che quella sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo si riferiva al caso di Alessandro Sallusti, voce autorevole di questa destra che lambicca Orbàn, condannato dal giudice italiano alla pena di 14 mesi di reclusione e salvato dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. 

Inevitabile lo sdegno delle opposizioni, con il Movimento 5 Stelle che attraverso la senatrice Dolores Bevilacqua sottolinea i “troppi campanelli d’allarme per la libera informazione con questo governo” e con il dem Filippo Sensi che parla di “un conto aperto con la libertà di informazione” da parte di questa maggioranza. Di “posizioni inaccettabili frutto di pulsioni autoritarie“ parla il presidente dell’Ordine dei giornalisti Carlo Bartoli mentre Alessandra Costante, segretaria generale della Fnsi intravede “un altro salto indietro nelle classifiche internazionali sulla libertà di informazione”. 

Oggi l’ordine di scuderia è di abbassare i toni, seppellire la polemica e fingere che gli emendamenti siano un’iniziativa personale di Berrino, che si aggira con il cerino in mano e la nomea di Orbàn di questa settimana. Ma intanto l’avvertimento è arrivato. 

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Le carceri italiane scoppiano: c’è un sovraffollamento di 13-14 mila detenuti

Nelle carceri “c’è un livello di tensione molto alta, dettato da una situazione molto complicata”. Lancia l’allarme il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, in audizione al Senato.  “In alcune regioni c’è stata meno attenzione all’organizzazione della vita fuori dalla cella”, sottolinea. C’è un sovraffollamento di 13-14 mila persone. Le carceri lombarde sono le più affollate, con il doppio di presenze rispetto a quelle regolamentari”. Calano immigrati detenuti, “dal 37% di qualche anno fa al 31%”. Donne in carcere sono solo il 4,2%.

Le carceri lombarde sono le più affollate, con il doppio di presenze rispetto a quelle regolamentari. Calano gli immigrati detenuti

Al 31 marzo 2024 le carceri italiane ospitavano 61.049 persone. “Numeri così elevati comportano una contrazione dello spazio a disposizione dell’intera comunità penitenziaria, una riduzione del tempo che gli operatori possono dedicare alle persone detenute, una frammentazione delle proposte trattamentali, maggiori difficoltà per l’accesso alle cure mediche e un aumento della conflittualità interna, dice Monica Gallo, garante dei diritti delle persone private della libertà personale.

Suicidi, sovraffollamento e condizioni disumane impongono il ricorso alla Corte costituzionale

Qualche giorno fa l’Osservatorio carcere delle Camere penali ha dichiarato che i suicidi, sovraffollamento, e condizioni disumane impongono il ricorso alla Corte costituzionale sottolineando la violazione dei diritti fondamentali derivanti dall’esecuzione di una pena detentiva in condizioni disumane e degradanti. Già in passato la Consulta si era pronunciata (con la sentenza 279/ 2013) sulla legittimità costituzionale dell’articolo 147 del codice penale, evidenziando l’inaccettabilità dell’inerzia legislativa di fronte a una situazione così grave. Oggi le cose sono messe perfino peggio. 

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Come Orbàn con i suoi giornalisti

«Gli emendamenti presentati in commissione Giustizia dal senatore di FdI Gianni Berrino al ddl Diffamazione dimostrano che qualcuno non ha capito molto delle sentenze della Corte costituzionale in materia. Il carcere per i giornalisti è un provvedimento incivile e denota la paura di questo governo nei confronti della libertà di stampa. Questa è l’orbanizzazione del Paese». Lo ha detto ieri Alessandra Costante, segretaria generale della Fnsi.

In risposta a un’indicazione che arrivava dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e chiedeva di levare la possibilità del carcere per tutelare i giornalisti la compagine di governo ha pensato di riformare la diffamazione in Italia scrivendo male un disegno di legge che complica ulteriormente il rapporto tra potere e giornalismo e all’ultimo momento non sono riusciti a trattenersi dal prevedere il carcere, di nuovo. Anche la Corte costituzionale aveva sottolineato l’illegittimità del carcere. Niente, è più forte di loro.

