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Giulio Cavalli

Soldi a forme di case

Ormai sono anni che parlo di ambienti sfigurati da soldi che hanno bisogno di assumere una forma qualsiasi, l’importante è che non abbiano la forma e l’odore dei soldi.
Bene, i soldi a forma di case trovano uno degli esempi (e degli scempi) peggiori nel piccolo comune di San Giovanni in Marignano:

La costruzione di centinaia di nuovi appartamenti è quello che i cittadini di San Giovanni in Marignano, piccola città nella provincia di Rimini, potrebbero vedere approvare oggi (18 agosto) dal loro consiglio comunale. Un piano particolareggiato, il cosiddetto “Compartone”, che prevede su una superficie territoriale complessiva di quasi 120 mila metri quadrati, la realizzazione di 333 unità immobiliari fra alloggi privati ed edilizia residenziale pubblica, suddivisi in fabbricati di diversa tipologia. Un progetto da capogiro, per di più da realizzare nel pieno centro urbano dove ci sono già numerose case sfitte o invendute, per una cittadina che conta appena 9mila abitanti.

Temete i fragili perché siete codardi

Dunque Robin Williams si è suicidato perché depresso ed era depresso perché non aveva niente a cui pensare perché ricco. Funziona così: è ‘casta’ qualsiasi cosa possa meritare invidia in una società costruita sulla bile. E intanto siamo un posto (niente di più, davvero, è la parola più dignitosa da spendere, postoincapace di cogliere la depressione come malattia. Sei depresso? è un tuo vizio, niente di più. Anzi, beato te che hai il tempo per deprimerti come se la depressione fossero avanzi che sbrodolano per forza dal superfluo. Eppure, udite udite, sono stato depresso anch’io. Mica poco. O almeno abbastanza da temere di esserlo ancora, come tutti i depressi di questo mondo. Niente di scritturabile come sceneggiatura di successo a puntate on demand ma so bene che odore ha questa stanchezza piena di sensi di colpa subito alla prima mattina o questa poca voglia di parlare con chiunque non sia lontano poco più di un metro dal proprio letto. Ho pensato alle cose peggiori, quelle che farebbero così comodo ad alcuni mafiosi, alcuni antimafiosi e i loro padrini politici e ho perso importanti occasioni della vita. Ho perso delle elezioni. Le ultime, quelle del dopo Formigoni, schiacciato tra l’elettricità di una sfera personale in piena ebollizione e un mondo politico lombardo che inseguiva il marchio pulito per nascondere la merda bipartisan. Ho perso amici, una caterva, quintali di persone vicine a cui non sono riuscito nemmeno a dire un grazie, un aspettami che poi ritorno oppure semplicemente una richiesta di aiuto.  Ho avuto il corpo e la bocca fermi mentre nel cervello passavano tutte le cose che avrei dovuto fare o dire almeno per essere educato (per chi, poi?) mentre guardavo scivolare via un aperitivo od una riunione come se fosse un brutto film in seconda serata, da spettatore passivo. Ho nascosto la malattia per la paura di sembrare un debole mentre nascondevo il marcire nelle mie debolezze. Ho urlato senza senso e poi mi sono frollato nei miei sensi di colpa, e poi ancora mi sono ucciso per il mio senso di soddisfazione nel sentirmi in colpa e poi ancora mi sono sentito in colpa per il mio stupido modo di sentirmi in colpa. Ho visto nero, dappertutto, contando le briciole degli altri per difendermi dai miei buchi che sanguinavano in giro. Sono stato depresso, insomma, depresso tutto per bene con la malattia nascosta a tutti come fanno i depressi che si convincono di farcela da soli almeno per non doverlo raccontare a nessuno.

E allora?

