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Giulio Cavalli

“Sono sotto scorta perché voi fate finta di niente”

Un altro articolo, questa volta di Agoravox:

Schermata 2014-08-01 alle 13.30.47Ferrara. Il terzo appuntamento di “Autori a Corte” (lo scorso 30 luglio) ha lasciato un segno profondo, tra risate, spesso amare, e applausi sentiti. Ospite della serata l’attore teatrale, scrittore, ex consigliere regionale lombardo Giulio Cavalli, che dal 2007 vive sotto scorta per il suo impegno civile contro le mafie. Salito sul palco con l’intenzione di non parlarne, ha ceduto alle domande di Marco Zavagli, direttore di estense.com e moderatore dell’incontro.

“La scorta non ha nulla di poetico e in fondo la mia è una storia banale, molto poco eroica. Questo è un Paese che si innamora degli scortati, attori e non, e si dimentica degli operatori della giustizia. Sono 800 le persone sotto tutela in Italia. Conosco un panettiere che ogni mattina va a fare il pane scortato, perché si è rifiutato di pagare il pizzo”.

Ed è iniziato così un viaggio lampo indietro nel tempo. Giulio Cavalli ha aperto una innumerevole serie di parentesi per contestualizzare la storia, parentesi che, con estrema lucidità, ha chiuso puntualmente.

“Io vengo dal teatro, sono un arlecchino, un giullare –ha spiegato Cavalli– e la regola fondamentale è mai parlare di se stessi, a meno che non sia di interesse pubblico, oltre a non prendersi mai troppo sul serio. Noi giullari presentiamo la realtà, cerchiamo di non inquinarla e la portiamo in scena con il cuore più pulito possibile”.

In un batter d’occhio, ci si è ritrovati nel 2005-2006, ai tempi dell’amicizia e alla collaborazione con Rosario Crocetta, ex sindaco di Gela. Cavalli e Crocetta stavano lavorando ad un progetto teatrale, Do ut des. L’idea era quella di fare uno spettacolo per prendere in giro la mafia. “Seppellire la mafia con una risata”, come il grande Peppino Impastato aveva insegnato con la sua esperienza alla Radio.

Ma la morsa della paura si è fatta sentire nel 2011. L’allora prefetto di Lodi, Peg Strano, voleva revocargli la scorta, e la ‘Ndrangheta era pronta ad eliminarlo non appena fosse rimasto sprovvisto di tutela, come testimonierà a posteriori l’ex boss delle cosche crotonesi Luigi Bonaventura. “Avevo notato uno strano movimento di uomini calabresi e cominciai a dare programmi falsi sui miei spostamenti” – ha detto Giulio Cavalli. Di lì a poco arrivò da Roma “la revoca della revoca”. Ma “fa più paura uno Stato che non fa lo Stato o che diventa convergente con l’anti-stato, che non trovarsi faccia a faccia con i mafiosi (il figlio di Totò Riina è venuto nel mio camerino) – questo andrebbe detto”.

A ruota libera, tra un racconto ed un altro, Cavalli ha lanciato provocazioni e affermazioni precise, volte a scuotere gli animi ed il senso d’impegno civile. Il pubblico rispondeva timidamente. Non è dato sapere se per paura, poca convinzione o scarsa informazione. Certo è che ha risposto in maniera decisa ed unanime solo nel ricordare una vecchia pubblicità, quella del Pino Vidal. Questo è un segno chiaro, ha poi commentato Cavalli. Lo spot è stato tirato in ballo nel descrivere il promo del film Il capo dei capi, in cui l’attore che interpretava Totò Riina cavalcava un cavallo bianco sulla spiaggia. Risale proprio all’uscita del film, la nascita su internet dei primi fan di Riina. “Se ci fosse il reato di favoreggiamento culturale”, certi film finirebbero sotto accusa.

Non riesco a capire questo Paese – ha continuato Cavalli – continuiamo ad avere stima o paura delle persone sbagliate.

E sul processo Andreotti: In questo Paese, ripetere continuamente una bugia, diventa verità. L’innocenza di Giulio (Andreotti) è stata conclamata dal Paese. Ma è storia giudiziaria che fu mafioso fino alla primavera del 1980. L’Andreottismo sopravvive allo stesso Andreotti, è come un virus. I veri colpevoli sono i suoi elettori.

“I nuovi Andreotti? Le mafie non corrompono più i parlamentari, ora creano i parlamentari.”