Le pulsioni autoritarie del resto funzionano esattamente così, spingono il potere a mostrare la sua vera faccia nelle pieghe della sua azione politica, tradiscono la sua natura alla benché minima occasione. Il combinato disposto dell’emendamento al ddl Diffamazione e l’idea di riforma della par condicio (che prevede minutaggio libero per gli esponenti del governo) tradisce una debolezza di fondo dell’esecutivo. 

La querela per diffamazione è il manganello per sabotare il giornalismo che negli ultimi anni è già in crisi per altri – molto più seri – motivi. Il termometro dello scenario rimane l’editoriale di quei due direttori di giornali di destra qualche settimana fa che per mesi hanno ripetuto che no, non c’era nessuna deriva autoritaria, prima di frignare in un editoriale che lamentava l’abuso di querela.

Buon venerdì. 

Nella foto: il senatore Gianni Berrino, frame di un video sulla campagna elettorale 2022

 

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Foti mette all’indice Mira. Pure gli scrittori nel mirino

Il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera dei deputati, Tommaso Foti ieri ha deciso di dedicarsi alla letteratura, più precisamente al Premio Strega. Di primo acchito potrebbe sembrare una buona notizia – l’editoria italiana ha bisogno di sponsor influenti – se non fosse che per l’ennesima volta un libro viene usato come roncola per farne strumentalizzazione politica. 

Il capogruppo di FdI alla Camera Foti ha deciso di dedicarsi alla letteratura, più precisamente al Premio Strega

Secondo Foti “spiace vedere un’ombra inquietante allungarsi anche sul Premio Strega: la solita ombra che tende a offuscare la strage di Acca Larenzia e vilipendere quei ragazzi innocenti uccisi negli anni più bui della Repubblica, solo perché militanti del Movimento Sociale Italiano. Tra i libri finalisti del Premio – dice il capogruppo di Fratelli d’Italia – si rinviene anche “Dalla stessa parte mi troverai” della scrittrice Valentina Mira che nell’opera ha provato a banalizzare l’atroce assassinio avvenuto nel gennaio del 1978 nei pressi della sede dell’allora sezione del Msi di via Acca Larenzia. Secondo Foti in “una rassegna importante quale il Premio Strega si preferisce offendere la memoria di giovani innocenti uccisi vilmente e con inaudita ferocia i cui assassini non sono mai stati assicurati alla Giustizia”. 

La stupidità della politica che legge la letteratura con gli occhi miopi della propaganda è cosa ormai risaputa, ci siamo abituati. La pericolosità della politica che vorrebbe decidere cosa e come dovrebbe scrivere la letteratura invece è un’ombra inquietante che si allunga sull’Italia. Un’ombra molto più pericolosa di quella che Foti vede nel libro in questione, un’ombra a cui non vorrei stessimo facendo l’abitudine per sfinimento in questo tempo lugubre. 

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Sedici europarlamentari sul canale filorusso “Voice of Europe”

Sono sedici gli europarlamentari, tutti provenienti dall’area dell’estrema destra, che hanno partecipato a video pubblicati sul canale YouTube “Voice of Europe“, considerato un veicolo di propaganda e disinformazione russa. Lo rivela un’indagine dell’edizione europea del portale “Politico“.

Sono 16 gli europarlamentari, tutti provenienti dall’area dell’estrema destra, che hanno partecipato a video pubblicati sul canale YouTube “Voice of Europe”

Gli eurodeputati e altri rappresentanti di governi di Paesi provenienti prevalentemente dell’Europa centrale e orientale hanno rilasciato interviste video a un canale con solo 351 iscritti su YouTube e appena 60 mila visualizzazioni dall’estate scorsa a oggi. La diffusione di tali contenuti sulle piattaforme social risulta però maggiore, in particolare su X. In alcuni dei video in questione, alcuni deputati del Parlamento europeo facevano commenti in cui auspicavano una sconfitta dell’Ucraina e in cui criticavano le istituzioni di Kiev, anche in prospettiva di una futura adesione del Paese all’Ue.

