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Giulio Cavalli

Quindi Stefano Cucchi è stato arrestato per una legge incostituzionale

La lettera di Ilaria Cucchi:

Caro Senatore Giovanardi,
ora non le vanno bene neppure i giudici della Corte Costituzionale. La sua tanto criticata legge da oggi è carta straccia. Punto ed a capo. Peccato che tra il punto ed il capo vi siano stati tantissimi inutili, se non dannosi, arresti che ben potevano essere evitati. Uno di essi, Stefano Cucchi, di quell’arresto ne è poi morto.

Se la notte del 15 ottobre del 2009 non fosse stato arrestato per poi essere portato in tribunale a piazzale Clodio, Stefano non sarebbe stato ferocemente pestato, tanto da renderne obbligato il ricovero in ospedale in condizioni “acute” come ha recentemente riconosciuto la Suprema Corte di Cassazione. Stefano, su questo siamo tutti d’accordo, non sarebbe morto. Forse dobbiamo a questo il suo grande interesse per il processo che ci sta impegnando da anni? Debbo quindi dirle grazie?

Grazie Senatore Giovanardi, grazie davvero per tutto quanto ha fatto e sta ancora facendo.

Grazie di tutto.

Ilaria Cucchi

La figuraccia sui libri

Io non so se sia più appassionante il duello Letta-Renzi fatto sulla radura dei voti che avevano deciso di volere tutt’altro e non so nemmeno se possa interessare che la “ripresa” di cui parla il Presidente del Consiglio stia assomigliando sempre di più ai “ristoranti sempre pieni” di Silvio Berlusconi, certo è che tra le mille incertezze di questa politica la figuraccia rimediata dallo stravolgimento della legge sulla detraibilità dei libri ancora una volta ci dice quanto la cultura sia una pezza da piedi da citare solo in campagna elettorale o al massimo alla cerimonia di insediamento. Perché non penso che vi sia sfuggito che quella che poteva essere una buona legge sia diventata carta straccia. Se vi è sfuggito non fatevene un colpa: ne hanno parlato solo i soliti noti e se volete farvene un’idea potete leggere qui:

Sembrava, prima di Natale, che questo appello fosse stato accolto, che la lunga noncuranza della politica italiana verso la cultura si stesse incrinando: il ministro Zanonato aveva proposto una legge che permetteva di detrarre il 19% sui libri acquistati fino a un massimo di duemila euro all’anno, di cui mille per i libri in generale e mille per i testi scolastici, legge approvata dal Consiglio dei Ministri, annunciata dal Presidente del Consiglio e definita dal ministro Bray una “decisione storica”. Copertura, 50 milioni (di fondi europei).

Era un primo segno, e aveva oltre al valore economico e simbolico, anche quello di accomunare nel libro tutti quelli che lavorano per crearlo, produrlo, stamparlo e venderlo. Perché quando un libro si vende, se ne avvantaggiano il lettore, il libraio, l’editore, lo stampatore e l’autore, tutti uniti in una catena che in nessun punto si può spezzare (parliamo del libro cartaceo, cui questa legge si riferiva). I lettori hanno cominciato a tesaurizzare gli scontrini, i librai a organizzarsi. Ma…

Ma il decreto, che ieri è stato incardinato in commissione Cultura dalla Camera dei deputati, da ieri è al senato e deve diventare legge entro il 21 febbraio, è stato depauperato e stravolto: modificata la destinazione dal lettore generico allo studente delle scuole superiori, ridotta la copertura economica a circa 17 milioni e la detraibilità da 2000 a 1000 euro, e identificato il libro come strumento scolastico. Infine sostituite le persone fisiche (i lettori) con gli ‘esercizi commerciali’, cioè i librai (per la sola vendita di libri scolastici).

Ancora una volta lo Stato italiano ha mostrato la propria indifferenza alla cultura, ai cittadini, alla parola data. Tre cose, il rispetto delle quali, mi sembra, formerebbe l’onore di una classe dirigente.

Fini e Giovanardi non sanno (nemmeno) scrivere le leggi

La Corte Costituzionale “boccia” la legge Fini-Giovanardi che equipara droghe leggere e pesanti: nella norma di conversione – dice la Consulta – furono inseriti emendamenti estranei all’oggetto e alle finalità del decreto. Con la decisione rivive la legge Iervolino-Vassalli come modificata dal referendum del 1993, che prevede pene più basse per le droghe leggere.

La questione di legittimità della legge è stata sollevata dalla Cassazione per violazione dell’articolo 77 della Costituzione, perché nel 2006 nella legge di conversione del decreto furono inseriti molti emendamenti che, secondo la Suprema Corte, erano estranei all’oggetto e alla finalità del testo di partenza.

