Vai al contenuto

Giulio Cavalli

A Corleone il nuovo boss lavora per il Comune

063722203-9fb7a2c8-ce15-4ef9-acd1-35e4e41c1d56

Totò Riina, il capo di Cosa nostra rinchiuso al 41 bis, poteva contare ancora su un gruppo di fedelissimi nella sua Corleone. Il più autorevole era l’insospettabile custode del campo sportivo, Antonino Di Marco, 58 anni: il suo ufficio di dipendente comunale era diventato un covo perfetto per i summit. Lì si discuteva di appalti, estorsioni e campagne elettorali. E nessuno sospettava che quella stanza fosse intercettata 24 ore su 24 da telecamere e microspie piazzate di nascosto dai carabinieri della Compagnia di Corleone. Così, per mesi, i fedelissimi di Riina sono finiti dentro un “grande fratello” che ha svelato molti dei loro segreti. E all’alba sei persone sono state arrestate sulla base di un provvedimento di fermo emesso dai pm della Direzione distrettuale antimafia di Palermo Sergio Demontis, Caterina Malagoli e dal procuratore reggente Leonardo Agueci.

Di Marco portava spesso al suo clan i saluti di Salvuccio Riina, il terzogenito del capo di Cosa nostra che adesso vive a Padova dopo aver finito di scontare una condanna. E impartiva lezioni di mafia: “Noi siamo una famiglia – ripeteva – C’è bisogno di serietà, educazione e rispetto”. Raccontava di quando, giovanissimo, aveva ricevuto un sonoro schiaffone da Bernardo Provenzano, per una parola fuori posto pronunciata durante un pranzo importante. “Mi ha insegnato che bisogna avere le braccia aperte a tutti”, così il dipendente comunale boss spiegava a chi voleva escludere in modo drastico dal clan alcuni mafiosi ritenuti non in linea con la maggioranza. Di Marco era davvero un fedelissimo di Riina: suo fratello Vincenzo aveva fatto da autista alla moglie del capo di Cosa nostra, Ninetta Bagarella, era stato ripreso con lei dalle telecamere del Ros pochi giorni prima del blitz del 15 gennaio 1993. “Noi dobbiamo essere con la gente, con chiunque”, predicava ancora Di Marco. E’ quasi uno slogan per la nuova Cosa nostra, disposta a mettere da parte vecchie regole e abitudini pur di tornare ad essere dentro la società e i palazzi che contano. Così, Di Marco aveva anche accettato che la figlia si fidanzasse con un sottufficiale dei carabinieri. Era più importante essere un insospettabile. Così, diceva il braccio destro del nuovo boss di Corleone: “La gente deve avere il dubbio, mai la certezza di chi comandi”.

Le intercettazioni dei carabinieri hanno svelato che l’ultimo ambasciatore di Totò Riina a Corleone aveva costituito una sorta di personalissimo feudo nel vicino comune di Palazzo Adriano. Faceva da supervisore al clan locale, perché in quel territorio Cosa nostra gestiva affari importanti. Appalti soprattutto, grazie alla complicità di funzionari collusi. Le microspie hanno fatto emergere anche il particolare attivismo dell’organizzazione mafiosa per l’elezione dell’attuale sindaco di Palazzo Adriano, Carmelo Cuccia. Di Marco è stato pedinato dagli investigatori mentre andava a Palermo per incontrare il primo cittadino. In auto, preparava il discorso: “Come in periodo di elezioni, come che sei sindaco, come che tu hai bisogno di qualunque cosa, però io ho bisogno pure di te”.

La procura distrettuale antimafia sostiene che il gruppo legato a Di Marco si sarebbe mosso anche per la campagna elettorale di un esponente dell’Udc, Nino Dina, attuale presidente della commissione Bilancio dell’Assemblea regionale siciliana. Un altro pedinamento ha ripreso Di Marco mentre entra nella segreteria politica del deputato, a Palermo.

L’insospettabile custode del campo sportivo di Corleone si atteggiava a grande tessitore di relazioni. Il suo ultimo affare è stato davvero una sorpresa per gli investigatori: il clan di Corleone gestiva alcuni terreni della Curia di Monreale, in contrada Tagliavia. Le intercettazioni dicono che era stato addirittura Salvatore Riina a concedere questo privilegio ai Di Marco, come ricompensa per i servizi resi.

“Siamo intervenuti registrando diverse pressioni sugli imprenditori locali – dice il tenente colonnello Pierluigi Solazzo, comandante del Gruppo Monreale – adesso ci auguriamo che gli operatori economici vessati possano collaborare, per ricostruire pienamente quanto accaduto”.

Con Di Marco sono stati arrestati Pietro Paolo Masaracchia (ritenuto il capomafia di Palazzo Adriano), Nicola Parrino, Franco e Pasqualino D’Ugo.