Tanto abbiamo una classe dirigente che è molto diligente.

Il nuovo progetto di Cavalli, autofinanziato per scelta, debutterà a Napoli ad ottobre e s’intitolerà L’amico degli eroi. Narra la vicenda di Dell’Utri.

“Siamo un Paese tragicamente comico, sulla pelle degli onesti.”

 

Tu chiamale, se vuoi, convergenze

Una notizia da pelle d’oca:

(ANSA) – BARI, 31 LUG – Per decorrenza dei termini di custodia cautelare preventiva sono stati scarcerati 4 pregiudicati foggiani, tra cui il boss mafioso Federico Trisciuoglio, capo dell’omonimo clan. Il provvedimento, a firma del gip di Bari Annachiara Mastrorilli, accoglie l’istanza dei difensori, condividendo i ritardi nel deposito delle motivazioni della sentenza di primo grado (emessa dal gup Ambrogio Marrone nel febbraio 2013) e la mancata trasmissione per tempo degli atti per il processo d’appello.

Un giullare nel Paese degli indifferenti (da Estense.com)

L’articolo uscito su estense.com:

Schermata 2014-08-01 alle 09.54.35di Silvia Franzoni

Giulio Cavalli arriva sotto scorta alla terza serata di ‘Autori a Corte’, prende posto a fianco del direttore di estense.com Marco Zavagli, moderatore dell’incontro, e tira fuori una pipa. “Dal 2006 hai il triste primato di essere l’unico attore europeo a vivere sotto scorta”, comincia Zavagli presentando l’ospite al pubblico, ma prima che qualunque domanda fosse formulata, Giulio Cavalli sorride, arrendendosi al dover raccontare “le origini del mio vivere sotto scorta, che poi nulla c’è di poetico nell’essere scortati, non in un Paese che si innamora degli eroi ed è incapace di esercitarne la memoria”.

Inizia così un flashback scanzonato che dal 2005-06, dall’amicizia dell’autore e attore di teatro con l’allora sindaco di Gela Rosario Crocetta, giunge a raccontare la realizzazione di ‘Do ut des’, lo spettacolo teatrale che ha portato in scena una mafia ridicolizzata, “seppellendola con una risata”. Così il ‘giullare’ Cavalli (“io sono un arlechino, un giullare”, sono le uniche etichette che si concede), presa la realtà, l’ha portata “in scena stropicciandola, per permettere di vederla da uno spigolo inaspettato e mostrarne la meraviglia”: non è forse meraviglioso scoprire di non aver ragione di temere Riina, “uno sfigato che nel silenzio del suo covo tra le montagne ascolta la colonna sonora dei Puffi?”. Tra un applauso e l’altro, è chiaro, Giulio Cavalli “così come Brecht nella sua Resistibile ascesa di Arturo Ui e come Peppino Impastato con Radio Aut ha normalizzato il terrore – precisa il direttore di estense.com – con la satira ha ridicolizzato il potere”: così iniziano le minacce, le lettere anonime, “le bare spedite per corriere”. Ma il guaio è un altro, sottolinea l’attore, è il “Paese che delinea il giusto e lo sbagliato in base alla presenza o meno del reato, senza occuparsi di etica e di morale, io sono sotto scorta perché voi siete troppo poco cittadini”. Il pubblico cade nel silenzio proprio dell’esame di coscienza: “bisogna avere il coraggio – lo esorta allora Cavalli – e dire, denunciare quando i comandanti delle stazioni dei Carabinieri, spesso parafascisti sottopagati, non hanno alcuna professionalità; quando i Prefetti narcotizzano la Provincia e i capi degli Uffici Tecnici sono corrotti; quando i segretari comunali sono notai senza responsabilità; del tacerlo, di questo dovete avere paura, non della criminalità organizzata”.

“E tu, Giulio, non hai mai avuto paura?” L’attore si sistema i capelli, un tiro di pipa, e “sì – comincia a raccontare – nel 2011, quando fu chiaro che chi decideva della mia scorta fosse vicino ai calabresi: fa più paura lo Stato convergente con l’anti-stato che l’essere faccia a faccia con un mafioso”. La continua volontà di sviscerare il vero ha portato Giulio Cavalli a scrivere del “virus dell’andreottismo”, a raccontare (ne L’innocenza di Giulio, Chiarelettere, 2012) “la pietà ignorante che ha deciso l’innocenza di un uomo mafioso fino alla primavera del 1980”: se riportare infinite volte una bugia la rende verità, allora forse i “veri colpevoli del processo Andreotti sono i suoi elettori”. E allora, oggi, qual è l’eredità (a)politica del “banale malfattore, chi sono – chiede Zavagli – i nuovi Andreotti?”. “Le mafie non corrompono più i parlamentari – risponde Cavalli –, ora creano parlamentari, e gli Andreotti d’oggi sono tutti coloro che a danno della comunità perseguono benefici personali, facendo attività di lobby mentre gli onesti continuano a parlare incomprensibilmente”.

