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Giulio Cavalli

Universo letterario recensisce #IMangiafemmine

Giulio Cavalli (Milano, 1977) è un noto scrittore di romanzi e pièce teatrali, attivista per i diritti civili e, dal 2007, vive sotto scorta per la sua continua lotta contro le mafie. Giornalista d’inchiesta e autore di diversi libri dello stesso genere, ha pubblicato numerosi romanzi editi da Fandango fra cui Carnaio (2018), Disperanza (2020) e Nuovissimo Testamento (2021). È con Carnaioche, nel 2019, Cavalli vincerà il Premio Selezione Campiello – Giuria dei Letterati.

Le sue opere sono spesso delle critiche dissacranti della nostra società, polarizzando delle opinioni che l’autore vede, in embrione, ben presenti nel nostro mondo. Con I Mangiafemmine, pubblicato da Fandango libri, Cavalli torna nel fittizio paese di DF, specchio di una società in cui nessuno ha la volontà di specchiarsi, ma i cui semi sono ben presenti fra di noi.

La trama

Nel periodo delle elezioni nella fittizia città di DF, la vittoria dei Conservatoriguidata da Valerio Conti non sembra essere più una certezza: la città è in preda ad un delirio di violenza, una vera e propria epidemia di donne assassinate per strada, a casa dai mariti e dai compagni.

Il candidato premier non si interessa della questione: sostiene che, alla fine, le donne sono sempre morte. L’onere è al genere femminile: le brave donne non muoiono, non corrono rischi.

L’opinione pubblica è scissa: la classe politica non è in grado di affrontare il problema, e si rifiuta di ritenerlo tale. Le poche attiviste di DF gridano al massacro, e vengono ridotte al silenzio. Cavalli narra di un mondo i cui tentacoli si stanno lentamente insinuando nel nostro: cosa succede quanto un’intera classe politica volta le spalle al problema?

Il governo di DF propone una legge per “regolamentare l’attività venatoria”: legalizzare il femminicidio. Ed è così, che Cavalli dipinge l’orrore.

Un problema sociale: la storia di Frida

L’intera opera di Cavalli ha un obiettivo molto preciso: mostrare come, nella città di DF, la violenza di genere sia un problema radicato nella cultura che li rappresenta. Il romanzo parte immediatamente narrando la lenta discesa nella violenza maschilista di un uomo qualunque, Tullio Ravasi. Egli si «trasforma lentamente in un ratto», come sottolinea l’autore, e questa metamorfosi ha luogo in un momento preciso: nell’istante in cui osa violenza su una tirocinante sul posto di lavoro, costringendola ad un rapporto sessuale con la promessa di una futura assunzione.

Da qui, le prime pagine sono una spirale lenta e dolorosa con un unico epilogo possibile: Tullio ucciderà sua moglie Frida, casalinga che lui stesso aveva isolato dal mondo circostante. Ed è qui che iniziano le prime riflessioni: la storia di Tullio e Frida è una storia plausibile, che sembra tratta da uno dei nostri quotidiani.

Frida aveva un lavoro, una vita fuori da essa e una sua indipendenza economica ed emotiva. Tutto questo le è stato strappato da un marito-padrone che, attraverso una sottile manipolazione emotiva, l’ha spinta a lasciare tutto ciò che era suo e che la spingeva fuori, relegandola al ruolo di casalinga e moglie. Frida è una delle prime vittime di cui DF ci narra.

La cosa più spaventosa della storia di questa donna, che altri non è che un archetipo, è che non è stato solo il marito a spingerla: le violenze che Frida inizia a subire immediatamente dopo il matrimonio, dal controllo emotivo ed economico fino alle vessazioni psicologiche, vengono continuamente giustificate da tutte le persone attorno a Frida. Sua madre e le sue amiche le diranno che Tullio la ama, è così perché è stanco. Quando le suggerisce di lasciare il lavoro, non lo fa per una cultura del possesso, che a DF, specchio del nostro mondo, trionfa dolorosamente normalizzata: lo fa perché non vuole che si stanchi, perché tiene a lei.

Il problema fondamentale è che nessuno attorno a Frida la aiuta, bensì tutti sono portati a giudicare i comportamenti di possesso e controllo di Tullio come una forma di attenzione e di amore. Le dicono che dovrebbe essere grata. Talmente grata che Frida, dopo poche pagine, morirà uccisa non solo da suo marito, ma da una società patriarcale e maschilista attorno a lei, che ha ignorato i sintomi di quella che è una malattia pervasiva: la cultura del possesso.

