Vai al contenuto

Giulio Cavalli

Parla male del boss: pestato con una mazza da baseball. In Lombardia.

Pare che in carcere avesse osato parlare male di quello che è ritenuto essere un vecchio boss di provincia, figura di riferimento – ritengono gli inquirenti – del clan di ’ndrangheta dei Piromalli. Un personaggio, quest’ultimo, nato a Gioia Tauro e residente nel Milanese, 62 anni, che si vantava di aver maturato due ergastoli e 83 anni di carcere. L’affronto cui abbiamo accennato – ovvero l’aver pronunciato parole pesanti contro il personaggio di spicco della malavita organizzata – sarebbe stato il pretesto per una spedizione punitiva andata in scena tra Lurago Marinone e Limido Comasco. Un blitz che è costato caro al fratello di chi aveva commesso lo sgarro, sequestrato fuori da un bar e massacrato di botte utilizzando per spaccargli una gamba una mazza da baseball. È questo l’ennesimo episodio di violenza che riguarda la Bassa Comasca, portato alla luce dalle indagini della squadra mobile che in queste ultime settimane ha stretto la morsa attorno alla malavita che stritola l’area della nostra provincia che da Fino Mornasco scende a Guanzate, Limido, Lurago Marinone, Lomazzo e via dicendo. Ieri mattina gli uomini della Questura hanno eseguito cinque ordinanze di custodia cautelare con le accuse di lesioni gravi e sequestro di persona proprio relative a quell’episodio che risalirebbe al 15 settembre. La vittima, 35 anni, fu sorpresa fuori dal bar dove si stava recando a lavorare potendo contare – nonostante i “domiciliari” per una accusa di spaccio di droga lungo la A9 – sul permesso di uscita. L’uomo fu prelevato da più persone (tre ancora sconosciute), portato da Lurago Marinone a Limido, e picchiato con una mazza da baseball (oltre 45 giorni di prognosi). La sua colpa essere fratello di un detenuto del Bassone che pare avesse parlato male del boss. Nei guai sono finiti il mandante, gli esecutori del blitz (il figlio 34enne del boss e un 36enne del Milanese) più gli anelli di congiunzione tra quanto avvenuto al Bassone e il boss. Tra questi un 28enne di Lomazzo e un nome già noto alle cronache, uno dei fratelli di Lurago Marinone (42 anni) in cella per un altro sequestro di persona nell’ambito delle indagini sul delitto di Guanzate. Un cancro, quest’ultimo, che ogni giorno mostra le proprie infinite metastasi.

(fonte)

Soffre troppo

Giulio Lampada, a sinistra
Giulio Lampada, a sinistra

Lo avevano definito il moderno rappresentante dell’alleanza tra mafia e zona grigia. Un boss in giacca, cravatta e smartphone capace di gestire a Milano i rapporti con politici, massoni e giudici (compresi i magistrati Vincenzo Giglio e Giancarlo Giusti) per conto del potente clan Condello della ‘ndrangheta.
Giulio Lampada, 43 anni, è stato arrestato tre anni fa a Milano e condannato in Appello a 14 anni e 5 mesi per associazione mafiosa. Pena che ora il boss sconterà ai domiciliari in una comunità terapeutica in provincia di Savona. Così ha deciso il Tribunale del riesame di Milano, al termine di una lunghissima battaglia legale sostenuta dai difensori Giuseppe Nardo e Giovanni Aricò. Il motivo? Il boss è terrorizzato dalla galera. Per i giudici, Lampada ha la fobia del carcere e degli ospedali. E visto che in questi anni di detenzione ha manifestato «istinti autolesivi, depressione, stati d’ansia e rifiuto di assumere psicofarmaci», la sola struttura adatta a curarlo è una comunità terapeutica. Struttura dove, come riportato nelle dieci pagine della sentenza, «non ci sono guardie e sbarre» né «corsie, camici bianchi, giro dei medici, odore di medicinali e disinfettanti». Un luogo ideale per «far venir meno gli aspetti persecutori del carcere».