Per l’Italia ospiti del canale sono stati Matteo Gazzini e Francesca Donato, entrambi ex leghisti

Dall’agosto scorso, Voice of Europe ha organizzato quattro dibattiti e interviste individuali con diversi deputati europei. Matteo Gazzini e Francesca Donato (nella foto) sono i nomi italiani citati nell’inchiesta. Gazzini si è candidato per l’Europarlamento nel 2019 con la Lega, risultando primo dei non eletti. Subentrato nel 2022 ha abbandonato il partito di Salvini a dicembre dell’anno scorso entrando in Forza Italia. Ex leghista è anche Francesca Donato, ora dirigente nel partito di Totò Cuffaro. 

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La tentazione di Meloni di essere sponsor di Mario Draghi in Ue

Giorgia Meloni ha deciso, si candiderà alle prossime elezioni europee dell’8 e 9 giugno convinta che il suo nome e la sua faccia possano dare un’ulteriore spinta al suo partito. Nel suo cerchio magico è già pronta la risposta alle prevedibili critiche di chi sottolinea come si tratti di una candidatura farlocca, buona solo per promuoversi a mo’ di marchio. “Si tratta di un coraggioso atto di democrazia: una presidente del Consiglio che non ha paura di sottoporsi a un test democratico in prima persona” è la risposta che hanno confezionato i comunicatori del partito.

L’annuncio è già segnato sul calendario. All’assemblea programmatica di Fratelli d’Italia che si terrà il prossimo 28 aprile a Pescara la presidente del Consiglio annuncerà la sua discesa in campo e chiederà ai nomi forti del suo partito di fare lo stesso. Con Meloni capolista in tutte e cinque le circoscrizioni e con dirigenti e ministri nelle seconde file c’è la convinzione di non inquinare gli equilibri elettorali: gli eleggibili saranno quelli dal terzo posto in poi, con buona pace di quelli che a Bruxelles vorrebbero andarci davvero che potranno sfruttare il traino dei nomi forti del partito senza poter lamentare una gara sfalsata. 

Meloni ha deciso di candidarsi capolista alle europee. Schlein accetterà la sfida

L’annuncio di Meloni sbloccherà anche la decisione della segretaria del Partito democratico Elly Schlein che raccoglierà la sfida. La presidente del Consiglio punta almeno al 25% per Fratelli d’Italia (sognando il 30%) e a un milione e mezzo di preferenze personali. Per Schlein la sfida è improba ma solo giocando la partita in prima persona può sperare di calmierare le mareggiate delle correnti interne e mandare un messaggio chiaro agli elettori e al partito: comando io. Anche in Forza Italia il presidente del partito Antonio Tajani ha intenzione di patrocinare i candidati piazzandosi come capolista per tentare il colpo di reni necessario a superare i voti dell’alleato Salvini. A proposito della Lega voci sempre più insistenti dicono che il ministro dei Trasporti e segretario del partito – in caduta libera nel gradimento dentro e fuori dalla Lega – abbia deciso di puntare forte sul generale Roberto Vannacci, scontentando per l’ennesima volta gli oppositori interni. “Se devo perdere almeno avrò fatto le mie scelte”, spiega Salvini ai suoi (pochi) fedeli con cui condivide le scelte in questo momento non facile. Nel Movimento 5 Stelle si aspetta il 17 aprile per conoscere i nomi delle candidature, compresi quelli del presidente Giuseppe Conte. 