Questo è il punto centrale della prima storia a cui assistiamo: Frida aveva provato a chiedere aiuto ai suoi genitori, alle sue amiche, ma era stata rimandata indietro dal suo aguzzino con il suggerimento di essere meno pesante. Ed è questo che continueranno a ripetere di lei, dopo il suo brutale omicidio: aveva esasperato suo marito, lui tornava a casa e vedeva una moglie «dal muso buio, eternamente insoddisfatta e ingrata».

Ciò che fa veramente spavento, come sottolinea implicitamente Cavalli, è che DF non è altri che quello specchio malato in cui la nostra società non vuole guardarsi.

Tullio è descritto fin dall’inizio come un uomo perfettamente normale, quasi banale. Ma nella storia umana abbiamo spesso assistito alla banalità del male, ed è proprio questo il punto della storia di Tullio: l’uomo femminicida non è un mostro, qualcosa di altro dall’uomo in quanto specie. Egli è fin troppo umano:è il prodotto di una società patriarcale e maschilista, che ha validato la cultura del possesso secondo cui l’uomo possiede la donna come se fosse un oggetto. Ella non ha una sua libertà, non ha una sua autonomia ed una sua voce.

Si tratta di una cultura radicata nella società di DF, come nella nostra, e che passa attraverso i gesti di cui si è discusso in precedenza: Tullio voleva controllare Frida in tutti i suoi aspetti, relegandola solamente ad una casalinga pronta a obbedire ad ogni suo ordine. Quando ella è fuggita dal suo controllo, Tullio ha reagito seguendo il pattern che lo ha contraddistinto: le ha tolto la vita, non potendo accettare di non possederla più.

Mangiafemmine: una legge per legalizzare il femminicidio

La proposta dei Conservatori di Conti è chiara: equiparare l’attività venatoria con il femminicidioLegalizzarlo al fine di controllare il fenomeno, di regolarizzarlo attraverso dei criteri igienico-sanitari e delle liste di donne che possono essere cacciate. Perché, come è stato sottolineato in precedenza, le brave donne non muoiono: quelle che, secondo la legge, possono essere “abbattute” sono quelle che non rispondono ai dettami della brava moglie e casalinga. Le attiviste, le ribelli e tutte coloro che si rifiutano di essere equiparate ad un mero possesso.

Si tratta di un’ipotesi agghiacciante alle nostre orecchie, eppure a DF nessuno si oppone: solo Clementina Merlin, giornalista e attivista per i diritti femminili, reagisce sconvolta a questa proposta.

Quando ella cerca un dialogo con le persone accanto a lei, questi sembrano non considerare in alcun modo la gravità di quanto accaduto: una signora incinta in fila dal medico dichiara di non essere interessata alla questione poiché incinta, e le donne gravide sono escluse dalla possibilità di essere bersagliate, e per di più ella aspetta un maschio.

I partiti politici stessi minimizzano la questione, ed è proprio l’opposizione ad appoggiare questa proposta, giustificata su basi genetiche ed ormonali: in fondo, l’uomo uccide poiché geneticamente portato a farlo. A DF, l’uomo stupra perché è naturalmente portato alla prosecuzione della specie, non perché cresciuto da una società che non gli ha insegnato il consenso, facendogli credere di poter prendere da una donna ciò che più gli aggrada senza preoccuparsi dell’altra persona.

Egli la possiede come un oggetto, in tutti i suoi aspetti. E la legge sul femminicidio presentata a DF non è altri che l’atto estremo di una malattia che si è insinuata nella nostra società, di cui vediamo tutti i sintomi.

Il romanzo di Cavalli è una critica dissacrante alla nostra società e a quei retaggi culturali che la permeano. Egli ha estremizzato le conseguenze di qualcosa che, con dolore, bisogna ammettere che è già qui. Lo stile dell’autore è volutamente diretto: la violenza di DF arriva al lettore con rapidità e forza, impedendogli di non pensare alle terribili analogie che il mondo immaginario di Cavalli possiede con il nostro.

Si tratta di un libro che chiunque dovrebbe leggere: le parole di Cavalli sono evocative, e il lettore non può che porsi degli interrogativi su questo nostro mondo. Come sintetizza l’autore stesso:

Il problema non sono solo gli uomini che uccidono o che stuprano, il problema sono anche gli uomini che non uccidono e non stuprano, ma hanno il terrore di avere prima o poi bisogno di farlo.