Una decisione motivata da una serie di perizie (quelle della difesa affidate alla coppia Bruno-Meluzzi) che hanno certificato «un disturbo depressivo, di conversione somatica, di evitamento a contenuto multiplo» aggravato dal fatto di trovarsi chiuso in una cella. Quando lo scorso luglio Lampada era stato ricoverato all’ospedale di Voghera, sempre su decisione del Tribunale di Milano, si era presentato allo psichiatra su una sedia a rotelle «con espressione quasi allucinata». «Il pensare all’odore dei medicinali, l’essere in mezzo ai malati mi angoscia», aveva raccontato. Poi dopo un tentativo di sciopero della fame durato solo 5 giorni, aveva smesso di lavarsi: «Il suo stato lo spingeva a rimuginare ossessivamente sulla sua vicenda giudiziaria. Il carcere stimolava l’emergere di fantasmi persecutori».

(fonte)

Dissanguato sotto la terra di Lombardia

L’appuntamento è sotto casa. Da qui il viaggio in auto verso il bosco dove lo attendono altri quattro uomini. Pochi secondi per capire e tutto crolla. Salta fuori una pistola. Poi il coltello. Partono i fendenti. Almeno trenta. Non sono mortali, ma portati per far soffrire. Il sangue inizia a uscire. La vista si appanna. La morte è a un passo. Steso a terra, il corpo viene ricoperto con le foglie. Il respiro rallenta. La “batteria” dei killer riparte. Si torna a casa. L’appuntamento è fissato per il giorno dopo in un cantiere dove sta sorgendo una villetta. C’è chi porta il vino, chi le braciole. Una bella grigliata è quello che ci vuole. E mentre qualcuno festeggia, altri scavano una buca profonda oltre due metri. Poi il sole cala. Si sale in auto e si torna a recuperare il corpo. Appena mezz’ora e la macchina rientra nel cantiere. La buca è pronta. Sul fondo è già stato gettato uno strato di calce. La vittima viene spogliata, i vestiti bruciati, il corpo gettato nella fossa, ricoperto di calce e poi di terra. E’ il 9 giugno scorso. Ecco come uccide la ‘ndrangheta. Non in Calabria, ma nella Lombardia che corre dritta verso l’Expo, nella zona della bassa comasca dove le cosche, appena sfiorate dal maxi-blitz Infinito del 2010, agiscono alla luce del sole, mostrando armi e muscoli, intimidendo e uccidendo.

Come successo a Ernesto Albanese, 33enne di Polistena, pregiudicato e trafficante di droga per conto dei clan locali. Albanese scompare dopo le 23 dell’8 giugno scorso. Fino a quell’ora è stato nella sua casa di Bulgorello di Cadorago. Seduto al computer, chattando su Facebook e inviando minacce ai “compari”. Albanese dice di voler fare tutti i nomi “da qui fino a Reggio Calabria”, sostiene che i mafiosi che vivono tra Cadorago, Fino Mornasco e Appiano Gentile sono semplici “quaquaraquà”. Qualcuno di questi risponde: “Uomo senza labbra ti aspetto a braccia aperte”. Per questo, ragionano gli investigatori della squadra Mobile di Como, Albanese viene sequestrato, scannato, lasciato morire dissanguato nei boschi dietro al comune di Guanzate e il corpo seppellito il giorno dopo nel cantiere di via Patrioti sempre a Guanzate (foto di Mattia Vacca).

Le scene dell’orrore mafioso sono state ricostruite dai magistrati della procura di Como. Sul registro degli indagati ci sono sei persone che attualmente si trovano in carcere per altri motivi. Alcune di loro sono state arrestate nel luglio scorso dal Ros di Milano che ha eseguito diverse ordinanze a carico di cinque gruppi di narcos legati al crimine organizzato. Negli ordini di cattura richiesti dal pm Marcello Musso c’era anche Ernesto Albanese. I militari, però, non lo hanno trovato. In quel momento l’uomo era già sotto terra.

Bisogna aspettare il 2 settembre scorso perché “una soffiata” conduca la polizia nel cantiere di Guanzate. Le operazioni per estrarre il corpo di Albanese durano due giorni. Oltre alla scientifica ci sono anche esperti di scavi archelogici. Si studiano gli strati del terreno e, grazie a particolari tecnologie, viene ricostruito il calco delle benna che ha fatto la buca. E’ la svolta del giallo. Sì perché quel calco corrisponde a una ruspa trovata nella villetta del pregiudicato calabrese Luciano Nocera. Quello, secondo la polizia, è il mezzo che ha scavato la fossa per Albanese.

