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Giulio Cavalli

I lager nascono facendo finta di nulla. La lezione di Primo Levi.

Levi come ricorda la promulgazione delle leggi razziali?
Non è stata una sorpresa quello che è avvenuto nell’estate del ’38. Era luglio quando uscì Il manifesto della razza, dove era scritto che gli ebrei non appartenevano alla razza italiana. Tutto questo era già nell’aria da tempo, erano già accaduti fatti antisemiti, ma nessuno si immaginava a quali conseguenze avrebbero portato le leggi razziali. Io allora ero molto giovane, ricordo che si sperò che fosse un’eresia del fascismo, fatta per accontentare Hitler. Poi si è visto che non era così. Non ci fu sorpresa, delusione sì, con grande paura sin dall’inizio mitigata dal falso istinto di conservazione: “Qui certe cose sono impossibili”. Cioè negare il pericolo.

Che cosa cambiò per lei da quel momento?
Abbastanza poco, perché una disposizione delle leggi razziali permetteva che gli studenti ebrei, già iscritti all’università, finissero il corso. Con noi c’erano studenti polacchi, cecoslovacchi, ungheresi, perfino tedeschi che, essendo già iscritti al primo anno, hanno potuto laurearsi. È esattamente quello che è accaduto al sottoscritto.

Lei si sentiva ebreo?
Mi sentivo ebreo al venti per cento perché appartenevo a una famiglia ebrea. I miei genitori non erano praticanti, andavano in sinagoga una o due volte all’anno più per ragioni sociali che religiose, per accontentare i nonni, io mai. Quanto al resto dell’ebraismo, cioè all’appartenenza a una certa cultura, da noi non era molto sentita, in famiglia si parlava sempre l’italiano, vestivamo come gli altri italiani, avevamo lo stesso aspetto fisico, eravamo perfettamente integrati, eravamo indistinguibili.

C’era una vita delle comunità ebraiche?
Sì anche perché le comunità erano numerose, molto più di ora. Una vita religiosa, naturalmente, una vita sociale e assistenziale, per quello che era possibile, fatta da un orfanotrofio, una scuola, una casa di riposo per gli anziani e per i malati. Tutto questo aggregava gli ebrei e costituiva la comunità. Per me non era molto importante.

Quando Mussolini entrò in guerra, lei come la prese?
Con un po’ di paura, ma senza rendermi conto, come del resto molti miei coetanei. Non avevamo un’educazione politica. Il fascismo aveva funzionato soprattutto come anestetico, cioè privandoci della sensibilità. C’era la convinzione che la guerra l’Italia l’avrebbe vinta velocemente e in modo indolore. Ma quando abbiamo cominciato a vedere come erano messe le truppe che andavano al fronte occidentale, abbiamo capito che finiva male.

Sapevate quello che stava accadendo in Germania?
Abbastanza poco, anche per la stupidità, che è intrinseca nell’uomo che è in pericolo. La maggior parte delle persone quando sono in pericolo invece di provvedere, ignorano, chiudono gli occhi, come hanno fatto tanti ebrei italiani, nonostante certe notizie che arrivavano da studenti profughi, che venivano dall’Ungheria, dalla Polonia: raccontavano cose spaventose. Era uscito allora un libro bianco, fatto dagli inglesi, girava clandestinamente, su cosa stava accadendo in Germania, sulle atrocità tedesche, lo tradussi io. Avevo vent’anni e pensavo che, quando si è in guerra, si è portati a ingigantire le atrocità dell’avversario. Ci siamo costruiti intorno una falsa difesa, abbiamo chiuso gli occhi e in tanti hanno pagato per questo.

Come ha vissuto quel tempo fino alla caduta del fascismo?
Abbastanza tranquillo, studiando, andando in montagna. Avevo un vago presentimento che l’andare in montagna mi sarebbe servito. È stato un allenamento alla fatica, alla fame e al freddo.

E quando è arrivato l’8 settembre?
Io stavo a Milano, lavoravo regolarmente per una ditta svizzera, ritornai a Torino e raggiunsi i miei che erano sfollati in collina per decidere il da farsi.