Gip del caso Delmastro. Può scordarsi la protezione

Non c’è niente di peggio del dubitare che a qualcuno in pericolo venga tolta la protezione per ritorsione. Emanuela Attura è una magistrata che dal marzo 2020 era protetta da una tutela di quarto livello. “Questa giudice me la porterò con me nella tomba”, aveva detto di lei Raffaele Casamonica, componente dell’omonimo clan, a un familiare durante un colloquio in carcere.

Da oggi la gip Emanuela Attura non sarà più tutelata per decisione dell’Ufficio centrale interforze per la Sicurezza personale

Da mercoledì 22 novembre la gip non sarà più tutelata per decisione dell’Ufficio centrale interforze per la Sicurezza personale del dipartimento della Pubblica sicurezza (Ucis). Casamonica, esponente del gruppo criminale definito mafioso in diverse sentenze, è ricoverato e le sue condizioni sono considerate gravi. C’è un particolare però di questa storia che va raccontato. La magistrata è la stessa che lo scorso 6 luglio aveva disposto l’imputazione coatta per il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro (nella foto), accusato di aver passato informazioni sensibili sul caso dell’anarchico Cospito al collega di partito (Fratelli d’Italia) Giovanni Donzelli.

L’udienza preliminare di quella brutta storia – già dimenticata – è fissata per il prossimo 29 novembre. Il caso era esploso quando “fonti di Palazzo Chigi” avevano accusato parte della magistratura “di svolgere un ruolo attivo di opposizione“. “In un processo di parti non è consueto che la parte pubblica chieda l’archiviazione e il giudice per le indagini preliminari imponga che si avvii il giudizio”, si leggeva nella nota in cui si parlava di magistratura che “inaugurava anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee“. Non c’è niente di peggio del dubitare che a qualcuno in pericolo venga tolta la protezione per ritorsione.

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Al processo “Rinascita Scott” provati i legami tra clan e istituzioni

Ci speravano in molti che il maxi processo di ‘ndrangheta Rinascita Scott finisse con un buco nell’acqua. Ci sperava sicuramente l’ex senatore di Forza Italia (poi passato a Fratelli d’Italia) Giancarlo Pittelli che ieri invece è stato condannato per concorso esterno e ci speravano i 207 condannati (su 338 imputati). A sperarci erano anche coloro che da sempre accusano l’ex Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri (che nelle scorse settimane si è insediato a Napoli) di costruire impianti accusatori che si sfaldano davanti ai giudici. Non è andata così.

Ci speravano in molti che il maxi processo contro la ‘ndrangheta Rinascita Scott finisse con un buco nell’acqua

Dopo più di un mese di camera di consiglio, infatti, i giudici di primo grado Brigida Cavasino, Claudia Caputo e Germana Radice hanno letto stamattina il dispositivo della sentenza. Un processo nato da quella che molti ritengono la “più grande operazione dopo quella che portò al maxi-processo di Palermo a Cosa Nostra” cha ha portato alla sbarra i boss della cosca Mancuso di Limbadi e quelli delle altre famiglie mafiose vibonesi ma anche imprenditori, ex parlamentari, ex consiglieri regionali, sindaci, carabinieri, uomini dei servizi segreti e professionisti.

Il nome pesante è l’ex senatore di Forza Italia Giancarlo Pittelli, avvocato e massone accusato di concorso esterno con la ‘ndrangheta. Al termine dell’istruttoria dibattimentale, i giudici gli hanno inflitto 11 anni di carcere. Tra i politici spicca anche l’ex consigliere regionale Pietro Giamborino (un anno e mezzo di carcere) che i pm antimafia considerano a tutti gli effetti appartenente alla cosca di Piscopio. Assolto invece l’ex sindaco di Pizzo Calabro, ex renziano, Gianluca Callipo che era accusato sempre di concorso esterno con la ‘ndrangheta. Condanne pesanti invece per l’ala prettamente mafiosa dal boss Saverio Razionale (30 anni di carcere) e l’ex latitante Pasquale Bonavota (28 anni), arrestato nei mesi scorsi a Genova.