La presidente del Consiglio è tentata dall’idea di abbandonare von der Leyen per virare su Draghi presidente di Commissione

Ma la vera notizia che si bisbiglia è la possibile decisione di Meloni di virare all’ultimo momento su Mario Draghi come presidente proposto per la Commissione europea. La presidente del Consiglio è ogni giorno più preoccupata per l’indebolimento di Ursula von der Leyen, coinvolta nelle indagini dello Pfizergate e osteggiata perfino all’interno del suo partito. La votazione di ieri del Patto su migrazione e asilo ha dimostrato chiaramente che è fallito il progetto della presidente della Commissione Ue di arginare le destre. Con Draghi la presidente del Consiglio ha avuto un ottimo rapporto fin dal primo giorno di insediamento a Palazzo Chigi, nonostante la campagna elettorale tutta incentrata sull’anti-draghismo, e l’economista italiano potrebbe essere il certificato doc di atlantismo e credibilità che Meloni insegue da tempo. Intestarsi la proposta di Draghi consentirebbe al governo italiano anche di avere un filo diretto privilegiato sull’accidentato percorso del Pnrr e del Patto di stabilità. La trasformazione così sarebbe completa: Meloni eletta come “l’unica che si è opposta a Draghi” ora è pronta per essere la più draghiana dei draghiani. 

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Mancano i decreti attuativi: 12,6 miliardi bloccati nei cassetti

Nei cassetti del governo ci sono 12,6 miliardi di euro bloccati perché mancano i decreti attuativi necessari. Qui fuori dai palazzi del governo ci sono soggetti pubblici e privati che aspettano di essere pagati. Come osserva Openpolis considerando tutte le leggi entrate in vigore dal marzo 2018 all’aprile 2024 i decreti attuativi richiesti in totale sono 2.337. Di questi, sono 520 quelli che ancora mancano all’appello. La maggior parte (348) riguardano norme varate dall’attuale esecutivo. Un governo che esautora il Parlamento e poi non riesce a stare al passo con le sue stesse decisioni. 

Secondo un’analisi di Openpolis i decreti attuativi mancanti sono saliti a 520

Leggendo la sesta Relazione sul monitoraggio dei provvedimenti legislativi e attuativi prodotta da Palazzo Chigi si apprende che negli ultimi mesi è stato profuso un significativo sforzo per smaltire l’arretrato. In effetti i decreti attuativi ancora da pubblicare legati a norme dei governi precedenti rappresentano circa un terzo del totale. Nello specifico, le leggi entrate in vigore durante il governo Draghi pesano per il 22,8% delle attuazioni mancanti. Quelle del secondo governo Conte II per il 7,9%, il 2,3% quelle del primo. Come fa notare Openpolis non sempre l’abbattimento dei decreti attuativi mancanti è legato alla loro effettiva pubblicazione quanto a cambiamenti nelle normative vigenti che li rendono non più necessari. La relazione, aggiornata al 31 marzo 2024, ad esempio cita 32 casi di questo tipo per le sole leggi varate nel corso della legislatura attuale.

Il numero più consistente di decreti attuativi mancanti riguarda il ministero dell’economia e delle finanze. La struttura guidata da Giancarlo Giorgetti infatti deve ancora pubblicare 98 attuazioni rispetto alle 284 totali richieste. In valori assoluti, dopo quello dell’economia, i ministeri con il maggior numero di attuazioni mancanti a proprio carico sono ambiente (51), infrastrutture (44) e imprese (39).

Facendo un confronto percentuale tra i decreti richiesti in totale a ogni dicastero e quelli che ancora mancano all’appello, Openpolis osserva che la struttura più in difficoltà è quella guidata dal ministro per gli affari europei, il sud, le politiche di coesione e il Pnrr Raffaele Fitto. Sono solo 9 le attuazioni demandate alla responsabilità di questa singola struttura ma 5 di queste, cioè il 55,6%, devono ancora essere emanate. Seguono il ministero dell’ambiente (37,8%) e quello dello sport (28%). In 57 casi è prevista la collaborazione di due o più strutture nella definizione dei contenuti dei decreti attuativi. In tali circostanze è ragionevole pensare che i tempi per la pubblicazione possano allungarsi. Sono infatti ancora 26 i decreti attuativi che prevedono più ministeri co-proponenti che ancora mancano all’appello, cioè il 45,6%.