La situazione con l’avvento della Repubblica sociale peggiorò?
Sì, certo, peggiorò quando il Duce, nel dicembre ’43, disse esplicitamente, attraverso un manifesto, che tutti gli ebrei dovevano presentarsi per essere internati nei campi di concentramento.

Cosa fece?
Nel dicembre ’43 ero già in montagna: da sfollato diventai partigiano in Val d’Aosta. Fui arrestato nel marzo del ’44 e poi deportato.

Lei è stato deportato perché era partigiano o perché era ebreo?
Mi hanno catturato perché ero partigiano, che fossi ebreo, stupidamente, l’ho detto io. Ma i fascisti che mi hanno catturato lo sospettavano già, perché qualcuno glielo aveva detto, nella valle ero abbastanza conosciuto. Mi hanno detto: “Se sei ebreo ti mandiamo a Carpi, nel campo di concentramento di Fossoli, se sei partigiano ti mettiamo al muro”. Decisi di dire che ero ebreo, sarebbe venuto fuori lo stesso, avevo dei documenti falsi che erano mal fatti.

Che cos’è un lager?
Lager in tedesco vuol dire almeno otto cose diverse, compreso i cuscinetti a sfera. Lager vuol dire giaciglio,vuoldireaccampamento,vuoldireluogo in cui si riposa, vuol dire magazzino, ma nella terminologia attuale lager significa solo campo di concentramento, è il campo di distruzione.

Lei ricorda il viaggio verso Auschwitz?
Lo ricordo come il momento peggiore. Ero in un vagone con cinquanta persone, c’erano anche bambini e un neonato che avrebbe dovuto prendere il latte, ma la madre non ne aveva più, perché non si poteva bere, non c’era acqua. Eravamo tutti pigiati. Fu atroce. Abbiamo percepito la volontà precisa, malvagia, maligna, che volevano farci del male. Avrebbero potuto darci un po’ d’acqua, non gli costava niente. Questo non è accaduto per tutti i cinque giorni di viaggio. Era un atto persecutorio. Volevano farci soffrire il più possibile.

Come ricorda la vita ad Auschwitz?
L’ho descritta in Se questo è un uomo. La notte, sotto i fari, era qualcosa di irreale. Era uno sbarco in un mondo imprevisto in cui tutti urlavano. I tedeschi creavano il fracasso a scopo intimidatorio. Questo l’ho capito dopo, serviva a far soffrire, a spaventare per troncare l’eventuale resistenza, anche quella passiva. Siamo stati privati di tutto, dei bagagli prima, degli abiti poi, delle famiglie subito.

Esistono lager tedeschi e russi. C’è qualche differenza?
Per mia fortuna non ho visto i lager russi, se non in condizioni molto diverse, cioè in transito durante il viaggio di ritorno, che ho raccontato nel libro La tregua. Non posso fare un confronto. Ma per quello che ho letto non si possono lodare quelli russi: hanno avuto un numero di vittime paragonabile a quelle dei lager tedeschi, ma per conto mio una differenza c’era, ed è fondamentale: in quelli tedeschi si cercava la morte, era lo scopo principale, erano stati costruiti per sterminare un popolo, quelli russi sterminavano ugualmente ma lo scopo era diverso, era quello di stroncare una resistenza politica, un avversario politico.

Che cosa l’ha aiutata a resistere nel campo di concentramento?
Principalmente la fortuna. Non c’era una regola precisa, visibile, che faceva sopravvivere il più colto o il più ignorante, il più religioso o il più incredulo. Prima di tutto la fortuna, poi a molta distanza la salute e proseguendo ancora, la mia curiosità verso il mondo intero, che mi ha permesso di non cadere nell’atrofia, nell’indifferenza. Perdere l’interesse per il mondo era mortale, voleva dire cadere, voleva dire rassegnarsi alla morte.

Come ha vissuto ad Auschwitz?
Ero nel campo centrale, quello più grande, eravamo in dieci-dodici mila prigionieri. Il campo era incorporato nell’industria chimica, per me è stato provvidenziale perché io sono laureato in Chimica. Ero non Primo Levi ma il chimico n. 4517, questo mi ha permesso di lavorare negli ultimi due mesi, quelli più freddi, dentro a un laboratorio. Questo mi ha aiutato a sopravvivere. C’erano due allarmi al giorno: quando suonava la prima sirena, dovevo portare tutta l’apparecchiatura in cantina, poi, quando suonava quella di cessato allarme, dovevo riportare di nuovo tutto su.