La più grande operazione antimafia dopo il maxi-processo di Palermo. L’ex senatore Pittelli condannato a 11 anni

Sono stati condannati anche boss Domenico e Nicola Bonavota (rispettivamente 30 e 26 anni di reclusione), Domenico Cugliari (22 anni e 6 mesi), Antonio Larosa (24 anni e 6 mesi), Paolino Lo Bianco (30 anni), Antonio Macrì (20 anni e 10 mesi), Salvatore Morelli (28 anni e 4 mesi), Valerio Navarra (23 anni), Agostino Papaianni (20 anni), Rosario Pugliese (28 anni) e Antonio Vacatello (30 anni). Tra i colletti bianchi condanne per Giorgio Naselli, ex tenente colonnello dei carabinieri, due anni e 6 mesi (8 anni), l’ex comandante dei Vigili urbani di Vibo Valentia Filippo Nesci, 4 anni, l’avvocato Francesco Stilo, 14 anni. Michele Marinaro, ex maresciallo della Dia, 10 anni, rispetto ai 17 richiesti. Cinque anni e sei mesi per l’ex appuntato scelto del reparto operativo dei carabinieri di Vibo, Antonio Ventura: la richiesta era stata di 18 anni. “Il tempo è galantuomo, ma le ingiustizie subite dalla criminalità istituzionale non saranno mai riparate”, afferma, in una nota, Luigi de Magistris, ex magistrato ed ex sindaco di Napoli.

“Quando da pm a Catanzaro indagai nel 2006/2007 Pittelli per associazione a delinquere, riciclaggio e partecipazione a logge occulte nell’ambito dell’indagine Poseidone su gravissimi crimini nel settore ambientale, il Procuratore della Repubblica Lombardi, di cui Pittelli era avvocato ed amico caro, mi revocò l’indagine. Sei mesi prima il figlio della moglie del Procuratore era stato anche assunto nella società dell’avvocato Pittelli e il Procuratore diede pure fideiussione. Lo stesso figlio recentemente è stato arrestato in flagranza per una concussione di 50 mila euro”. Il processo che avrebbe dovuto essere un flop si chiude con 207 condanne per oltre 2mila anni di carcere in primo grado. Non male, per essere solo una “spettacolarizzazione” della mafia che secondo molti non c’è.

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Elena Cecchettin ha stanato il lupo

In una tempo di panpenalismo di propaganda che consiste nell’aumentare tutti i reati che non potrebbero mai essere commessi dal proprio elettorato il governo di Giorgia Meloni ha dimenticato di considerare il reato più grave e culturalmente devastante: la violenza di Stato.

Avrebbe così potuto osservare con occhi diversi gli accadimenti di queste ultime ore in cui famelici maschi si stanno buttando sul corpo di Elena Cecchettin, sorella di quella Giulia ammazzata da Filippo Turetta come è già accaduto altre 104 volte quest’anno in Italia e come accadrà ancora prima della fine dell’anno. Elena ha scelto di dismettere i panni della donna addolorata così rassicurante per le società patriarcali – zitta e buona – puntando il dito contro il mandante storico e culturale che c’è dietro ogni femminicidio: il possesso che sfocia nel controllo poi nella prevaricazione e infine nell’ammazzamento. 

Non accettando di stare al suo posto Elena Cecchettin ha rinunciato al ruolo assegnato al suo genere (rassicurare) e ha deciso di occupare spazio (in questo caso mediatico) che taluni maschi vivono come uno scippo. Il consigliere regionale leghista che in Veneto dice di vedere negli occhi, negli abiti e nelle felpe di Elena Cecchetin addirittura il diavolo semplicemente non si è trattenuto dal dire quello che molti pensano. In giro sui social i maschi arruolati nell’esercito della fallocrazia strepitano contro Elena Cecchettin rivendicando che “non tutti i maschi sono così” adottando le stesse logiche violente dei maschi così: Elena Cecchettin ha stanato il lupo. Ben fatto. 

Buon martedì. 

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Sul delitto Cecchettin si sgretola il mito sovranista della famiglia patriarcale

Per toccare con mano l’abisso del dibattito politico intorno all’ennesimo femminicida, Filippo Turetta, che ha ucciso la sua ex fidanzata Giulia Cecchettin, si potrebbe partire da un post scritto sui social dal ministro alle Infrastrutture e vice presidente del Consiglio Matteo Salvini che alla notizia dell’arresto del giovane fuggitivo in Germania ha scritto: “Se colpevole, nessuno sconto di pena e carcere a vita”.