La scoperta alza il velo sul contesto criminale. Nocera viene arrestato dal Ros di Milano nel luglio scorso. E’ accusato di coordinare una “batteria” di trafficanti legati al clan Muscatello di Mariano Comense e alla famiglia Iconis di Fino Mornasco, coinvolta, negli anni Novanta, nell’operazione La notte dei fiori di San Vito e ritenuta vicina alla potente famiglia Mazzaferro. Secondo l’indagine milanese Ernesto Albanese era un corriere. Dalle carte di quell’operazione emergono i suoi contatti con Nocera. Rapporti che col tempo s’incrinano. “Quello – dirà Nocera di Albanese – è un pezzo di merda e questa mattina l’ho preso a calci nel culo”. Di più: un’altra indagine della Dda di Milano, su cui pende richiesta di archiviazione, descrive Nocera come personaggio molto vicino alla ‘ndrangheta di Fino Mornasco, capace di intavolare rapporti con la politica locale, ma anche violento e senza scrupoli. “Il primo che piglierò a fucilate – dice al telefono – sarà il comandante dei carabinieri”.Insomma l’omicidio di Albanese è solo la punta dell’ice-berg di un contesto mafioso per nulla intaccato dalle inchieste.

(fonte)

Non c’è brivido, non c’è eccitazione, non c’è sfida: solo la paura raggelante

Una riflessione da prendere in considerazione di Domenico Perrone, figlio di Roberto ex boss che gestiva il clan Polverino oggi pentito, sulle fiction tv e in generale sui rischi nel rappresentare la criminalità organizzata:

«Vi posso assicurare che, dal vivo, è tutta un’altra storia. Non c’è brivido, non c’è eccitazione, non c’è sfida: solo la paura raggelante di essere arrestati, traditi o ammazzati, e anche quando sei pieno pieno di soldi, non hai mai pace». Sul piccolo e grande schermo, questo contrappasso, invece, emerge raramente.
Non è mostrando l’inferno – è il suo ragionamento – che si combattono i peccati. «Perché c’è anche chi all’inferno vuole andare coscientemente». E allora che fare? «Mostrare che fine fanno i camorristi, in un cimitero o in un carcere sorvegliati a vista per il resto della loro vita».
Poi si ferma, e si corregge: «Anzi, nemmeno questo: le fiction le farei su chi a Scampia si alza al mattino e va a lavorare perché ci vuole molto più coraggio per essere onesti, in quei luoghi, che per premere il grilletto o vendere la droga».

L’onore di arrivare secondo

[Prima di cominciare un precisazione: la parola “onore” volutamente usata nel suo bellissimo senso meritorio:

In senso più soggettivo e unilaterale (con riferimento a ciò che sente e prova la persona stessa), il sentimento della propria dignità, la coscienza dell’alto valore morale che ha la buona reputazione, e di conseguenza il costante desiderio di non demeritarla, nel possesso di quelle qualità che procurano la stima altrui, come l’onestà, la lealtà, la rettitudine, la serietà e di quelle altre che a ciascuno impone il suo particolare stato.]

1979848_10152474464157756_2532580778484650665_nInizialmente fu un radiodramma. La storia di Dorando Pietri mi era stata commissionata per farne una trasmissione per RadioRai. Era qualche anno fa e già rimbombava forte questa smania di primeggiare come unico risultato accettabile. Gli anni poi hanno peggiorato la nevrosi sociale e ancora di più oggi la spaccatura tra i sopravviventi e gli scalatori è diventata una ferita con labbra molto più larghe così proporlo ora diventa obbligatorio per preservare il dovere di solidarietà senza pena ma con matura e piena condivisione. Se riuscissimo a “farci carico” di tutti i Dorando Pietri di questo nostro mondo probabilmente salveremo le virtù “fuori moda” del merito, dell’impegno, della perseveranza e dell’ostinazione non egoista.