Le nuove norme in materia di droga, infatti, erano state inserite con un emendamento, in fase di conversione, nel decreto legge sulle Olimpiadi invernali di Torino del 2006. A sollevare la questione di legittimità era stata la terza sezione penale della Cassazione. Viene così cancellata la norma con cui si erano parificate “ai fini sanzionatori” droghe pesanti e leggere: con la Fini-Giovanardi erano infatti state elevate le pene, prima comprese tra due e sei anni, per chi spaccia hashish, prevedendo la reclusione da sei a venti anni con una multa compresa tra i 26mila e i 260mila euro. Di certo, la pronuncia della Consulta avrà notevoli ripercussioni sia sul numero degli attuali detenuti arrestati per reati legati agli stupefacenti, sia sui procedimenti in corso per questi stessi reati.

La notizia è di oggi e la trovate un po’ dappertutto. E mi chiedo: chi ripaga tutte le carcerazioni e le multe “incostituzionali”?

Sull’omicidio di Borsellino intanto segnatevi un nome: Angelo “Ninni” Sinesio

Per chi bazzica le carte processuali non è nome sconosciuto ma sicuramente per i più è una sorpresa. E la sua carriera sorprendente. Ne scrive Malitalia:

Uno di quelli che frequentava di più Paolo Borsellino sarebbe stato un funzionario dell’allora alto commissariato per la lotta alla mafia, tale Angelo “Ninni” Sinesio. I magistrati che lavoravano con Borsellino spesso lo vedevano presente nell’ufficio del procuratore già quando questi guidava la Procura di Marsala. Una presenza diventata “familiare”, non stonava perché il procuratore Borsellino sarebbe stato solito metterlo a suo agio. Sinesio oggi ha fatto carriera, è diventato prefetto, è stato prefetto vicario a Catania quando prefetto era l’attuale ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, che lo ha voluto fino a febbraio scorso al Viminale a capo della sua segreteria tecnica ed che oggi è commissario straordinario per l’emergenza edilizia delle carceri. Carriera, quella di Sinesio, che non è stata fermata nemmeno dal fatto che sarebbe stato sospettato addirittura di essere stato la “gola profonda” che avrebbe avvisato Bruno Contrada, il numero due del Sisde, delle indagini sul suo conto. Sinesio è stato sentito nel processo contro Contrada, ha detto che il “segreto” sul super agente dei servizi lo aveva confidato ad un suo superiore, il dott. De Luca, e che semmai era stato questo a passare l’informazione a Contrada che così seppe che lo stavano andando ad arrestare. Nella sentenza che ha condannato Bruno Contrada la vicenda è bene raccontata, Sinesio aveva avuto l’informazione parlando con uno dei magistrati più vicini a Paolo Borsellino, la dott. Alessandra Camassa, nei giorni seguenti la strage di via D’Amelio. Il pm Camassa conosceva Sinesio per averlo visto spesso con Borsellino, dunque era una persona della quale era indotta a fidarsi, ma quel giorno in cui parlarono di Contrada la reazione di Sinesio sarebbe stata anomala, avrebbe avuto come una reazione nervosa, un conato di vomito, si allontanò dalla stanza del magistrato per andare in bagno, per poi tornare subito dopo. Di Sinesio scrive anche Contrada nel suo memoriale, l’ex dirigente dei servizi, condannato per mafia, lo indica come la persona che gli disse delle indagini sul suo conto.

Oggi emergono altri particolari, che vengono letti sotto diversa luce proprio per il “marciume” che va emergendo attorno alle strategie stragiste mafiose. E ancora una volta si sente parlare di  Sinesio.Questi avrebbe cercato in tutti i modi di sapere a cosa si stava interessando Borsellino nei giorni in cui la mafia, e forse non solo la mafia, decidevano di eliminarlo per sempre. Incontrava i magistrati più vicini a Borsellino presentandosi addolorato, sconfortato, per quello che era successo a via D’Amelio, e chiedeva, chiedeva se Borsellino si occupava di politici, di politici e imprenditori agrigentini, sembra che i suoi interessi erano puntati a conoscere se Borsellino indagava sul ministro Mannino e sull’imprenditore Salamone, uno degli imprenditori che saltava fuori dalle indagini sulla tangentopoli siciliana. Interessi pressanti, costanti, tanto insistenti che alla fine hanno suscitato qualche perplessità nei suoi interlocutori, alla fine è uscito di scena.

Nelle foibe c’è ancora posto

181125457-a66e187a-e4d1-41a2-b80d-7311d054e2c6L’ha scritto il capogruppo in zona 9 a Milano di Rifondazione Comunista-Sinistra per Pisapia, Leonardo Cribio che per il Giorno del Ricordo ha deciso di onorarci con una cazzata degna del più becero comico di Caracas. E il fatto che mi colpisce è che nessuno ne chieda le dimissioni come se un’uscita imbecille della maggioranza debba essere perdonata “più” di quelle di centrodestra. Perché l’idiozia è bipartisan e il cambiamento passa estirpandola tutta ovunque si sia sedimentata. E la condanna “morbida” verso gli amici rispetto ai nemici fa sembrare tutti molto più stupidi e meno credibili.