L’assassino di Giulia Cecchettin è bianco e di buona famiglia. Così nel mirino delle destre finisce la sorella della vittima

Che il leader della Lega si riscopra garantista di fronte a un maschio italiano bianco accusato degli stessi reati per cui solitamente invoca “il carcere a vita” non è sfuggito nemmeno alla sorella della vittima, Elena, che in questi giorni disturba una certa narrazione che la vorrebbe silenziosa e affranta: “Ministro dei trasporti che dubita della colpevolezza di Turetta. Perché bianco, perché di ‘buona famiglia’. Anche questa è violenza, violenza di Stato”, scrive Elena in una storia su Instagram.

Il consigliere regionale veneto Stefano Valdegamberi, eletto nella lista Zaia e confluito nel gruppo Misto, invece, invita addirittura i magistrati a indagare sulla sorella di Giulia: Valdegamberi sostiene che le dichiarazioni di Elena e la sua lettera in cui accusa la cultura patriarcale “hanno sollevato dubbi e sospetti che spero i magistrati valutino attentamente. Mi sembra un messaggio ideologico, costruito ad hoc, pronto per la recita”. Esprime giudizi sulla sorella di Giulia: “Quella felpa con certi simboli satanici aiuta a capire molto”. E sostiene che da parte della ragazza ci sia “il tentativo di quasi giustificare l’omicida dando la responsabilità alla ‘società patriarcale’. Più che di società patriarcale dovremmo parlare di società satanista, cara ragazza. Sembra una che recita una parte di un qualcosa predeterminato e precostituito”.

Sempre di casa Lega è la deputata Simonetta Matone che ospite alla trasmissione Rai Domenica In ha detto: “Io non ho mai incontrato soggetti gravemente maltrattati e gravemente disturbati che avessero però delle mamme normali”. In sostanza secondo l’ex giudice ora parlamentare la colpa dei maschi violenti risiederebbe nelle loro madri pestate dai mariti. Anche in questo caso le vittime sono le donne, sempre loro. Come lei era ospite anche l’esponente di centrodestra Rita Dalla Chiesa: “Sconcerta che per discutere di una questione sulla quale serve la massima unità, la Rai decida di far parlare solo una parte, fornendo ancora una volta un cattivo esempio di pluralismo”, lamenta il Partito democratico mentre gli esponenti del M5S della commissione Vigilanza del servizio pubblico notano come sia “incredibile che a fronte dell’ennesimo brutale femminicidio, sul servizio pubblico non si sia stati in grado di affrontare il tema in maniera bilanciata, corretta e soprattutto veicolando i giusti messaggi”.

Ma che fa il governo? Mentre il Partito democratico attraverso la sua segretaria Elly Schlein propone di approvare “subito una legge che introduca l’educazione alla affettività in ogni classe” perché per “sradicare per davvero questa tossica cultura patriarcale bisogna partire prima che si radichi nei maschi”, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni annuncia di non avere intenzione di aprire nuovi tavoli per scrivere leggi diverse rispetto a quella già votata alla Camera e che in settimana arriva in Senato per il via libera definitivo. Nessuna legge sui corsi nelle scuole, dove secondo il governo basta l’iniziativa sulla violenza (incluso il bullismo) che è contemplata nell’ambito di una campagna informativa che sarà presentata a Palazzo Chigi insieme ai ministri Giuseppe Valditara, Eugenia Roccella e Gennaro Sangiuliano.

A oggi la reazione del governo si limita a un minuto di silenzio nelle scuole per ricordare Giulia Cecchettin (105esima vittima di femminicidio nel 2023) e un piano (dal titolo “educare alle relazioni” che il ministro Valditara annuncia che sarà presentato domani (“frutto di un lavoro accurato del ministero dell’Istruzione all’insegna di confronto ampio e di un pluralismo di rapporti”). Quali siano stati per ora non è dato saperlo. A oggi si sa che studenti, psicologi e centri anti-violenza contestano alcuni contenuti della proposta. Trovare una quadra non sarà facile. Nella lettera scritta ieri al Corriere della Sera la sorella di Giulia Cecchettin punta il dito contro comportamenti che richiederebbero una severa presa di coscienza da parte degli uomini: “Turetta viene spesso definito come mostro, invece mostro non è.

Un mostro è un’eccezione, una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è. I ‘mostri’ non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro”, scrive Elena Cecchettin. “La cultura dello stupro – continua la sorella maggiore nella sua lettera – è ciò che legittima ogni comportamento che va a ledere la figura della donna, a partire dalle cose a cui talvolta non viene nemmeno data importanza ma che di importanza ne hanno eccome, come il controllo, la possessività, il catcalling. E poi: “è responsabilità degli uomini in questa società patriarcale dato il loro privilegio e il loro potere, educare e richiamare amici e colleghi non appena sentano il minimo accenno di violenza sessista”. Osservando bene, a finire sotto accusa è proprio quello schema Dio-Patria-famiglia tradizionale su cui si basa la retorica del governo.