La più alta tra le arti, la politica, si inabissa davanti all’indifferenza, la stessa che ha “permesso di avere inetti ai vertici delle nostre istituzioni, una classe dirigente che spesso stringe la mano alla mafia, mentre noi restiamo nel silenzio acritico”, e i nomi a farne da esempio sono molti, a partire da Dell’Utri. A quest’ultimo è dedicato il nuovo spettacolo teatrale dell’autore, ‘L’amico degli eroi’, un progetto autofinanziato (attraverso un’operazione di crowdfunding) sviluppato mentre è in corso la stesura di un “romanzo d’amore, perché serve anche questo per mettere la mafia al muro”.

L’intervista-racconto di Giulio Cavalli finisce come era cominciato, tra risate (amare) e sonori applausi, poi le domande del pubblico permettono un’ultima riflessione: “tagli ai costi della politica, meno politici, tutto giusto, ma la prima necessità è un elettorato più consapevole che recuperi il dovere della parola”.

La rivincita di Giusy Multari

Perché a volte le notizie sono buone e hanno così tanto senso che vale la pena di darle e ricordarle a lungo:

La violenza era quotidianità. Ma l’inferno, quello vero, lo aveva conosciuto dopo che suo marito, Antonio Cacciola, si era suicidato. Da quel momento per Giuseppina Multari, Giusy come la chiamavano in famiglia, era iniziato un incubo infinito. Sequestrata per mesi, assieme alle sue tre bambine, nel girone dantesco del clan di cui era parte e vittima allo stesso tempo. Fin quando ha deciso di scappare affidandosi ai carabinieri e ai magistrati della Dda che l’hanno protetta e ascoltata. Un lungo racconto che ha prima portato alla scoperta delle armi da guerra della cosca e di un bunker che aveva ospitato il boss Gregorio Bellocco. E che poi, all’alba di stamattina, ha consentito l’arresto dei suoi aguzzini. Gente che per anni l’aveva vessata e che quando era fuggita l’aveva cercata per tappargli la bocca.  

Le manette ai polsi di 16 persone sono scattate a Rosarno, in Olanda e Germania. I carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria hanno chiuso il cerchio attorno ud un’organizzazione criminale che aveva fatto del traffico di droga il suo business principale, e di cui facevano parte quegli stessi Cacciola che avevano costretto “in condizioni di schiavitù” Giusy. Un’ipotesi di reato terrificante, accolta dal Gip di Reggio Calabria, Antonio Scortecci, su richiesta del Pm della Dda Alessandra Cerreti.

La storia di Giuseppina Multari, 35 anni e tre figlie piccole, è contenuta nelle carte dell’inchiesta “Mauser”. Poco più di 500 pagine di ordinanza di custodia cautelare nelle quali la donna racconta la sua vicenda all’interno della famiglia Cacciola. L’incontro con il marito Antonio quando aveva 16 anni, il matrimonio a 20 e un rapporto coniugale fatto di umiliazioni e botte. Un uomo fragile, racconta la collaboratrice di giustizia, dedito all’alcol e forse anche alla droga. Ma un uomo che amava nonostante tutto, perché quando era lucido si trasformava in un’altra persona. Poi, nel 2005, il suicidio “o presunto tale” dell’uomo, spiega ancora al Multari. 