Quella filiale dell’Unicredit e le mafie all’ortomercato

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Dava finanziamenti senza nessun controllo che finivano in un traffico di droga. Per questo E.R., funzionaria di Unicredit a Milano, è stata condannata a due anni e otto mesi per riciclaggio. La sentenza della corte d’Appello di Milano è stata confermata nel luglio scorso dalla Corte di Cassazione. “Non importa che non conoscesse la provenienza di quei soldi, la condanna è giustificata dal fatto che non sono state rispettate le normative anti-riciclaggio”, scrivono i Supremi giudici. Un principio che potrebbe fare scuola e minare più facilmente il sodalizio grigio tra malavitosi e colletti bianchi. Le 27 pagine della Corte, che respingono i ricorsi di altri 6 imputati, raccontano proprio una storia fatta di traffici di droga, soldi e legami tra criminali, imprenditori e banche. E’ questo lo spaccato che affiora dalle nebbie dell’Ortomercato e dal processo nato dall’operazione For a King. Secondo i giudici di Milano, R. ha riciclato il denaro di Paolo Antonio, titolare e prestanome della rete di cooperative utilizzate da Francesco Zappalà e Salvatore Morabito per ripulire i soldi della cocaina.

Facciamo un passo indietro. In primo grado R. se la cava. Viene assolta perché i giudici sospettano che il riciclaggio sia avvenuto, ma non riescono a dimostrare che la donna sapesse da dove provenissero quei soldi. I giudici di secondo grado vanno oltre e ribaltano il giudizio. Con la consulenza di due periti e l’indagine interna di Unicredit riescono a ricostruire le operazioni scorrette della funzionaria che non aveva mai segnalato la natura delle società di Morabito e Paolo (Consorzio Europa e Nuovo Coseli contenitori di società fantoccio) né mai rispettato le norme anti-riciclaggio. Questo basta per condannarla.

Sono numerosi gli affidamenti concessi dal 2006 e il 2007 alle società fittizie, che vengono elargiti oltre i limiti consentiti alla funzionaria. Nonostante non fosse stata presentata alcuna documentazione. E per un ammontare di un milione e 899 mila euro. “Addirittura – si legge nella sentenza – talvolta mancava la stessa domanda di affidamento, oppure i bilanci presentati erano del tutto inconsistenti o la loro presentazione era del tutto omessa”.

Ma i soldi vengono dati anche quando una delle tante società ha un fatturato pari a zero e un patrimonio netto preceduto dal segno negativo. In un caso, R. ha dato 280 mila euro a una di queste scatole vuote. E anche quando le somme versate sui conti correnti registrano sei cifre, la funzionaria non segnala mai i movimenti sospetti. Il denaro viene affidato senza nessuna garanzia “e, anzi, quelle poche esistenti venivano trasferite da un contratto a un altro delle società per plurimi finanziamenti”, tutto a vantaggio del prestanome di Morabito, Paolo. Un caso riportato dai giudici d’Appello spiega bene il meccanismo ben collaudato. La funzionaria Unicredit concede un finanziamento di 330 mila euro alla società Angelica, che a sua volta lo gira a un’altra società, appena nata, che non produce utili e il cui amministratore, Amos Parisi, è un semplice operaio. La donna, poi, consente sconti di numerose fatture per operazioni inesistenti di cui si avvalgono le società fantoccio del gruppo. Anticipando, sempre in contanti, somme importanti che finiscono nel traffico di droga.

L’indagine sull’Ortomercato di via Lombroso, il più grande mercato di rivendita di frutta e verdura in Europa, nasce nel 2006. Gli investigatori della Squadra mobile di Milano puntano sul For a King: night club di lusso aperto al piano terra dell’edificio Sogemi (società municipalizzata al 99 percento del Comune di Milano, che gestisce l’Ortomercato). Il vaso di Pandora va in frantumi. Gli uomini della Mobile setacciano il contenuto. Scoprono un traffico internazionale di droga che parte dalla Bolivia e arriva in Svizzera, saltano fuori 200 chili di cocaina pura. Individuano società fittizie messe in piedi per ripulire i soldi. Smascherano il lavoro sporco della R.

Il processo si divide in due: il gruppo di Salvatore Morabito, nipote del boss di Africo, Beppe detto u tiradrittu, va al rito abbreviato che si conclude con 14 condanne per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga (Morabito prende 13 anni). Mentre Antonio Paolo, Antonio Marchi, Mariano Veneruso, Giuseppe Bruno, Antonio Rodà e E. R. scelgono il rito normale.