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Tra ruspe e motoseghe. Milei è il Salvini argentino

C’è un nuovo idolo della destra sovranista mondiale orfana delle pericolose bizze di Donald Trump: Javier Milei è il nuovo presidente dell’Argentina. Il candidato de La Libertad Avanza ha preso più del 55% dei voti al ballottaggio e il 10 dicembre entrerà in carica. Il prossimo presidente argentino è diventato un’icona impugnando una motosega e agitandola di fronte ai suoi fan impazziti di gioia.

C’è un nuovo idolo della destra sovranista mondiale orfana di Trump: Javier Milei è il nuovo presidente dell’Argentina

Se vi chiedete come sia possibile ricordate che da noi è vice presidente del Consiglio uno che evocava le ruspe e si fotografava sorridente quando ne incrociava qualcuna in giro. Il programma di Milei è rintracciabile nei suoi sconclusionati slogan vomitati in campagna elettorale: “Tra la mafia e lo Stato, preferisco la mafia. La mafia ha un codice d’onore, la mafia non mente, la mafia compete sul mercato”, oppure le tasse sono “residui dello schiavismo” ed evaderle “un diritto umano”, oppure “la mia missione è prendere a calci nel culo i keynesiani e i collettivisti figli di puttana”. Milei vuole privatizzare tutte le scuole e gli ospedali, vuole liberalizzare la vendita di organi e vorrebbe “bruciare la banca centrale argentina”.

Qual è l’idea di sovranismo di Milei? Dollarizzare l’Argentina. In sostanza: fare il sovranista con la moneta degli altri. Peccato che per farlo Milei avrebbe bisogno di una quantità di dollari che non ha e che non hanno le banche, le imprese e le famiglie. Peccato che la politica monetaria nazionale verrebbe decisa da un altro Stato. Peccato che sia la migliore soluzione per arrivare veloci all’ennesimo default. Ma alla destra di Trump, Bolsonaro, Milei (e Salvini e Meloni quando sono in campagna elettorale) le soluzioni non interessano: contano solo le promesse.

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Le dimissioni di un premio Pulitzer contro le parole della guerra

Anne Boyer è poetessa, saggista e giornalista che si occupa di poesia, vincitrice del premio Pulitzer. Qualche giorno fa si è dimessa dal suo incarico per il New York Times Magazine contestando la narrazione sulla guerra a Gaza. La sua lettera di dimissioni parla del giornalismo e dell’uso delle parole. Sarebbe l’occasione per aprire un proficuo dibattito anche da noi se non fosse che la notizia rimarrà nascosta sotto i panni sporchi. 

“Mi sono dimessa da redattrice di poesia del New York Times Magazine.

La guerra sostenuta dagli Stati Uniti dallo stato israeliano contro il popolo di Gaza non è una guerra per nessuno. Non c’è sicurezza in essa o da essa, non per Israele, non per gli Stati Uniti o l’Europa, e soprattutto non per i molti ebrei calunniati da coloro che affermano falsamente di combattere a loro nome. Il suo unico profitto è il profitto mortale degli interessi petroliferi e dei produttori di armi.

Il mondo, il futuro, i nostri cuori: tutto diventa più piccolo e più difficile da questa guerra. Non è solo una guerra di missili e invasioni terrestri. È una guerra in corso contro il popolo palestinese, persone che hanno resistito durante decenni di occupazione, dislocazione forzata, privazione, sorveglianza, assedio, prigionia e tortura.

Poiché il nostro status quo è l’espressione di sé, a volte la modalità di protesta più efficace per gli artisti è rifiutare.

Non posso scrivere di poesia tra i toni “ragionevoli” di coloro che mirano ad acclimatarci a questa sofferenza irragionevole. Niente più eufemismi macabri. Niente più paesaggi infernali igienizzati verbalmente. Niente più bugie guerrafondaie. 

Se questa rassegnazione lascia un buco nelle notizie delle dimensioni della poesia, allora questa è la vera forma del presente”. 

Buon lunedì. 

Nella foto: Anne Boyer, Buenos Aires, 10 de febrero de 2023 – Workshop en el Festival Poesía Ya! Fotos: Kaloian / Ministerio de Cultura de la Nación

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