Lei ha scritto che sopravvivevano più facilmente quelli che avevano fede.
Sì, questa è una constatazione che ho fatto e che in molti mi hanno confermato. Qualunque fede religiosa, cattolica, ebraica o protestante, o fede politica. È il percepire se stessi non più come individui ma come membri di un gruppo: “Anche se muoio io qualcosa sopravvive e la mia sofferenza non è vana”. Io, questo fattore di sopravvivenza non lo avevo.

È vero che cadevano più facilmente i più robusti?
È vero. È anche spiegabile fisiologicamente: un uomo di quaranta-cinquanta chili mangia la metà di un uomo di novanta, ha bisogno di metà calorie, e siccome le calorie erano sempre quelle, ed erano molto poche, un uomo robusto rischiava di più la vita. Quando sono entrato nel lager pesavo 49 chili, ero molto magro, non ero malato. Molti contadini ebrei ungheresi, pur essendo dei colossi, morivano di fame in sei o sette giorni.

Che cosa mancava di più: la facoltà di decidere?
In primo luogo il cibo. Questa era l’ossessione di tutti. Quando uno aveva mangiato un pezzo di pane allora venivano a galla le altre mancanze, il freddo, la mancanza di contatti umani, la lontananza da casa…

La nostalgia, pesava di più?
Pesava soltanto quando i bisogni elementari erano soddisfatti. La nostalgia è un dolore umano, un dolore al di sopra della cintola, diciamo, che riguarda l’essere pensante, che gli animali non conoscono. La vita del lager era animalesca e le sofferenze che prevalevano erano quelle delle bestie. Poi venivamo picchiati, quasi tutti i giorni, a qualsiasi ora. Anche un asino soffre per le botte, per la fame, per il gelo e quando, nei rari momenti, in cui capitava che le sofferenze primarie, accadeva molto di rado, erano per un momento soddisfatte, allora affiorava la nostalgia della famiglia perduta. La paura della morte era relegata in secondo ordine. Ho raccontato nei miei libri la storia di un compagno di prigionia condannato alla camera gas. Sapeva che per usanza, a chi stava per morire, davano una seconda razione di zuppa, siccome avevano dimenticato di dargliela, ha protestato: “Ma signor capo baracca io vado nella camera a gas quindi devo avere un’altra porzione di minestra”.

Lei ha raccontato che nei lager si verificavano pochi suicidi: la disperazione non arrivava che raramente alla autodistruzione.
Sì, è vero, ed è stato poi studiato da sociologi, psicologi e filosofi. Il suicidio era raro nei campi, le ragioni erano molte, una per me è la più credibile: gli animali non si suicidano e noi eravamo animali intenti per la maggior parte del tempo a far passare la fame. Il calcolo che quel vivere era peggiore della morte era al di là della nostra portata.

Quando ha saputo dell’esistenza dei forni?
Per gradi, ma la parola crematorio è una delle prime che ho imparato appena arrivato nel campo, ma non gli ho dato molta importanza perché non ero lucido, eravamo tutti molto depressi. Crematorio, gas, sono parole che sono entrate subito nelle nostra testa, raccontate da chi aveva più esperienza. Sapevamo dell’esistenza degli impianti con i forni a tre o quattro chilometri da noi. Io mi sono esattamente comportato come allora quando ho saputo delle leggi razziali: credendoci e poi dimenticando. Questo per necessità, le reazioni d’ira erano impossibili, era meglio calare il sipario e non occuparsene.

Poi arrivarono i russi e fu la libertà. Come ricorda quel giorno?
Il giorno della liberazione non è stato un giorno lieto perché per noi è avvenuto in mezzo ai cadaveri. Per nostra fortuna i tedeschi erano scappati senza mitragliarci, come hanno fatto in altri lager. I sani sono stati ri-deportati. Da noi sono rimasti solo gli ammalati e io ero ammalato. Siamo stati abbandonati, per dieci giorni, a noi stessi, al gelo, abbiamo mangiato solo quelle poche patate che trovavamo in giro. Eravamo in ottocento, in quei dieci giorni seicento sono morti di fame e freddo, quindi, i russi mi hanno trovato vivo in mezzo a tanti morti.