E allora ho pensato che non sopporto un posto (appunto) ed un momento in cui temete i fragili perché siete codardi. Perché temete di non avere energie anche per loro come se ci fosse una competizione tra malati e sani. Ho pensato che una malattia non curata per ignoranza piuttosto che per incuria è una malattia che pesa come l’onta di un peccato mortale. Mi sono detto che non avrei perdonato la superficialità con cui si affibbia a qualcuno una depressione per vizio e l’avrei combattuta tutte le volte. Con la fierezza di essere fragile. Anzi: di essere stato fragile sapendo che lo potrei essere di nuovo ogni altro momento della mia vita. E rivendico il diritto di essere debole. A tratti. Perché per qualcuno il riposo è la cura di una malattia e voglio un paese che mi accudisca. Sì. Prendendosi cura delle fragilità come un bene prezioso.

artisti minuscoli: Gabry Ponte

La gente è superba soltanto quando ha qualcosa da perdere, e umile quando ha qualcosa da guadagnare.
Henry James, L’americano, 1877


Da leggere anche le considerazioni giuridiche di Guido Scorza qui.

I sopravvissuti dal suicidio

Tra le banalità di questi giorni c’è luce nelle parole di Katie Hurley:

Confrontati con chi è sopravvissuto a un suicidio. Fai pratica nell’usare le parole “suicidio” e “depressione” così che scivolino naturalmente sulla lingua così come le parole “unicorno” e “gomma da masticare”. Ascolta le loro storie. Stringi loro le mani. Sii gentile con il loro cuore. E abbracciali ogni singola volta. Incoraggia l’aiuto. Impara di più sulle strutture nella tua zona così da poter aiutare gli amici e i tuoi cari che ne hanno bisogno. Non avere paura a presentarti da loro ancora e ancora. Non avere paura a trasmettere la tua preoccupazione. Una connessione umana può fare la differenza nella vita di qualcuno che si batte contro la malattia mentale e/o contro il senso di colpa del superstite.

Io me lo ricordo bene. Una mia storia.

Me lo ricordo talmente bene che potrei mettermi con una matita a disegnare tutti i dettagli se solo sapessi disegnare. Dico il giorno che avevo avuto la sensazione di avere il dovere di farcela. Ero giovanissimo egocentrico ma con il dosaggio contenibile dei ragazzi e mi ero detto che sarebbe stato bellissimo raccontare storie di professione, scritte e orali come all’esame di maturità, sul palco o sul foglio immaginando già che sarei finito a rovesciare fogli sul palco e palchi sul mio foglio. Il luogo davvero non era un granché originale visto che stavamo in fondo al corso dove tutti i ragazzini della città si strisciavano sperando di impigliarsi in qualche femmina: Corso Roma, come tutti i corsi Roma di tutte le città che mi è capitato di girare in Italia, tutti i corsi Roma come se tutte le città fossero finite ad essere qualcos’altro tentando di essere Roma. Io mi ricordo bene il sapore di quella speranza lì, che era una sfida certo ma aveva anche il corrimano delle possibilità, che insomma nessuno mi diceva che non fosse fattibile ma piuttosto che non fosse fattibile da lì,  in quel posto, da uno come me. Quindi impossibile non per me ma per quelli come me che erano tutti i lodigiani che al sabato di tardo pomeriggio sfilano per impigliarsi in Corso Roma e poi dopo la domenica è già lunedì e si frequenta il liceo dei figli della città bene, quelli che di lavoro faranno i figli dei propri genitori, almeno che non siano proprio scemi o diventino tossici.
Mi ero seduto al tavolino del bar di capolinea al corso, verso la periferia nella direzione che si allontana dalla piazza e c’era quel caldo alcolico che diventa sudore il primo secondo dopo il primo sorso di spritz. Eravamo io e Marco, anzi, io e Marco e chi ci aveva presentati perché pensava che ci dovessimo parlare io e Marco perché Marco veniva da Venezia (che fa sempre molto teatro per tutti i lodigiani del mondo), aveva studiato teatro (a Venezia, eh, per di più) e voleva mettere in piedi una compagnia teatrale proprio lì, proprio a Lodi, proprio in fondo alla coda sul culo di Corso Roma. Non ci eravamo nemmeno salutati con un garbo particolare, niente di più del rispetto per la presentatrice condivisa che stava seduta come se dovesse accadere la Creazione universale un’altra volta. Lo spritz era talmente mediocre, caldo e guarnito con una fragola troppo matura e sdraiata tutta molliccia, che mentre mi sorbivo l’introduzione che introduce tutte le presentazioni conto terzi mi ero ritrovato a pensare che sarebbe fallito in qualsiasi altro quartiere della città quel bar con quegli spritz caldi e il cadavere di fragola. Parlammo di tutto ciò che potesse essere potabile come prologo, di tutte quelle cose lì che ci prepariamo tutti come breve biografia pronta all’uso, solo con l’aggiunta di qualche momento di enfasi che ci era concesso a noi che volevamo fare gli attori, del resto.
Poi ricordo perfettamente, alcuni mesi dopo, quando io e Marco ci eravamo vestiti meno sbracati del solito ma con il solito tocco di enfasi, fermi nell’anticamera dell’ufficio dell’assessore alla cultura che era anche il vicesindaco di Lodi, era una donna, una donna in gamba che a ripensarci oggi è stata con noi più mamma che vicesindaco, Paola Tramezzani si chiamava, e quell’antisala ci sembrava una stanza ducale, o forse almeno a me perché Marco da Venezia era già più avvezzo agli stucchi, lui. Mi ricordo l’espressione che teneva, il vicesindaco, mentre noi le comunicavamo di essere già una compagnia teatrale bell’e finita, mancava solo che se ne accorgessero gli altri, lei per prima.
Ecco, io ho ancora nelle narici e sotto i polpastrelli quella nostra ambizione lì, così visionaria ma riconosciuta come un diritto da esercitare, quella voglia di prenderci il nostro posto nel mondo, mica il mondo, così ingenui e autentici ma con la sensazione che fosse possibile.
Oggi, non so se lo penso solo io, oggi manca questo senso di possibilità, che è diverso dalla speranza nuda e cruda e che innesca la meglio gioventù: quella che riforma, evolve e coglie la bellezza dell’affermazione. E ci rende un paese abitabile, denso.