I provvedimenti mancanti bloccano l’assegnazione di oltre 12 miliardi di finanziamenti pubblici

In valori assoluti, il maggior numero di attuazioni ancora da emanare fa riferimento alle misure contenute nella legge di bilancio per il 2024 (50). Tali norme sono quelle che tipicamente richiedono più atti di secondo livello per la loro implementazione. Al terzo posto di questa particolare classifica infatti troviamo un’altra legge di bilancio, quella per il 2023 per cui mancano ancora all’appello 27 decreti attuativi. Al secondo posto c’è la legge relativa alle disposizioni organiche per la valorizzazione, la promozione e la tutela del made in Italy per cui mancano ancora 34 attuazioni. Openpolis sottolinea come sia significativo anche il numero di provvedimenti ancora da pubblicare per quanto riguarda il cosiddetto decreto Pnrr quater (20). Parte delle attuazioni legate a queste sole 4 leggi bloccano un totale di circa 8,5 miliardi di euro. Ampliando questa analisi a tutte le misure che richiedono decreti attuativi, possiamo osservare che le risorse ancora non erogabili superano i 12 miliardi. Per 181 decreti attuativi è già scaduto il termine fissato per la pubblicazione. 

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Frenata su Angelucci. Si complica la cessione dell’Agi

Potrebbero esserci problemi per il piano benedetto da Palazzo Chigi che avrebbe visto l’editore, deputato leghista e imprenditore nella sanità privata Antonio Angelucci mettere le mani sull’agenzia di stampa Agi. Le proteste dei giornalisti contro l’acquisizione da parte del gruppo Angelucci (proprietario di Libero, Il Tempo e Il Giornale) e i dubbi del ministro dell’Economia e Finanze Giancarlo Giorgetti hanno incagliato la trattativa che avrebbe dovuto portare la cessione della seconda agenzia di stampa in Italia per un cifra introno ai 7 milioni di euro, subito recuperati da 4,5 milioni che Eni era disposta a concedere in inserzioni pubblicitarie spalmate in tre anni e poco più di 3 milioni di euro garantiti dal bando del governo per il 2024. 

Eni avrebbe comunicato all’editore Angelucci che la vendita dell’Agi sarebbe stata messa a bando di gara

Martedì in una cena tra Claudio Granata (braccio destro dell’ad di Eni Claudio De Scalzi), Giampaolo Angelucci (figlio del deputato Antonio), la direttrice di Agi Rita Lofano, e il direttore di Libero (nonché ex direttore dell’Agi e ex portavoce di Giorgia Meloni) Mario Sechi l’azienda avrebbe comunicato l’intenzione di mettere a gara l’agenzia di stampa per tutelarsi di fronte alla legge e all’opinione pubblica. La notizia ha cominciato a circolare in fretta negli ambienti giornalistici con l’agenzia di stampa Reuters che confermava l’intenzione di Eni di valutare eventuali manifestazioni di interesse. Secondo l’agenzia tedesca oltre al Gruppo Angelucci anche Mondadori sarebbe stata interessata a valutarne l’acquisto. “No, assolutamente no”, ha risposto ieri Marina Berlusconi ai giornalisti. 