Da quel momento viene accusata di essere lei la causa di quella morte e costretta a vivere in schiavitù. Chiusa in casa, controllata dai suoceri e dai cognati, obbligata ad ogni forma possibile di violenza psicologica, compresa la minaccia di levarle le figlie. Un anno dopo la donna tenta di togliersi la vita lanciandosi in mare. Un  suicidio fallito grazie all’intervento di suo fratello Angelo che la soccorse in spiaggia. Poche settimane dopo anche Angelo sparirà per sempre, molto probabilmente ammazzato. Disperazione che si somma a disperazione, contenuta in una lettera che Giusy scrisse al padre che, sia pure terrorizzato dalle possibili rappresaglie dei Cacciola, decise di portare ai carabinieri. Da allora Giusy è sotto protezione. E da allora racconta non solo la sua storia, ma anche gli affari della “famiglia”. Droga e armi, legami e alleanze con i boss della ‘ndrangheta di Gioia Tauro. Centinaia di pagine di verbale che si sono tradotte in richieste di arresto. Un’ordinanza di custodia cautelare che riguarda il suocero di Giusy, Domenico Cacciola, e il cognato Gregorio. E ancora Francesco, Maria, Vincenzo e  Giovanni Battista Cacciola. 

Nell’inchiesta, con ruoli e responsabilità diverse, ci è finita l’intero clan familiare donne comprese. Accusati delle vessazioni e delle minacce ai Giuseppina. Poi c’è anche il filone del traffico di droga. Decine, forse centinaia di chili di cocaina, che si spostavano tra Germania e Italia. Da Dussendorf venivano importate ingenti quantità di cocaina da piazzare poi sul mercato nazionale.

«Le parole servono a responsabilizzare chi ne fa uso»: una mia intervista

La mia intervista per Matteo Bianchi de La Nuova Ferrara:

Schermata 2014-07-31 alle 17.38.30di Matteo Bianchi

L’autore forestiero che questa sera, alle 21.30, incontrerà il pubblico di una favoleggiata corte estense dentro il Giardino delle Duchesse, è di punta fine. Il milanese Giulio Cavalli, infatti, parlerà dei libri . L’innocenza di Giulio(Chiarelettere) e Fronte del palco (Editori Riuniti). E si sa, quando la penna è raffinata, ciò che ne risulta è altrettanto, o quantomeno si difende. Cavalli si difende senza abbassare la guardia dal mondo. E pur essendo costretto a vivere sotto scorta e a recitare “sotto tiro”, non ha rinunciato alla cultura, certo a quella personale, ma di più a quella potabile da tutti.

Cosa significa vivere sotto scorta?

«In Italia abbiamo tantissime persone sotto tutela: gli ultimi dati ufficiali ne indicano circa 800. E questo “grande fratello” degli scortati non fa bene, né all’antimafia, né alla cultura. Perciò, piuttosto che parlare della mia situazione, mi sento di chiedere maggiore attenzione sui testimoni di giustizia, su tutti coloro che hanno assai più difficoltà a raccontare la loro storia. Il fatto che la parola faccia paura, indipendentemente da chi ne sia il portatore, credo sia una responsabilizzazione nei confronti di chi ne fa uso».

“Fronte del palco” è un’intervista che inquadra l’attenzione della mafia per l’eco del palcoscenico. Perché?

«Negli ultimi anni si è scoperto che la criminalità può avere paura anche di altre forme che non siano militari o giudiziarie. Non teme più solo carabinieri e magistrati, ma teme anche la società civile quando si organizza. E questo è un buon segno. Il titolo è stato scelto dall’autore per mettere a fuoco la “parte” di chi sta fuori dal palco. La mia è una situazione che dipende sì da ciò che scrivo, ma soprattutto da chi viene a vedermi. Il mio pubblico non è immune da responsabilità».

In che modo è cresciuto in lei il legame tra politica e teatro?

«Il problema nostro sono le dinamiche partitiche, più che politiche. E faccio un lavoro profondamente politico, al di là che io fossi dentro a un’istituzione. Quando interpreto a teatro un fatto di cronaca, o un male contemporaneo, prendo posizione. Non faccio spettacoli per informare sulla criminalità organizzata, li faccio contro».

Ma il rapporto col partito?

«Mi impegnerei molto poco nel congresso di un partito; l’affiancamento della recitazione all’attività politica, nel caso della Regione Lombardia, è stata una prosecuzione naturale. Vedo uno spesso filo rosso tra le due attitudini nel momento in cui si ha la possibilità di invocare a gran voce una legge e di lavorarci nelle stanze idonee».

Sebbene lei abbia lo stesso nome, “L’innocenza di Giulio” è un titolo assolutamente sarcastico, vero?

«Cosa vuoi farci… scavando, ognugno di noi troverebbe degli omonimi di cui non andare fiero. Certamente, la grande colpa del nostro paese e della generazione dei nostri padri, è stata di avere permesso non solo ad Andreotti di fare ciò che ha fatto e di non parlarne, ma di accettare la costruzione dell’enorme bugia del “Giulio perseguitato”.

