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Giulio Cavalli

Un regalo per Salvini

Erasmo ha offerto un regalo a Salvini: la prima pagina della ”Domenica del Corriere” del 1906 dedicata al naufragio della nave Sirio in cui persero la vita centinaia di migranti Italiani in viaggio verso l’America.

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La minoranza dei giovani

I giovani. Ne hanno parlato tutti, ricordate durante le primarie e mentre cresceva l’astro di Matteo Renzi? Giovani dappertutto, pareva di essere nell’ultima scena di un’apocalisse generazionale in cui il merito e la freschezza avrebbero vinto su tutto. Se c’è stato un politico che ha parlato di giovani è l’attuale Presidente del Consiglio. Eppure i giovani, in Italia, sono una minoranza rumorosa che le statistiche continuano a vedere in numerico declino, generazioni contate in termini di produttività e di previdenza prevista o che farciscono gli allarmi occupazionali. Sui giovani oggi scrive bene Michela Murgia che ci invita a pensarci tornando un po’ più umani, come piace a noi:

Un paese incapace di mettere in relazione la scuola propria delle istituzioni con la scuola impropria dei saperi e dei valori sociali può sviluppare al massimo le reti del familismo amorale, quello dove le risorse e le regole sono messe a servizio dei miei figli, privilegiati senza merito di cui non a caso sono pieni i luoghi di comando d’Italia, a qualunque livello.

Gli incubatori d’impresa sono importanti e se ne parla tanto e giustamente, ma non ci bastano: non esistono solo le imprese. Prima delle imprese ci sono le persone, che vanno messe in grado di progettarsi. Prima dello start up, c’è il live-up. Ci occorrono incubatori di cuori, di anime, di speranze, di coraggio, luoghi in cui possano essere trasmessi quei saperi non produttivi che fanno di noi persone libere, cittadini responsabili e consapevoli. La sfida dei vecchi di oggi è trovare modi liberi per mettersi a servizio degli adulti di domani.

Il pezzo è qui.

Due parole su don Memè

Sull’inchino della madonna a Oppido Mamertina si continua a parlare troppo poco di quella sfacciata e desolante figura che è il parroco, Don Memè. Un articolo di Paolo Pollicchieni chiarisce il punto:

donmemèNoi non ci crediamo e soprattutto non crediamo alla sorpresa di monsignor Milito. Sa bene, il vescovo di Oppido, che in quella diocesi già altri e più gravi segnali si erano colti grazie all’operato di “don Memè”, storico parroco di Rosarno che non ha esitato a deporre in un tribunale della Repubblica in difesa di quei boss mafiosi che Papa Francesco ha inteso, invece, scomunicare.
Quando il caso scoppiò, monsignor Milito fece visita a don Memè e gli diede solidarietà. Davanti ai giudici, nel luglio dello scorso anno, il prete si era accomodato per dire: «Penso che Rosarno sia stato messo in una cattiva luce, non so da chi (…), è stato chiusa la sede scout per mafia, e siamo stati… siamo passati per razzisti, per cattivi contro i negri, c’è stata una serie di cose che hanno buttato fango su Rosarno e sui rosarnesi, e molti stanno pagando innocentemente penso».
Tra gli “innocenti” sotto processo don Memè colloca: «Francesco Pesce un mio amico, Domenico Varrà un gran gentiluomo e Franco Rao una brava persona». Tanto da indurre il presidente del Tribunale a chiedere: «Ma Rosarno quindi è un’isola felice ci sta facendo capire, don Ascone?».
Certo che è un’isola felice per don Memè che lì è parroco da ben trent’anni e in questi trent’anni ha visto piovere morti e dilagare corruzione. E che la Rosarno di don Memè sia un’ “isola felice” lo dimostra la devozione della famiglia Pesce che si è fatta carico di climatizzare la chiesa, probabilmente l’unica casa del Signore dove si può pregare senza sudare, grazie ai potenti condizionatori installati dagli “amici” della famiglia Pesce e della famiglia Rao.
È l’uomo che conosce la gratitudine il parroco di Rosarno, così dieci mesi dopo la sua deposizione in favore dei boss, torna a indignarsi per difendere i bravi ragazzi rosarnesi dal fango mediatico. Nel marzo scorso, infatti, la trasmissione televisiva “Le Iene” si occupa di Rosarno, dei Pesce, del porto di Gioia Tauro e della cocaina che vi transita. In questo contesto chiede il parere di don Memè. Eccolo: «Rosarno non è un paese mafioso (…) È tutto falso che il sindaco sia stato minacciato con una lettera arrivata dal carcere (…) Quello che mi tocca dire purtroppo è che quando ci sono dei sindaci di sinistra sono protetti dai giudici; quando ci sono sindaci di centrodestra non sono protetti dai giudici, anzi…».
Insomma colpa dei giornalisti e dei giudici, comunisti entrambi. Poco importa se nel frattempo l’amico Rocco Pesce incassa una condanna ad altri cinque anni per una lettera di minacce spedita dal carcere al sindaco Elisabetta Tripodi su carta intestata del Comune. Ma il meglio don Memè lo deve ancora dare, ed infatti davanti alle telecamere aggiunge: «Tanta gente a Rosarno si appoggia alla mafia per necessità. Io non ce l’ho con la mafia che purtroppo dà lavoro, ce l’ho con lo Stato che il lavoro non lo dà». Infine, riferendosi a don Ciotti, che ricordiamo è l’ispiratore e fondatore dell’associazione Libera che nella Piana di Rosarno è molto presente e si occupa di far lavorare giovani disoccupati nei terreni sequestrati ai mafiosi, don Memè afferma: «Non è un parroco, lavoro non ne ha, ha voluto prendere questa bandiera lotta alla mafia e questo lavoro. Per combattere la mafia basta essere preti, non delle guardie della polizia, questa è propaganda».
Non ci pare che questo argomentare sia in linea con l’insegnamento di Papa Francesco. Monsignor Milito però fin qui non ha battuto ciglio, probabilmente avrebbe potuto continuare a farlo anche dopo l’omaggio dei portatori della Madonna al boss Mazzagatti.
Solo che nel frattempo in quel di Cassano…