Alle due di notte un notizia breve sul sito de La Stampa dava per certo che la vendita dell’Agi sarebbe stata messa a bando di gara da Eni. Due settimane fa il ministro Giorgetti riferendo in Parlamento aveva detto che il suo ministero “ha appreso da fonti di stampa la notizia (della vendita, ndr) e non è deputato a rispondere” perché “sebbene abbia partecipazione diretta e indiretta nel capitale Eni pari complessivamente a circa il 30%, a tale partecipazione non corrisponde alcun potere in merito a decisioni di natura gestionale”. Il ministro aveva però chiesto “la massimizzazione del profitto economico in caso di un’eventuale alienazione” dell’agenzia di stampa per soddisfare “i requisiti di trasparenza, competitività e garanzia dei livelli occupazionali” e questa sua presa di posizione avrebbe raffreddato la trattativa con Angelucci che volgeva ormai alle fase finali, con la due diligence effettuata la settimana scorsa e l’Eni pronta ad andare incontro all’editore regalando (di fatto) l’Agi e sobbarcandosi i costi dei poligrafici nonché l’eventuale procedura di isopensione per 14 giornalisti che vi hanno aderito. 

Nelle prossime ore si valuterà la copertura politica per un passaggio diretto dell’agenzia nelle mani di Angelucci altrimenti sarà asta

A Palazzo Chigi la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, su consiglio del suo ex portavoce Mario Sechi, avrebbe già da tempo dato il via libera all’operazione confidando sul ruolo strategico di un’agenzia di stampa “amica” in vista del referendum costituzionale che le servirà per attuare la riforma del premierato. A Palazzo Chigi sono convinti (così come lo fu Renzi in occasione dell’altro referendum costituzionale) che poter contare su un’agenzia di stampa “amica” permetta di virilizzare la comunicazione soprattutto nelle piccole redazioni dei giornali locali che spesso demandano ai lanci di agenzie la cronaca politica nazionale. 

Oggi l’ufficio stampa del’Eni ha smentito la notizia di un’eventuale messa a gara senza aggiungere però indicazioni sulle trattative in corso. Il “piano Angelucci” quindi potrebbe non essere accorra sfumato del tutto. Nelle prossime ore conterà la valutazione degli effetti sull’opinione pubblica della svendita da parte dell’Eni. L’amministratore De Scalzi è da sempre molto sensibile a ciò che si scrive e si dice della sua azienda. Se avrà la sensazione di avere una reale e completa copertura politica Agi si aggiungerà al polo di Angelucci quasi gratis altrimenti toccherà fare le cose come andrebbero fatte. 

La replica dell’Eni

Riceviamo e pubblichiamo la precisazione dell’ufficio stampa dell’Eni: “In merito all’articolo “Frenata su Angelucci. Si complica la cessione dell’Agi” pubblicato questa mattina, il Direttore Human Capital & Procurement Coordination di Eni, Claudio Granata, smentisce categoricamente di avere preso parte alla cena riportata dal giornalista, della quale non ha peraltro né conoscenza, né informazione.
Claudio Granata valuterà le opportune vie legali per tutelare la propria persona dalla pubblicazione di notizie false e infondate.
Si chiede cortesemente di pubblicare questa precisazione per fornire una corretta informazione ai vostri lettori, rispetto a una notizia infondata per la quale Eni non è stata direttamente contattata per verifica.

La risposta dell’autore dell’articolo, Giulio Cavalli: “Prendiamo atto della smentita della cena (riportata nel pezzo al condizionale) e siamo molto soddisfatti di non essere incorsi in inesattezze nel resto dell’articolo che contiene notizie molto più interessanti per i nostri lettori”. 

 

 

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L’Ue vota un nuovo Patto sulle migrazioni, ma è tutto sbagliato

“Oggi è davvero un giorno storico”, ha detto ieri la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, dopo che il Parlamento europeo ha dato la sua approvazione finale al nuovo Patto su migrazione e asilo. “Abbiamo fatto la storia”, ha detto la presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola.