“Corro perché scivolo” è stato un balsamo nel pensarlo e nello scriverlo e vorrebbe essere un balsamo nel leggerlo e per questo abbiamo voluto che diventasse anche carta con i suoi sapori anche si ci è costato fatica. Un manifesto dei secondi in cui ci iscriviamo. Con onore.

Il libro lo potete acquistare nella nostra piccola bottega (mi sto affezionando ai piccoli passi, finalmente, dopo anni di tentativi) e durante le rappresentazioni teatrali o le presentazioni (che potete organizzare contattandoci qui) perché ne siamo molto gelosi. Con cura. Come si usa con le cose belle.

Buona lettura, se vi va.

La scomparsa della vergogna di non sapere

“Non c’è solo la corruzione del denaro, che devasta larga parte del Paese, c’è la corruzione delle menti, la scomparsa della vergogna di non sapere, di non sapere parlare e quindi di pensare con difficoltà”.

(Corrado Augias)

La pavidità a sinistra rivenduta come garantismo

Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza pubblicano un articolo per L’Ora Quotidiano che coglie in pieno il vento del “neogarantismo” del PD che, a partire dal processo sulla trattativa, sembra passare troppo inosservato. Da leggere tutto, prima di giudicare:

Galeotto fu il pamphlet scritto dal giurista Giovanni Fiandaca, e pubblicato sul Foglio di Giuliano Ferrara l’1 giugno dell’anno scorso con il titolo “Il processo sulla trattativa Stato-mafia è una boiata pazzesca”, che sostiene una tesi machiavellica e contorta: non solo la trattativa tra boss e istituzioni ci fu (e fin qui siamo tutti d’accordo), ma fu un’iniziativa legittima e addirittura doverosa, trattandosi dello strumento attraverso il quale lo Stato cercò di assolvere al suo obbligo fondamentale, cioè preservare la vita dei cittadini. Se davanti ai cadaveri ancora caldi di Falcone e Borsellino, lo Stato trattò con la mafia – è la tesi del libello – ebbe ragione di farlo allo scopo di salvaguardare l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale. “Basta con l’antimafia gridata – implora Fiandaca – oggi la lotta alla mafia va affrontata su basi legislative innovative, serie, che chiudano una volta e per tutte la stagione degli eccessi di contrapposizione”.

Da allora, nulla è più come prima. Le parole del giurista hanno avuto l’effetto di uno squillo di tromba che ha chiamato a raccolta quanti, in Sicilia ma soprattutto nelle alte sfere istituzionali, vedono il processo palermitano sulla trattativa Stato-mafia come il fumo negli occhi. Primo fra tutti Giorgio Napolitano. E difatti a Palermo, per discutere il pamphlet giustificazionista, si catapulta il suo più fido luogotenente, Emanuele Macaluso, totem vivente dell’area migliorista siciliana, ma soprattutto l’uomo che il generale Mario Redditi (ex capo di gabinetto al Sisde) intercettato al telefono con Mario Mori definì “il ventriloquo” del capo dello Stato. Non è passato che un mese dall’articolo del Foglio. Sotto le capriate di Palazzo Steri, sede della storica Inquisizione siciliana, Nenè Macaluso, il vecchio senatore comunista, battezza il trattato anti-pm di Fiandaca come la bibbia del nuovo garantismo di sinistra, infrangendo pubblicamente un tabù che da oltre vent’anni gravava sulle spalle del Pd, o almeno di quel pezzo di partito che ancora in qualche modo si sentiva erede del Pci di Pio La Torre: l’impossibilità di criticare le scelte della magistratura antimafia, senza incorrere nel rischio di essere immediatamente assimilati alla destra e alle tesi del berlusconismo. Dopo lo scontro scatenato da Napolitano con il conflitto di attribuzione nei confronti dei pm di Palermo, un’autentica manna per chi ha a cuore l’estraneità del capo dello Stato all’affaire che mette sotto accusa lo Stato.