(fonte)

Fenomenologia di una calabrizzazione

Prendetevi qualche minuto per guardare la prima parte di questo documentario dalla webtv Cortocircuito, parte del loro ultimo documentario “La ‘ndrangheta di casa nostra. Radici in terra emiliana“. I razzi intervistano il sindaco di Brescello Marcello Coffrini (PD);

Il primo cittadino parla della realtà locale negando che ci siano “mai state denunce per estorsione o ricettazione”. E poi descrive come “una persona educata e composta” Francesco Grande Aracri, boss condannato in via definitiva per mafia nel 2008, soggetto a regime di sorveglianza speciale e considerato il punto di riferimento dell’ndrangheta in Emilia. La troupe di giovani studenti e giornalisti si fa accompagnare da Coffrini sui terreni sequestrati alla famiglia (beni per 3 milioni di euro). Subito vengono raggiunti da un furgoncino che chiede spiegazioni e poi dallo stesso Aracri. Il sindaco si apparta con il boss per spiegare la situazione e tornato in macchina spiega: “E’ lui Francesco Grande Aracri. E’ gentilissimo, molto tranquillo. Parlando con lui si ha la sensazione di tutto tranne che sia quello che dicono che sia. Lui è uno molto composto ed educato che ha sempre vissuto a basso livello. La famiglia qui ha un’azienda che adesso è riuscita a ripartire: fanno i marmi. Mi fa piacere che siano ripartiti”.

(via)

Lo scalpo 18

Se volete stiamo qui a parlare tutto il giorno, come nei talk show, del contenuto dell’articolo 18: quante aziende vi sono sottoposte, quanti lavoratori, quanto ancora ne è rimasto effettivo dopo la riforma Fornero, quindi quanto incide sull’occupazione e sulle assunzioni, eccetera eccetera.

Credo però che anche il più svampito tra gli italiani abbia compreso che non è dell’articolo 18, come contenuti ed effetti, che si sta parlando: ma semplicemente di uno scalpo, dal fortissimo valore simbolico.

Gilioli qui.

Lodigiani di cui andare fieri: Massimo Guarischi

I pm di Milano Claudio Gittardi e Antonio D’Alessio hanno chiesto la condanna a tre anni e otto mesi per l’ex consigliere regionale del Pdl Massimo Gianluca Guarischi, accusato di corruzione aggravata nell’ambito di un presunto giro di tangenti nella sanità lombarda. Per i pm alla luce dei suoi precedenti penali Guarischi non merita le attenuanti generiche.

È questa la conclusione della requisitoria dei pm nel processo a carico dell’ex consigliere lombardo Massimo Gianluca Guarischi imputato per un presunto giro di tangenti nella sanità. Arrestato nel marzo del 2013 con le accuse di corruzione e turbativa d’asta, sarebbe stato, secondo l’accusa, una sorta di «grimaldello» per sbloccare finanziamenti regionali per forniture in campo sanitario in cambio di tangenti, versate dagli imprenditori della famiglia Lo Presti e da girare a pubblici ufficiali della Regione Lombardia, quando era guidata da Roberto Formigoni.

Secondo i pm Guarischi aveva «un rapporto privilegiato con Formigoni che ha determinato esborsi da parte sua per una struttura di piacere organizzato» a favore dell’ex presidente regionale. «La regola per 10-15 anni nella gestione della sanità lombarda è stata che non si potevano concludere contratti per servizi di fornitura se non vi era la disponibilità delle imprese a versare denaro con la presenza di intermediari legati a referenti politici», la denuncia formulata dal pm di Milano Claudio Gittardi.

(fonte)

Il “protocollo farfalla” e l’inchiesta che sembrava una fantasia

Ne aveva parlato Sonia Alfano eppure tutti avevano fatto finta di non sentire. Qui se non fai antimafia che rassicuri finisci fuori dalle baronie antimafiose, del resto.

E adesso invece sul “protocollo farfalla” è stata addirittura aperta un’inchiesta:

Sembrava quasi una leggenda. Adesso, invece, il protocollo “farfalla” non è più un segreto. A indagare è la Procura di Palermo. I magistrati del capoluogo siciliano hanno rinvenuto il documento in cui sono contenuti i termini di un accordo tra il Sisde e il Dap(Dipartimento per gli affari penitenziari), siglato nel 2004, e attraverso il quale i servizi di sicurezza potevano “operare” in segreto all’interno delle carceri, senza alcun tipo di autorizzazione formale.

I pm hanno acquisito il fascicolo e stanno facendo luce sull’accordo top secret. La scoperta è stata fatta a Roma. Insomma, roba di dieci anni fa che viene a galla oggi. I magistrati che stanno indagando, sono già impegnati in un altro filone, quello riguardante la trattativa Stato-mafia.

L’esistenza di questo documento è stata per anni taciuta e negata, proprio alimentando il suo “fascino”, fino a farla diventare quasi una leggenda. A negare, per due lustri, erano stati i vertici del Dipartimento. Al centro dell’inchiesta sono finite anche le intercettazioni in carcere del boss Totò Riina insieme al compagno dell’ora d’aria, ovvero il detenuto pugliese Alberto Lorusso. L’inchiesta è condotta dai magistrati Roberto Tartaglia, Nino Di Matteo e Francesco Del Bene, prende il via dopo le ammissioni del pentito Sergio Flamia, che ha raccontato dei suoi contatti con gli 007 quando era detenuto a Palermo.

Il protocollo “farfalla” prevederebbe la gestione da parte del servizio segreto di “contatti” e “relazioni” non registrate con i detenuti al regime del 41 bis, il carcere duro per mafiosi e terroristi.

Ma pensa.