Questa esperienza ha cambiato la sua visione del mondo?
Penso di sì, anche se non ho ben chiara quale sarebbe stata la mia visione del mondo se non fossi stato deportato, se non fossi ebreo, se non fossi italiano e così via. Questa esperienza mi ha insegnato molte cose, è stata la mia seconda università, quella vera. Il lager mi ha maturato, non durante ma dopo, pensando a tutto quello che ho vissuto. Ho capito che non esiste né la felicità, né l’infelicità perfetta. Ho imparato che non bisogna mai nascondersi per non guardare in faccia la realtà e sempre bisogna trovare la forza per pensare.

Grazie, Levi.
Biagi, grazie a lei.

Da Il Fatto Quotidiano del 26 gennaio 2014

Fare peggio del porcellum

Sembrava impossibile e invece secondo alcuni autorevoli costituzionalisti sarebbe così:

La proposta, spiegano, “consiste sostanzialmente, con pochi correttivi, in una riformulazione della vecchia legge elettorale – il cosiddetto Porcellum – e presenta perciò vizi analoghi a quelli che di questa hanno motivato la dichiarazione di incostituzionalità ad opera della recente sentenza della Corte costituzionale”. La Consulta aveva sottolineato la “lesione dell’uguaglianza del voto e della rappresentanza politica” determinata dal premio di maggioranza del Porcellum; nell’Italicum, si “introduce una soglia minima, ma stabilendola nella misura del 35% dei votanti e attribuendo alla lista che la raggiunge il premio del 53% dei seggi rende insopportabilmente vistosa la lesione dell’uguaglianza dei voti e del principio di rappresentanza lamentata dalla Corte”. Senza contare, aggiungono i costituzionalisti, che “in presenza di tre schieramenti politici ciascuno dei quali può raggiungere la soglia del 35%, le elezioni si trasformerebbero in una roulette”.

Inoltre il secondo profilo di illegittimità del Porcellum “consisteva nella mancata previsione delle preferenze”. Il medesimo vizio è presente anche nell’attuale proposta di riforma, nella quale “parimenti sono escluse le preferenze, pur prevedendosi liste assai più corte. La designazione dei rappresentanti è perciò nuovamente riconsegnata alle segreterie dei partiti. Viene così ripristinato lo scandalo del Parlamento di nominati”.

I costituzionalisti sottolineano poi “un altro fattore che aggrava” ulteriormente la situazione: le soglie di sbarramento. Se il Porcellum incostituzionale “richiede per l’accesso alla rappresentanza parlamentare almeno il 2% alle liste coalizzate e almeno il 4% a quelle non coalizzate, l’attuale proposta richiede il 5% alle liste coalizzate, l’8% alle liste non coalizzate e il 12% alle coalizioni”. Questo comporterà la “probabile scomparsa dal Parlamento di tutte le forze minori, di centro, di sinistra e di destra e la rappresentanza delle sole tre forze maggiori affidata a gruppi parlamentari composti interamente da persone fedeli ai loro capi”.

Insomma per i 27 esperti di diritto l’Italicum “consiste in una riedi¬zione del Porcellum, che da essa è sotto taluni aspetti – la fissazione di una quota minima per il premio di maggioranza e le liste corte – migliorato, ma sotto altri – le soglie di sbarramento, enormemente più alte – peggiorato”.