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”Non lasciate che siano i clan a dar lavoro ai miei ragazzi”

Sulla credibilità sello Stato come arma per la lotta alla mafia ne abbiamo detto, letto e non smetteremo di ripeterlo. Ma le parole di Immacolata sono da stampare a memoria:

Non lasciate che siano i clan a dar lavoro ai miei ragazzi”. E’ l’appello lanciato allo Stato, dalle pagine de L’Espresso, da Immacolata Mancusosorella di Pantaleone “Luni” Mancuso, detto “Scarpuni“, sottoposto al carcere duro del 41 bis e considerato il capo dell’omonima cosca che opera a Limbadi, nel vibonese ed ha diramazioni in tutta Italia.

La donna è fuggita dalla Calabria per salvare i figli e tenerli lontani dalla ‘ndrangheta. “Lo Stato – ha detto la donna al settimanale – dice di andare contro la mafia. Noi lo facciamo, ma allo stesso tempo non ci tende la mano per vivere meglio, perché ci riempie di tasse e non offre alcuna possibilità ai giovani di lavorare. In questo modo la mafia ha il sopravvento. I ragazzi vengono attratti dal denaro facile e così rischiano di finire nella rete dei mafiosi. È per questo che chiedo aiuto. Qualcuno intervenga a salvare mio figlio come pure tanti altri giovani che sono nelle sue condizioni: c’è un’intera generazione che non trova lavoro e rischia di finire nelle mani di chi vive nel crimine“.

La donna ricorda anche l’omicidio di Nicolino “Cocò” Campolongo, il bambino di tre anni ucciso e bruciato a Cassano allo Ionio (Cosenza) insieme al nonno ed alla compagna di quest’ultimo. “Mi chiedo – ha detto – con quale coraggio si può arrivare ad ammazzare un bambino. Questa mafia è uno schifo. Purtroppo nessuno parla. Tutti stanno in silenzio anche davanti ad una tragedia come quella di Cocò. La gente si sarebbe dovuta rivoltare ma purtroppo non è accaduto e nulla si farà. La maggioranza dei calabresi non cambia, continua a credere in questi assassini. La mafia fa più schifo di prima. Quella che conoscevo da bambina, perché in famiglia ne sentivo parlare, era collegata tutta a ‘don Ciccio’, mio zio Francesco, ricercato dai carabinieri ma considerato dalla gente un benefattore perché dava lavoro a tutti”. “Basta – ha concluso Immacolata Mancuso – con slogan e dichiarazioni. Ce ne sono tanti, come la targa fatta sistemare dalla Regione davanti all’ingresso del municipio di Limbadi. C’è scritto: ‘qui la mafia non entra’. Ma come, tutti sanno che è già entrata in quel Comune grazie a mio zio che ha fatto assumere alcune persone che ancora oggi sono in servizio. Come pure gli edifici confiscati che poi vengono abbandonati. C’è una villa accanto al municipio che è stata confiscata ma è completamente abbandonata e devastata dai vandali: questi scempi fanno perdere fiducia nelle istituzioni“.

Terroni e fili spinati

So che ultimamente lo sto citando spesso ma non posso che essere d’accordo con quanto scrive oggi Alessandro:

Ma a me il ritorno agli stati nazionali dell’Ottocento – confini, muri, chiusure, fili spinati, gente che urla contro lo straniero – fa un po’ sorridere: mi sembra un tentativo di fermare il mare con le mani. Le tecnologie ci portano ogni giorno di più nella casa comune, i ragazzi vanno all’estero con l’Erasmus e non solo, questo straccio di post lo possono leggere pure in un cyberbar di Dakar.

Insomma non è cosa.

La scommessa semmai è provare a fare, gestire e governare in modo umanista l’altra cosa, cioè lo stare insieme. E mai come adesso mi vengono in mente i rompiscatole che di sovranità democratica transnazionale parlano da anni, ma anche gli utopisti tipo Jacque Fresco, Emery Reves o Daisaku Ikeda: gente che oggi vediamo come strampalata, domani chissà.

Bobo Maroni: razzista (e imbecille) a comando

Interior Minister Roberto Maroni puts hi«La Svizzera non può considerare i lavoratori lombardi come dei topi. Sono dei lavoratori che operano oltre confine, hanno una dignità che va rispettata». 

La frase è di Roberto Maroni e questa volta gli sporchi terroni sono gli italiani che in Svizzera vorrebbero stessero a casa loro. Senza entrare nella complessa questione dei frontalieri (che abbiamo seguito e approfondito già dalla scorsa legislatura in veste tutta politica in Consiglio Regionale) la dichiarazione di Maroni rasenta l’imbecillità del credo leghista che frana davanti agli interessi elettorali. Leghisti al contrario con il culo degli altri. Roba da funamboli. O da imbecilli. O da leghisti.