L’alibi giuridico allo scontro politico

A sinistra, immediatamente, lo squillo è diventato fanfara. Allo Steri di Palermo si raccoglie un pezzo della cosiddetta intellighenzia siciliana: oltre all’autore del saggio sponsorizzato da Giuliano Ferrara, sul tavolo dei relatori c’è l’ex pm di Palermo Giuseppe Di Lello, componente dello “storico” pool antimafia di Giovanni Falcone, il segretario del Circolo socialista Alessio Campione (ex aderente alla sinistra del Psi di Lombardi e Signorile) e, nei panni del “portatore di dissenso” (ma non troppo) il giovane ordinario di diritto privato Luca Nivarra, che si professa orgogliosamente “comunista” e “marxista”. In platea, un occhiuto melting pot di accademici, studiosi, pezzi del fu Psi, metastasi del fu Pci, giornalisti, ex miglioristi migrati in fondazioni, ex socialisti riciclati in associazioni, circoli ed ex ideologi di professione ormai disoccupati. Risultato? In un festival di dotte citazioni filosofico-giuridiche, tra scrosci di applausi e urla di approvazione, il parterre dello Steri in tre ore fa a pezzi il processo di Palermo. Macaluso non perde occasione per attaccare i pm: “La questione è nel protagonismo: un processo a Mori pone chi lo affronta in una certa posizione particolare, quella di magistrato integerrimo. E una parte dei media concorre alla promozione di un eroe che osa sfidare i poteri. Penso che Mori è vittima di questa questione”. Persino Di Lello, ex senatore di Rc, icona della sinistra colta, fa sfoggio di scetticismo: “Quale sarebbe il filo che tiene insieme stragi e trattativa, il 41 bis, stabilizzato dopo pochi mesi dalla sua sospensione per i detenuti minori? Sarebbero Conso e Mancino i terminali della trattativa?”. E giù applausi.

Perchè questa voglia di dire addio, e per sempre, alla stagione del rigore antimafia, tacciato di “giustizialismo”, proprio mentre nell’aula bunker lo Stato tenta di processare se stesso? Si può parlare di un “laboratorio Palermo” dove l’accademia costruisce un alibi giuridico alla guerra (tutta politica) contro i pm di Palermo? E si può ipotizzare che Macaluso, che trascorre le vacanze con il capo dello Stato, sia il motore di questa operazione che passa per i media? E l’ambizioso Fiandacacosa c’entra? E l’insospettabile Di Lello?

Macaluso come D’Ambrosio e Mancino

Domande retoriche, ovviamente. Macaluso giura e spergiura che il suo garantismo è genuino e che le sue critiche alla procura di Palermo non hanno nulla a che vedere con Napolitano e con lo scontro presidenziale con i pm della trattativa. Anche se, sfogliando gli archivi, si scopre che il “ventriloquo” del Quirinale sostiene le stesse cose del trio Napolitano-Mancino-D’Ambrosio, proprio nei giorni delle telefonate top secret dell’ex ministro dell’Interno al centralino del Colle. Le date parlano chiaro: il 25 febbraio, il 5 marzo e il 7 marzo 2012, Mancino chiama D’Ambrosio. Si cerca il modo di “scippare” l’indagine ai pm di Palermo con la scusa di affidarne il coordinamento al Procuratore nazionale antimafia. D’Ambrosio: “Intervenire su Grasso”, con cui Mancino vorrebbe un incontro “in maniera riservatissima, che nessuno sappia niente”. D’Ambrosio: “Lo vedo domani”. L’8 marzo, mentre il Quirinale ipotizza questa exit strategy per Mancino, Macaluso sul defunto Riformista critica il “processo a Palermo che vede imputati il generale Mori e il colonnello De Donno” (ma gli imputati sono Mori e Obinu) e suggerisce: “Con l’aiuto della Procura nazionale antimafia occorre arrivare rapidamente a una conclusione”. Lo stesso giorno, dichiara al Corriere: “C’è una guerriglia tra poteri dello Stato, apparati investigativi e pezzi di magistratura. Guerriglia che continua e che fa delle vittime tra le quali non ho alcuna difficoltà a inserire Mori. La procura nazionale antimafia, guidata da un magistrato di valore come Grasso, dovrebbe prendere in mano questa situazione. Qui si chiamano in causa Scalfaro, Amato, Martelli, Mancino e ora anche Mannino, mentre a Palermo sono sotto processo Mori e De Donno (sono sempre Mori e Obinu)… Ci vorrebbe un punto di chiarezza e solo la procura nazionale può farlo”. Non pago di tanto zelo, il 15 marzo Macaluso si fa intervistare pure dalla rivistina ciellina Tempi: “Non è possibile che un paese viva chiedendosi per anni se c’è stata o no una trattativa, se Borsellino è morto per questo o no… Chiederei che si mettesse un punto. La procura nazionale antimafia, che ha tutti gli strumenti necessari per approfondire, perché non interviene per fare un po’ di chiarezza?… Mancino ha ribadito… che lui non sapeva nulla su una trattativa…”. Sono più o meno le stesse parole che D’Ambrosio, per conto di Napolitano, spendeva al telefono con Mancino, cercando di rassicurarlo. Solo un caso?