I costituzionalisti “esprimono il loro sconcerto e la loro protesta” per una proposta di legge che rischia una “nuova pronuncia di illegittimità da parte della Corte costituzionale e, ancor prima, un rinvio della legge alle Camere da parte del Presidente della Repubblica”

E anche le prime firme hanno nomi che contano:

I primi firmatari sono Gaetano Azzariti, Mauro Barberis, Michelangelo Bovero, Ernesto Bettinelli, Francesco Bilancia, Lorenza Carlassare, Paolo Caretti, Giovanni Cocco, Claudio De Fiores, Mario Dogliani, Gianni Ferrara, Luigi Ferrajoli, Angela Musumeci, Alessandro Pace, Stefano Rodotà, Luigi Ventura, Massimo Villone, Ermanno Vitale. Hanno sottoscritto anche Pietro Adami, Anna Falcone, Giovanni Incorvati, Raniero La Valle, Roberto La Macchia, Domenico Gallo, Fabio Marcelli, Valentina Pazè, Paolo Solimeno. Per aderire inviare una mail a perlademocraziacostituzionale@gmail.com

Intanto spuntano le candidature multiple

Sono perfettamente d’accordo con Alessandro Gilioli (ma anche Pippo Civati e la “renziana” Cristiana Alicata, per dire) sulla vergogna delle candidature multiple all’interno della nuova legge elettorale. Per questo firmo e vi invito a firmare l’appello qui:

Nella discussione sulla riforma elettorale in corso alla Camera il Nuovo Centro Destra di Angelino Alfano vuole inserire, all’interno dei listini bloccati, la possibilità che una stessa persona si candidi in più circoscrizioni, cioè appunto in più listini bloccati.

Questa ipotesi ha già ottenuto il placet di Forza Italia ed è ora sul tavolo della possibile mediazione con le altre forze politiche.

Aldilà di qualsiasi valutazione sul resto della proposta Italicum, la candidatura plurima è inaccettabile e vergognosa.

Essa ha scopi ed effetti evidenti, per quanto indicibili da chi la propone.

Primo, serve a garantire alla lista l’effetto civetta: si mette il nome noto e popolare in alto per trascinare il simbolo, anche se questo nome noto poi opterà per un altro collegio; si inganna quindi l’elettore, facendogli credere di essere rappresentato da una persona che in realtà rappresenterà altri.

Secondo, serve a conservare la poltrona in Parlamento ai big: con l’attuale sistema di redistribuzione dei seggi, i big dei partiti temono che alla fine l’elezione di un loro parlamentare scatti in collegi in cui loro non si sono presentati; quindi – per non rischiare – preferiscono candidarsi in più posti.

Terzo, serve ad aumentare il potere dei segretari e dei vertici: che con la loro opzione (cioè con la loro scelta sulle circoscrizioni in cui lasciare il posto al candidato successivo) possono cooptare ulteriormente gli ‘yes men’ a loro più vicini.

Quarto, serve a portar dentro gli amici impresentabili: li si mette al quarto o quinto posto nel listino in modo che non risaltino e poi, con il meccanismo delle opzioni, questi amici impresentabili entrano in Parlamento.

I firmatari di questo appello, pur nella loro diversità per visione politica e nel giudizio complessivo sull’Italicum, chiedono con la massima decisione a tutte le forze politiche e a tutti i parlamentari che questa proposta vergognosa venga bloccata sul nascere.

“Profonda sintonia”

Caris­sime com­pa­gne e compagni,

Mi dispiace che i miei nume­rosi impe­gni non mi hanno per­messo di essere con voi nell’inaugurazione del vostro con­gresso. Il vostro con­gresso si svolge in un momento molto cri­tico per la nostra casa comune: l’Europa. Un’Europa che dopo un periodo ven­ten­nale di con­senso neo­li­be­rale è stata chia­mata di pagare il prezzo della recessione.

Per almeno quat­tro anni l’Europa del Sud è distrutta da una dura ed inu­mana poli­tica neo­li­be­rale, che ha fatto esplo­dere la disoc­cu­pa­zione a livelli record, ha impo­ve­rito gran parte della popo­la­zione, ha distrutto i diritti poli­tici, sociali, eco­no­mici e del lavoro che fino a ieri ave­vano con­si­de­rato invio­la­bili. I governi e le isti­tu­zioni euro­pee hanno appli­cato le poli­ti­che più anti­de­mo­cra­ti­che e anti­so­ciali dopo la guerra, col­la­bo­rando con avidi ban­chieri e spe­cu­la­tori dei mercati.

Quante gene­ra­zioni di ita­liani, greci, spa­gnoli, por­to­ghesi e irlan­desi dovremmo sacri­fi­care per pagare debiti impa­ga­bili, di rag­giun­gere impos­si­bili aggiu­sta­menti di bilan­cio e di sven­dere la nostra ric­chezza sociale a quelli che cer­cano di farci annul­lare qual­siasi dignità?