E si è instaurato un meccanismo diabolico…

«È un meccanismo a cui fare attenzione, perché passa Andreotti, poi l’ “andreottismo” come metodo d’intendere la politica , e l’innocenza quale bugia ripetuta mille volte fino a diventare verità. E mi preoccupa specialmente per la generazione dei miei figli, essendo un modello molto attuale, soltanto perpetrato con un po’ più di eleganza».

Salutiamoci con la lettera del grande Fortini che ho letto sul suo blog. Anche se Fortini ringhia che mai avrebbe stretto la mano a uno come Sgarbi. Condivide? 

«Fortini era un poeta “di” Sinistra e oggi siamo abituati a intellettuali “della” Sinistra. A libro paga. E sono estremamente d’accordo, perché l’intellettuale dovrebbe essere chi ha gli occhi più acuti e allenati per distinguere una mediazione da un compromesso».

La perla del giorno

E’ del Sottosegretario Luca Lotti:

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Non so voi, ma io un accordo politico con chi distrugge la Carta non lo farei. Hai ragione caro Lotti.

Meritocrazia alla lombarda. La solita.

Un esercito di amici degli amici. Ogni volta che deve cambiare tutto poi alla fine non cambia niente. Basta leggere qui.

a normativa, per la verità, stabilisce il numero massimo dei componenti delle segreterie dei membri della giunta (dieci per il governatore, otto per il suo vice e sei per ogni assessori) da scegliere fra il personale già in servizio al Pirellone. Se occorre una competenza specifica e se tale competenza è irreperibile all’interno della Regione, si ricorre a personale esterno. L’impressione è che gli assessori interpretino la legge in maniera molto liberale e anzi quasi anarchica, spesso scegliendo non in base a curricula ed esperienza, bensì amicizia, parentela e vicinanza politica. Solo Alberto Cavalli, assessore alle infrastrutture e alla mobilità, ha rinunciato a farsi una segreteria sul modello dei suoi colleghi di giunta: due segreterie prese in prestito dalla struttura dei dipendenti regionali.

Tipico malcostume italiano è invece quello dei politici che una volta non rieletti pensano bene di farsi reclutare come consulenti dai colleghi di partito. A mò di esempio basta citare Mario Labolani che risulta collaboratore dell’assessore al territorio Viviana Beccalossi. Labolani, che si occupa di «rapporti con i rappresentanti istituzionali, enti e associazioni che a vario titolo sono coinvolte nella redazione delle proposte di leggi regionali sul consumo e difesa del suolo», si è seduto in giunta a Brescia dal 2008 al 2012 in qualità di assessore al verde pubblico in quota Fratelli d’Italia.

Di contro l’ex assessore provinciale milanese, il leghista Stefano Bolognini, ha rifiutato l’offerta del suo partito di essere parcheggiato provvisoriamente come collaboratore presso l’assessore alla cultura Cristina Cappellini. Non così Roberto Valenti, ex vicesindaco di Marcallo con Casone, un comune di 5 mila abitanti vicino a Magenta, dove per dieci anni è stato sindaco con un monocolore del Carroccio Massimo Garavaglia, oggi assessore al Bilancio nella giunta Maroni. Valenti, travolto dalle polemiche per le bollette troppo alte del suo cellulare di servizio, fu messo in disparte dalla Lega alle elezioni dello scorso maggio. Fuori dalla lista e fuori dai giochi. Ma con uno stipendio extra. Valenti oggi guadagna 28 mila e 500 euro “per attività di comunicazione, gestione rapporti con i giornalisti, stesura testi”.

Poi ci sono quelli che lo stipendio lo ricercano esclusivamente negli enti pubblici. Un fulgido esempio lo fornisce il consigliere comunale milanese di Forza Italia Pietro Tatarella che vanta un curriculum ineguagliabile: consulente dell’assessore alla casa e all’housing sociale, membro del comitato tecnico-scientifico del Fondo provinciale per la Cooperazione Internazionale, consigliere di amministrazione dell’Ente Fiera di Castelbarco. Praticamente un tuttologo se non fosse che il suo curriculum è privo di qualsiasi competenze in ciascuno di questi ambiti.