Ma questo è solo il prologo. Il successo del pamphlet negli ambienti della sinistra che conta ha gonfiato le vele di Fiandaca che, nella primavera di quest’anno, ci riprova. E pubblica, per i tipi di Laterza, un volume scritto a quattro mani con lo storico Salvatore Lupo, dal titolo: “La mafia non ha vinto”. È la conferma, stavolta arricchita da una prospettiva storica, della sua critica radicale al processo sulla trattativa Stato-mafia. Anche stavolta la presentazione a Palermo viene allestita a Palazzo Steri: a organizzarla è l’ex dirigente del Pci Vito Lo Monaco, presidente del centro Pio La Torre e parte civile nel processo sulla trattativa. Fiandaca ha ormai acquisito i toni del predicatore che non tollera dissensi. A Lo Monaco che, dopo aver auspicato un “dibattito sereno”, aveva osato: “Il libro ha grandi pregi, ma io credo che la discussione non possa partire soltanto dalla memoria dei pm, una quindicina di pagine in tutto, quando il processo è composto da decine di faldoni e migliaia di pagine”, il giurista replica furioso davanti a una sala attonita: “Lo Monaco, ma che obiezione è? Che senso ha? Non c’è bisogno di leggere migliaia di pagine di tanti faldoni, perchè nei faldoni ci sono tantissimi particolari e fatterelli che non assumono alcun rilievo ai fini della trattazione critica dei nodi di fondo posti dal processo sulla trattativa”. Poi si scaglia apertamente contro chi lo definisce un “giustificazionista”: “Siamo davanti a termini di tipo stalinista e fascista, perchè servono solo a screditare l’avversario”. Così predicando, il professore salta di presentazione in presentazione, vestendo ormai i panni dell’arguto polemista. Si avvicinano, intanto, le elezioni Europee.

Il crollo di un tabù

All’inizio di aprile, Macaluso torna a Palermo per festeggiare i suoi 90 anni e Massimo Accolla, ex giovane dell’area migliorista, raccoglie alla Gam (Galleria d’arte moderna) un plotone di vecchi amici ed esponenti della sinistra siciliana per rendere omaggio al grande vecchio della destra Pci. Anche stavolta il pubblico è d’eccezione: da Luigi Colajanni, europarlamentare all’inizio degli anni ’90, all’ex leader di Rc Francesco Forgione, presidente della fondazione Federico II, dal cuperliano Antonello Cracolici al deputato regionale Fabrizio Ferrandelli, dall’ex governatore della Regione Angelo Capodicasa al renziano Davide Faraone, dal sindacalista della Cgil Italo Tripi, fino al segretario dei democratici siciliani, Fausto Raciti. Non è una corrente, né un’area politica. Non è uno scampolo dell’ala migliorista del Pci. Non si può neppure definire una sorta di “cerchio magico” che fa capo a Napolitano, anche se al centro della corte brilla lo zio Nenè, il pupillo dell’inquilino del Colle. Che sia allora lo zoccolo duro del nuovo garantismo “rosso”? Anime e pezzi di quella sinistra che un tempo, nella Sicilia delle stragi e dei depistaggi, faceva dell’antimafia giudiziaria una bandiera di rigore e di giustizia. E oggi non nasconde più il fastidio per quello che Macaluso definisce con disprezzo il “populismo giudiziario”, l’ossessione delle manette. C’è la torta, lo spumante, ci sono le candeline. Baci, applausi, letture. Si celebra un compleanno, una stagione che fu, una generazione di ricordi; per una fetta della sinistra è il trionfo postumo di un’idea di riformismo garantista che finalmente ha l’avallo della massima carica istituzionale.