Milioni di per­sone pen­sano che la rispo­sta a que­sto mas­sa­cro sociale si trova nel ritorno al pas­sato, nelle trin­cee e nei sim­boli nazio­nali. Il nazionalismo,il raz­zi­smo, la xeno­fo­bia e il fasci­smo ritor­nano cer­cando di appiat­tire i migliori valori che abbiamo fatto sor­gere nel nostro con­ti­nente: l’umanismo, la soli­da­rietà e la giu­sti­zia sociale.

È arri­vato il momento di cam­biare que­sta Europa. È arri­vato il momento di rico­struire que­sta Europa.

Caris­sime com­pa­gne e compagni,

Voi sapete che il Par­tito della Sini­stra Euro­pea mi ha pro­po­sto come can­di­dato pre­si­dente della Com­mis­sione Europea.

La pro­po­sta pre­sen­tata da un gruppo di per­so­na­lità per una aperta e senza esclu­sioni unità della sini­stra e delle forze vive della società e degli intel­let­tuali rap­pre­senta una seria pos­si­bi­lità per cam­biare gli equi­li­bri nell’Europa del Sud e in gene­rale in Europa.

In Gre­cia abbiamo ten­tato di dare già una rispo­sta alla crisi pro­po­nendo l’unità delle forze, dei cit­ta­dini e dei movi­menti della sini­stra e non solo. Con grande umiltà stiamo accanto a tutti quelli che col­pi­scono le poli­ti­che neo­li­be­rali e lot­tiamo per non lasciare nes­suno solo di fronte alla crisi.

Il per­corso di Syriza in Gre­cia ci ha inse­gnato che l’unità della sini­stra con i movi­menti e i cit­ta­dini che sono col­piti dalla crisi rap­pre­senta il miglior lie­vito per il rovesciamento.

Vi auguro di cuore che il vostro con­gresso rap­pre­senti un punto di svolta nel ten­ta­tivo per la più ampia unità pos­si­bile delle forze della sini­stra e della società civile.

Dob­biamo fare tutti insieme un passo indie­tro per muo­vere insieme tanti passi in avanti por­tando nel Par­la­mento Euro­peo la rab­bia, il dolore, la resi­stenza e le pro­po­ste di tutti coloro che cer­cano di emar­gi­nare la crisi, il neo­li­be­ri­smo e il popu­li­smo. Dob­biamo por­tare il mes­sag­gio della costru­zione dell’Europa dei vec­chi e nuovi cittadini.

Cam­bie­remo l’Europa.

Con i miei saluti da compagno

Atene, 25.01.2014

Ale­xis Tsipras

Pre­si­dente di Syriza e vice­pre­si­dente del par­tito della Sini­stra europea

L’interrogatorio senza giustizia (sul caso Uva)

Vi prego di guardare questo video. Il Pubblico Ministero Agostino Abate (che conduce in modo molto discutibile questo interrogatorio) ha già subito provvedimenti dal Ministero di Grazia e Giustizia. Al testimone Alberto Biggiogero e alla famiglia Uva qualcuno dovrebbe dare delle risposte. Opinione pubblica in primis.

Mastrapasqua e la disarticolazione di un Paese attraverso l’avidità

Ma come possiamo parlare di politica in un Paese in cui il presidente dell’INPS che ha altri venticinque incarichi (25!) sia indagato di reati gravi senza nemmeno  una riflessione sulla sua voracità e sulla credibilità fondamentale per l’ente che presiede?antonio-mastrapasqua-640

Cartelle cliniche truccate per gonfiare i rimborsi, all’ospedale Israelitico di Roma diretto da Antonio Mastrapasqua. Il presidente dell’Inps, che ha all’attivo 25 incarichi, è indagato dalla procura di Roma per la sua attività da direttore generale nell’ospedale della Capitale. Lo anticipa il quotidiano La Repubblica, che quantifica in 12.164, le schede di dismissione “taroccate” alla regione Lazio per ottenere “13,8 milioni di euro di rimborsi non dovuti”, a cui si sommano “71,3 milioni di euro” di presunto “vantaggio patrimoniale”. L’indagine è partita dalla denuncia del Nas di Roma del 16 settembre 2013. Ci sono casi di cartelle falsificate in cui le estrazioni dei denti sono state classificate in qualche caso come costosissime plastiche gengivali con innesto di osso. Particolare non trascurabile visto che la clinica non risulta accreditata col Servizio sanitario per odontoiatria, quindi non può esigere il rimborso delle prestazioni ambulatoriali erogate in quel reparto. Lo può fare invece per ortopedia.