P.S. Per completezza di cronaca, va detto che don Memè con la sua testimonianza non ha portato grande giovamento agli “amici”: Francesco Pesce è stato condannato a 12 anni di reclusione; Franco Rao a 16 anni e altri 16 anni e quattro mesi sono stati inflitti a Domenico Varrà. Eppure in quel processo (“All Inside”) ben 21 imputati sono stati assolti, insomma questi giudici «comunisti»…

Gli ho messo io l’anello alla Madonna

Attenzione a credere che la ‘ndrangheta sia solo “colletti bianchi”, attenzione ad illuderci che l’istituzionalizzazione delle cosche calabresi in fondo ci renda tutti meno colpevoli perché abbiamo a che fare con “alte sfere” irraggiungibili. Oggi la ‘ndrangheta (e la perversione religiosa per condonarsi dai propri crimini) è anche quella che sta nelle parole di Simone Pepe, ‘ndranghetista di terza generazione dall’accento ormai romanissimo.

La religione è portatrice di un rito da ripetere a memoria riadattato all’affiliazione, la madonna è il vibratore della propria prepotenza da esibire. Vale la pena ascoltare questa intercettazione per rendersi conto (per l’ennesima volta, ma serve eccome) come l’ignoranza, la banalità e la tragicomica etica degli uomini d’onore ci rendano, in fondo, ancora più colpevoli quando decidiamo di non interessarsi, di non sapere o peggio di accettare:

EXPO in fretta e furia. Anche le leggi.

Quel pasticciaccio brutto di EXPO 2015 sta mettendo in moto tutti i peggiori meccanismi dell’opera a tutti costi, costi quel che costi. Un’accozzaglia di interventi disorganizzati e disomogenei per tranquillizzare l’emergenza mentre tutti quelli che sono chiamati a lavorarci dipingono un quadro sempre più desolante. Ora tocca a Raffaele Cantone:

A leggere il documento di dieci pagine firmate dal magistrato non stupisce la velocità d’azione, invocata urbi et orbi soprattutto dopo l’altro grande scandalo quello del Mose, ma le critiche di poca chiarezza che emergono nei confronti degli articoli del decreto legge 90/2014 che riguardano proprio i poteri del presidente dell’Anac. Nel mirino del magistrato, che oltre a dare la caccia ai clan dei Casalesi è stato per un lungo periodo all’Ufficio del Massimario della Cassazione, l’articolo 32. Cantone trova che la descrizione del fumus bonus iuris (ovvero la presunzione dell’esistenza di presupposti sufficienti per applicare un istituto giuridico) sia oscura: “il legislatore, non sempre utilizzando una terminologia chiarissima e lasciando, quindi, adito a qualche dubbio ermeneutico, sembrerebbe distingue un duplice momento che pur avendo idealmente autonomia potrebbe, però, non averla dal punto di vista squisitamente temporale”.Quando matura questo pressupposto? Cantone, dopo un ragionamento, conclude da sé che basterà un’ordinanza di custodia cautelare o un decreto che dispone il giudizio. 

FOIA: da metterci la firma

Schermata 2014-07-10 alle 18.33.20Avere accesso alle informazioni raccolte dallo Stato – in nome dei cittadini e con risorse dei cittadini – non è un’esigenza solo di giornalisti, lobbisti ed esperti.

È un diritto universale, che è alle fondamenta  della nostra libertà di espressione perché è il presupposto di una piena partecipazione come cittadini alla vita democratica.

Il diritto di accesso all’informazione è regolato da norme conosciute internazionalmente come “Freedom of Information Acts” (FOIA). In base ad esse la pubblica amministrazione ha obblighi di informazione, pubblicazione e trasparenza e i cittadini hanno diritto a chiedere ogni tipo di informazione prodotta e posseduta dalle amministrazioni che non contrastino con la sicurezza nazionale o la privacy.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha riconosciuto l’accesso alle informazioni detenute dai governi come diritto: oggi più di 90 Paesi democratici hanno un FOIA.

L’Italia non è ancora tra questi.

Trovate tutto qui.

 

Il tempo nella gestione del potere

Una riflessione di Cristiana Alicata:

In generale però ribadisco quello che penso da sempre: il numero di mandati deve essere limitato. Non riguarda Errani, o altri, il tempo della “gestione del potere” riguarda tutti noi. E i veri leader sanno “far crescere” altri leader, sanno essere generosi, sanno “allevare”. Se non “tramandiamo” le buone pratiche falliremo sempre. Renderemo tutto dipendente dalla nostra indispensabile presenza e non da processi che diventano bene comune. Questo vale nella gestione pubblica come in quella privata. Sempre. Senza alcuna eccezione, mai.

Padri e Padrini

Il podcast della puntata di Fahrenheit di cui sono stato ospite:

In Calabria son state commissariate alcune processioni -ed è proprio di ieri la notizia dell’omaggio ad un boss durante una di queste-, preti accusati di favorire i clan, e di contro le scomuniche del Papa nei confronti dei mafiosi. Come si intrecciano e quali sono i rapporti fra criminità organizzata e chiesa nel nostro paese?