Ma c’è qualcosa di nuovo oggi nell’aria. Si fa vivo, alla festa, l’immancabile Fiandaca, l’ex maestro di Ingroia che ormai nei salotti di Palermo si atteggia ad anti-Ingroia. Di questo neo-garantismo di sinistra è un improvvisato ma utile cantore: a Roma c’è chi se n’è accorto da tempo. Pochi giorni dopo aver fatto gli auguri al “ventriloquo” di Napolitano, attorno alla torta confezionata a Palermo, Fiandaca viene promosso da Renzi in persona al ruolo di candidato del Pd alle Europee per la Sicilia. Ed è a questo punto che l’Unità saluta, con fervore, la fine di un tabù: “È molto più di una candidatura – scrive Claudia Fusani il 15 aprile – È la fine di un tabù lungo vent’anni. Un tabù che purtroppo ha pesato tantissimo nei rapporti tra politica e magistratura e in parte responsabile di certi innegabili ritardi nella riforma della giustizia. La candidatura del professor Fiandaca, uno dei massimi esperti in Italia di diritto penale, nella circoscrizione Isole alle Europee nelle liste del Pd ha un significato che va molto al di là del prestigio e del peso del nome. Fiandaca, infatti, ha avuto il coraggio, e il merito di criticare l’impostazione del processo sulla trattativa tra Stato e mafia in corso a Palermo’’.

Coraggioso Fiandaca. Che però rastrella solo 76 mila voti e alle elezioni del 24 e 25 maggio viene solennemente trombato, incarnando l’ennesimo flop isolano dei democratici che piazzano invece a Strasburgo Caterina Chinnici, magistrato e figlia di magistrato (suo padre, Rocco Chinnici, è il consigliere istruttore di Palermo che fu massacrato dalla mafia con un’autobomba nell’83), capace di tesaurizzare un bottino di 133 mila voti. C’è tra gli elettori Pd la voglia di premiare ancora una volta un simbolo dell’antimafia? È uno schiaffo agli anatemi anti-pm del giurista che sbeffeggia la trattativa Stato-mafia? Contestato dai suoi studenti, snobbato dai siciliani, il professor Fiandacatorna a fare l’anti-Ingroia nel chiuso della sua aula universitaria e sparisce di scena. Come da copione, il Pd glissa sulla figuraccia inflitta all’accademico polemista.

La riforma della giustizia

Ma oggi il fantasma “fiandachiano” di un sinistra iconoclasta che divora i propri eroi antimafia aleggia nell’aula bunker e incombe sul processo della Trattativa. Uscendo dalle pagine del libro del giurista, il garantismo di sinistra è diventato ormai un indirizzo istituzionale che va da Renzi (suo l’imprimatur alla candidatura di Fiandaca) al ministro della Giustizia Andrea Orlando (migliorista in età giovanile, ha sponsorizzato anche lui il giurista palermitano), che trova concorde il presidente del Senato Pietro Grasso (“Quelli lì, avrebbe detto a Mancino riferendosi ai pm di Palermo, “danno solo fastidio”) e il candidato alla Consulta Luciano Violante (“originale” per lui l’idea di citare il capo dello Stato come testimone al processo sulla trattativa).

Ora, dopo la conferma della convocazione di Napolitano davanti alla Corte d’assise di Palermo, la nuova linea di Fiandaca e Macaluso è pronta a farsi agenda politica. La guerra con le toghe è a 360 gradi. E Re Giorgio ha già annunciato l’imminente riforma della giustizia. La novità? Manco a dirlo, sta nella svolta di Renzi: il Pd non più come partito fiancheggiatore di giudici e Procure, ma “partito che laicamente affronta il tema della giustizia” declinandola sotto il segno del garantismo. “Noi siamo garantisti sul serio – promette il premier – alla magistratura chiediamo di rispettare ogni norma a tutela dell’imputato”.