Le istituzioni hanno un drammatico bisogno di farsi educare dai movimenti

Per ora il progetto culturale del Comune di Roma si riduce allo sgombero. Restano in campo le promesse e la speranza che davvero le istituzioni della cultura sappiano “istituzionalizzare” ciò che di buono e i novativo è stato costruito e sperimentato al Teatro Valle ma rimane il fatto che, anche nel campo della cultura, noi abbiamo bisogno di legislatori che sappiano declinare in leggi dello Stato le buone pratiche dei “movimenti” (parola bruttissima,  abusata, svuotata e da rimettere il prima possibile nel cassetto degli slogan deturpato dalla politica).
Ha ragione quindi Montanari quando scrive che:

Negli ultimi decenni, anche in campo culturale le pubbliche amministrazioni hanno creato società e agenzie che permettessero di agire secondo procedure, e non di rado anche con finalità, di tipo privatistico (si pensi ad Arcus; o a Zétema, per restare a Roma). Qua si tratta di avviare un processo perfettamente speculare: studiare il modo in cui sia possibile che le istituzioni pubbliche ospitino al loro interno un modo più radicale (e dunque meno commerciale e meno lottizzato) di essere ‘pubblico’.
Si tratta di portare dentro ad un teatro pubblico un modo di fare, produrre, condividere teatro ispirato alla filosofia dei beni comuni. Se ci saranno abbastanza onestà intellettuale, fantasia e tenacia per farlo davvero, allora la storia del Valle Occupato sarà finita bene. E la Repubblica sarà un po’ più res publica.

#lamicodeglieroi secondo Ada

wpid-dellutri1.jpgScrive Adamantia che ha deciso di produrre insieme a noi il progetto L’amico degli eroi perché:

Dunque, perché ho deciso di credere in questa produzione “sociale”. 
In ordine sparso: 
* perchè da un po’ di anni ti leggo e ti vengo a sentire e mi hai sempre convinto e informato
* perchè sei costruttivo, genuino e incazzato al punto giusto
* perchè passarci uno straccio per logorare una macchia lercia dà più soddisfazione che vederlo fare dalla platea.
Un abbraccio da una Milano piovosa.
Ada

Anche voi potete essere nostri produttori partecipando qui.