Il Patto sulle migrazioni non risolve il problema della responsabilità del Paese di prima accoglienza e sdogana l’Ue come fortezza

Il pacchetto di dieci regole approvato ieri a Bruxelles è un ulteriore passo verso l’Europa chiusa e fortificata, in piena contraddizione con lo spirito per cui è stata fondata. Il superamento del regolamento di Dublino – da sempre contestato per la pesante ricaduta che comporta sui Paesi di primo ingresso – riesce addirittura a peggiorare la situazione: aumenta la responsabilità dei Paesi di approdo (Italia in primis) e rimane labile qualsiasi principio di solidarietà che consentirebbe un’equa collocazione dei richiedenti asilo. A favore del Patto – o comunque di buona parte – si sono espressi la delegazione di Fratelli d’Italia (in dissenso dal resto del gruppo del conservatori dell’Ecr) e di Forza Italia. Sono stati contrari invece la Lega, il Pd (anche in questo caso in dissenso dal Gruppo di appartenenza, S&d) e il Movimento 5 stelle.

L’accelerazione sulla votazione del Patto è stata impressa dalla presidente di Commissione von der Leyen con la speranza di arginare l’estrema destra in previsione delle prossime elezioni europee. Obiettivo fallito: i parlamentari di Orban, Le Pen e Salvini hanno votato contro assicurandosi la deresponsabilizzazione nel caso in cui fallisse e ora con le mani libere possono prepararsi alla tornata elettorale. 

Le nuove procedure prevedono la creazione alle frontiere di appositi centri dove identificare i migranti entro sette giorni, sottoponendoli a visita medica e ai controlli di sicurezza. Anche ai bambini con più di sei anni potranno essere prese le impronte digitali. Chi proviene da un paese che ha una percentuale di richieste di asilo accolte non superiore al 20% verrà rinchiuso in centri di permanenza speciali dai quali non potrà uscire e la sua richiesta di asilo esaminata entro tre mesi. In caso di respingimento dovrà essere espulso nei successivi tre mesi. Da questa procedura sono escluse le famiglie con figli minori e i minori non accompagnati, a meno che non siano stati ritenuti un rischio per la sicurezza.

È previsto anche che l’Ue accolga fino a 30 mila migranti l’anno e viene introdotta la cosiddetta solidarietà obbligatoria ma ogni stato membro potrà scegliere se farsi carico di una quota di richiedenti asilo oppure aiutare i paesi di primo approdo con un sostegno tecnico operativo oppure con contributi finanziari (è prevista la creazione di un fondo di 600 milioni di euro che gli Stati membri dovranno utilizzare in progetti destinati all’asilo o alla gestione delle frontiere). Infine nel caso dovessero crearsi situazioni di particolare emergenza in seguito a un numero particolarmente alto di sbarchi, un paese può chiedere al Consiglio Ue la dichiarazione di stato di crisi che prevede la distribuzione obbligatoria dei richiedenti asilo tra gli Stati membri. Per chi si rifiuta è previsto il pagamento di 20 mila euro per ogni mancato ricollocamento

Uno dei (molti) punti deboli del Patto sta nel meccanismo dei rimpatri che così com’è scritto potrebbe funzionare solo con la collaborazione dei Paesi di provenienza. La mancanza di accordi ripropone un meccanismo solo teoricamente funzionante, pronto a collassare appena i numeri aumentano sensibilmente. 

Per la CEI si tratta di “una deriva nella politica europea dell’asilo e il fallimento della solidarietà europea, che sembra infrangersi come le onde contro i barconi della speranza”

Poi, come al solito, ci sarebbero i diritti umani. Per monsignor Gian Carlo Perego, presidente della Commissione Cei che si occupa dei problemi dell’immigrazione nonché presidente della fondazione Migrantes il testo segna “una deriva nella politica europea dell’asilo e il fallimento della solidarietà europea, che sembra infrangersi come le onde contro i barconi della speranza”. “Confidiamo – dice Perego – che l’art. 10 della nostra Costituzione rimanga come presidio sicuro per tutelare i richiedenti asilo. Le prossime elezioni europee saranno un banco di prova importante per rigenerare l’Europa a partire dalle sue radici solidali e non piegarla a nazionalismi e populismi che rischiano di dimenticare la nostra comune storia europea”.