C’è poi il modello a conduzione familiare come quello dell’assessore alla casa, housing sociale e pari opportunità Paola Bulbarelli. Non la sua di famiglia ma quella di Daniela Santanché. La «pitonessa» è riuscita a piazzare l’avvocatessa Valeria Valido, che è stata a lungo tempo la sua più stretta collaboratrice nonché amica del faccendiere della P4 Luigi Bisignani, a caposegreteria dell’assessore. A seguire contratti per un ex dipendente della sua società, Visibilia, e per l’ex assistente della nipote Silvia Garnero già assessore della Provincia di Milano.

In ultimo tra i collaboratori degli assessori lombardi non poteva mancare una figura più che imbarazzante, il mandante dei manifesti «Via le BR dalle Procure» affissi nell’aprile 2011 lungo le strade di Milano in occasione delle elezioni comunali. Giacomo Di Capua, caposegreteria del vicepresidente di Regione Lombardia e assessore alla sanità Mario Mantovani, finì condannato per vilipendio dell’ordinamento giudiziario dopo che inizialmente venne accusato un altro esponente pidiellino, Roberto Lassini, che fu costretto coram populo a rinunciare alla candidatura nella lista a sostegno di Letizia Moratti. I Pm milanesi nel 2012 ottennero l’archiviazione per Lassini e la condanna di Di Capua «ritenuto l’ideatore del contenuto dei manifesti diffamatori e sostanzialmente il committente delle affissioni». Caduto in disgrazia il primo, per il secondo la poltrona è garantita. Voce del capitolo rapporto fiduciario, con uno stipendio che tutti indicano come molto elevato. Piccolo dettaglio: regione Lombardia non lo rende noto. Giorni e giorni di ricerca sono stati inutili, il compenso del pupillo di Mantovani resta un oggetto misterioso.

Un Paese senza opinione pubblica

Lo scrive Mantellini e c’è da esserci d’accordo:

Come è evidente a chiunque si allontani un istante dal proprio oggetto d’amore (l’Italia sole-amore-fratellanza, il paese piu’ bello del mondo, la culla di mille civiltà e blablabla) l’opinione pubblica, quella specie di contrappeso democratico che garantisce gli equilibri fra le varie parti della società, in Italia non esiste. Non dico che non conti, non esiste proprio, se non nel fantoccio comunicativo utile alle forze in campo per legittimare sé stesse.

Una vergogna trasformata in fierezza nazionale

Ripensando, ieri, alle immagini ed al fragore intorno alla Costa Concordia ho pensato di essere un barboso pessimista poiché trovavo stonato questo clamore per un relitto che si porta dietro così tanti morti e feriti. Oggi va meglio, non sono pazzo, perché anche Francesco Merlo (su Repubblica, eh!) mette per iscritto un giudizio simile:

Non si era mai vista una vergogna trasformata in fierezza nazionale. La carcassa del Comando Marinaro Italiano è stata esibita come una bandiera. E il colore della ruggine e i residui d’olio esausto erano spacciati per polvere di stelle. Nel bel mezzogiorno genovese di ieri l’Italia si è inchinata — il contrappasso dell’inchino! — dinanzi alla rovina della sua secolare Storia Navale.

Lo smantellamento della carcassa, che da sempre è la forma di sopravvivenza degli accattoni di tutto il mondo, frutterà infatti al consorzio Saipem e San Giorgio del Porto 100 milioni di euro, 2 mila lavoratori per 22 mesi di divoramento: soldi, soldi, soldi, i maledetti soldi della disgrazia; le estreme, illusorie fortune della sventura.

Ecco perché non sembrava, quella del presidente del consiglio Matteo Renzi sul molo di Genova, la visita allo scheletro di una nazione, ma aveva invece il tono della passeggiata allegra, dell’autopromozione: l’industria, la scuola, l’ingegneria italiana… E sempre dicendo di non voler fare passerella, Renzi finiva col farla.

E va bene che queste sono le comprensibili leggi della politica-spettacolo, ma qui la rottamazione non è più metafora. Sempre premettendo che «non è un giorno lieto e nessuno mette le bandiere per festeggiare», l’evidente gioia di Renzi era fuori luogo, e le pacche sulle spalle, gli abbracci, i sorrisoni e gli scherzi, «ragazzi, siete peggio che in Parlamento», erano quelli delle Grandi Opere, ma da costruire e non da demolire; delle Industrie che nascono e non di quelle che muoiono, dell’inizio e non della fine (anche) di una retorica.