Di padre in figlia: Cinzia Mangano

“Noi non abbiamo bisogno di presentazioni”. Diceva così Cinzia Mangano, figlia del boss Vittorio – lo ‘stalliere’ di Arcore – per fare capire a chi le stava davanti chi era e cosa rappresentava. La donna, arrestata con altre sette persone il 24 settembre del 2013, è stata condannata con rito abbreviato sei anni e quattro mesi di reclusione per associazione a delinquere. Con lei sono state condannate dal giudice per l’udienza preliminare a pene fino a otto anni altre cinque persone. Il giudice ha ritenuto che a loro carico non fosse configurabile l’associazione a delinquere di stampo mafioso, ma solo l’associazione semplice.

L’inchiesta era incentrata su una rete di cooperative di servizi che, secondo l’accusa, riciclavano denaro illecito anche per aiutare i familiari degli arrestati e i latitanti. L’organizzazione, secondo gli inquirenti, era una sorta di succursale della mafia siciliana a Milano, attiva già negli anni ’90 e rimasta operativa fino agli arresti. Secondo la Dda di Milano gli arrestati erano in contatto e avrebbero sostenuto l’ex assessore alla Casa della Giunta lombarda, Domenico Zambetti, il quale era invece stato arrestato nell’ambito dell’inchiesta per voto di scambio e presunti legami con la ‘ndrangheta.

Un’associazione a delinquere semplice, anche se dall’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Milano Stefania Donadeo, su richiesta dei pm Marcello Tatangelo e Alessandra Dolci, emergeva una storia criminale che andava dai mandamenti di Pagliarelli e Porta Nuova, cui apparteneva Vittorio Mangano, fino all’eredità raccolta per conto delle cosche di Cosa Nostra dalla figlia Cinzia, dal marito dell’altra figlia Loredana, Enrico Di Grusa, e da Giuseppe Porto ”tra coloro – come scrive il gip – che portarono la bara di Mangano” nel 2000.

”Noi non dobbiamo dimostrare niente, non abbiamo bisogno di presentazioni”, diceva intercettata la Mangano. E questo perché, come spiegava il gip, bastava ”l’autorevolezza del nome” Mangano per esercitare ”l’intimidazione” mafiosa e non c’era bisogno della ”violenza fisica” perché’ le vittime – tra loro tanti ”imprenditori lombardi” – sapevano ”bene chi sono e cosa rappresentano Pino Porto, Cinzia la figlia di Vittorio” e il genero. A ciò, secondo gli inquirenti, si dovevano aggiungere i rapporti stretti con la ‘ndrangheta dei Morabito, da decenni ormai stanziata a Milano. Tanto che, scriveva il gip, Alberto Chillà, uno degli arrestati, ”non parla delle sue societa’ o di quelle di Pino Porto” ma, intercettato, usa l’espressione la ”nostra roba” coinvolgendo negli affari ”anche Salvatore Morabito”.

Inoltre, ”pur non essendovi tra gli scopi contestati all’associazione” mafiosa anche il voto di scambio, osservava il gip, ”sono emersi rapporti tra Pino Porto e diversi soggetti che, in vista delle elezioni, a lui si rivolgono per ottenere un aiuto nelle imminenti consultazioni elettorali”. Relazioni che, secondo il gip, sono ”una sorta di investimento che porterà l’esponente politico a essere riconoscente per l’aiuto richiesto e ottenuto”. Così erano saltati fuori i contatti tra Porto e Gianni Lastella, ex finanziere, candidato consigliere Pdl per il Comune di Milano nel 2011 (non eletto) e ex consulente per il Ministero per l’attuazione del programma di Governo. Poi il ”sostegno” anche a Domenico Zambetti nelle regionali lombarde del 2010: Zambetti che diventerà assessore alla Casa nella Giunta Formigoni e sarà arrestato in un’altra inchiesta per voto di scambio con la ‘ndrangheta e concorso esterno in associazione mafiosa è stato rinviato a giudizio. Porto in pratica, secondo il gip, nelle ”elezioni ragionali del 2010” avrebbe svolto proprio la ”funzione di collettore” e ”procacciatore” di voti.

(fonte)