161 Ong hanno firmato una nota criticando “a detenzione di fatto alle frontiere anche di famiglie con bambini di tutte le età, procedure accelerate e inferiori agli standard per la valutazione delle richieste di asilo, tendenza a favorire procedure di rimpatrio anche per via dell’ampliamento dell’accezione del principio di “paese terzo sicuro”. Inoltre, in assenza di percorsi sicuri e regolari, le organizzazioni avvertono che “le persone in cerca di sicurezza o mezzi di sostentamento saranno costrette a intraprendere rotte sempre più pericolose, tanto che il 2023 si è configurato come l’anno più mortale mai registrato dal 2015: solo nel Mediterraneo, sono morte più di 2.500 persone”.

Infine, si avverte che il Patto “rappresenta un ulteriore passo avanti nell’uso delle nuove tecnologie per la sorveglianza di massa dei migranti e delle persone razzializzate, poiché tecnologie più intrusive verranno impiegate alle frontiere e nei centri di detenzione, i dati personali delle persone verranno raccolti in blocco e scambiati tra le forze di polizia in tutta l’Ue o l’identificazione biometrica i sistemi saranno utilizzati per tracciare i movimenti delle persone e aumentare il controllo dei migranti privi di documenti”. In Italia esulta sorridente il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. E questo basta per capire la natura dell’accordo. 

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Gli Usa prevedono un attacco dell’Iran su Israele

Secondo Bloomberg gli Stati Uniti prevedono un attacco missilistico su Israele da parte del’Iran. Tra gli obiettivi ci sarebbero siti militari e governativi del governo di Benjamin Netanyahu. Il potenziale attacco, probabilmente con missili ad alta precisione, potrebbe avvenire nei prossimi giorni. Il greggio Brent, punto di riferimento globale, è salito di oltre l’1% attestandosi sopra i 90 dollari al barile in seguito alla diffusione della notizia. Il petrolio è già cresciuto del 16% quest’anno, sostenuto dal premio per il rischio di guerra dall’inizio del conflitto in Medio Oriente.

L’Iran ha ufficialmente minacciato di colpire Israele nei giorni scorsi come risposta all’attacco della scorsa settimana a un complesso diplomatico nella capitale siriana di Damasco che ha ucciso alti ufficiali militari iraniani. Israele non ha riconosciuto esplicitamente la propria responsabilità dietro quell’attacco, sebbene abbia tradizionalmente seguito una politica di ambiguità sulle operazioni in Siria, Libano e altrove.

Secondo Bloomberg l’attacco degli Hezbollah potrebbe accadere nei prossimi giorni puntando obiettivi militari e governativi

Agli alleati occidentali di Israele è stato detto che il governo israeliano e le strutture militari potrebbero essere prese di mira, ma non si prevedono attacchi deliberati alle strutture civili. ,Alcuni funzionari statunitensi starebbero aiutando Israele nella pianificazione e nella condivisione delle valutazioni dell’intelligence. Netanyahu ha detto agli alleati che sta aspettando che questo attacco abbia luogo prima di lanciare un’altra offensiva di terra contro Hamas a Rafah, nella Striscia di Gaza, anche se non è chiaro quando questa operazione potrà iniziare.

Intanto i  capi di Hezbollah puntualizzano che un eventuale cessate il fuoco è legato alla situazione nella Striscia. Ieri un raid dell’aviazione ha ucciso tre figli del leader di Hamas Ismail Haniyeh. “Quello che il nemico non è riuscito a ottenere con la distruzione, non lo avrà con le trattive”, ha commentato al canale Al Jazeera dopo aver ricevuto la notizia. 

Ieri il presidente Usa Joe Biden ha ancora accusato Netanyahu di non fare abbastanza per l’arrivo di aiuti umanitari chiedendo a Israele di aprire un altro punto di accesso nel nord di Gaza. Ma ha anche riaffermato “l’impegno ferreo degli Usa per la sicurezza di Israele contro le minacce di Teheran e alleati”. 

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