Il presidente Inps si giustifica attraverso una nota ufficiale: “Si precisa che l’inchiesta è stata avviata anche grazie all’impulso dato in passato dallo stesso Mastrapasqua e quindi ha proprio la finalità di far chiarezza ed individuare eventuali responsabili di condotte penalmente rilevanti. Nessun rilievo o interesse assumono nell’indagine il ruolo di presidente dell’Inps del dott. Mastrapasqua né tantomeno quello di Direttore Generale dell’Ospedale Israelitico in quanto i fatti ipotizzati attengono a condotte che sarebbero state poste in essere da alcuni dirigenti sanitari e non afferiscono né all’Inps né all’Ospedale Israelitico come struttura sanitaria di rinomata efficienza e professionalità; entrambe ingiustamente colpite dalla diffusione di questa notizia”.

Sempre il solito, inguaribile Ortomercato di Milano e le mafie

Questa volta c’è un Prefetto che avverte la Commissione Parlamentare Antimafia senza remore o negazionismi con una relazione di cinquantasei pagine consegnata alla Presidente Rosy Bindi e ai membri di Commissione. Nomi e cognomi che sono sempre gli stessi che continuano a circolare da decenni cambiando al massimo di una generazione raccontando benissimo come l’attività investigativa e giudiziaria non bastino per estirpare ma al massimo a “cogliere”. Il Comune di Milano ha tutti i saperi a disposizione per segnare un cambio di rotta forte e deciso e, come continua a ricordare Pisapia, una “legalizzazione” dell’Ortomercato sarebbe un successo per la città. E noi ce lo aspettiamo anzi: lo pretendiamo. Ne scrive Davide Milosa:

 Nelle 56 pagine della relazione consegnata a deputati e senatori arrivati in trasferta sotto al Duomo il 13 dicembre 2013, viene dedicato ampio spazio al rischio d’infiltrazione mafiosa all’interno dell’Ortomercato definito un “centro particolarmente esposto agli interessi dei clan”. Di più: l’infrastruttura che per la distribuzione alimentare copre un bacino di utenza di circa 10 milioni di abitanti, è “un terreno d’elezione dominato dalle diverse espressioni della mafia siciliana (in particolare quella gelese) con la quale, negli anni, hanno collaborato anche clan della camorra e cosche della ‘ndrangheta”. Da questo ragionamento emerge il dato inquietante della presenza di alcune società di movimento terra delle famiglie Trimboli e Catanzariti a loro volta legate alla cosca Barbaro di Platì che da anni pianifica i suoi affari criminali da ville e bar del comune di Buccinasco. Mafia di altisismo livello. Tanto che una recente indagine della Dda milanese ha indicato in Rocco Barbaro, detto u Sparitu, il nuovo referente della ‘ndrangheta in Lombardia.

La vicenda segnalata dal Prefetto al presidente della commissione Rosi Bindi emerge dopo un mirato controllo della Dia nel cantiere del nuovo mercato avicunicolo aperto nel Lotto 3 di via Lombroso esattamente contiguo a quello ittico. L’appalto viene vinto il 17 settembre dalla società Christan Color. Il 23 ottobre Sogemi consegna il cantiere. Quindici giorni dopo si presentano gli investigatori della Direzione investigativa antimafia. In mano hanno un decreto del Prefetto, datato 6 novembre 2013, che invita a eseguire controlli sui camion del movimento terra, settore dell’edilizia nel quale la ‘ndrangheta detiene il monopolio assoluto. Nel mirino così finiscono sei società di trasporti. Ma è su due che pesano forti sospetti di collegamenti con la criminalità organizzata. Alla base ci sono rapporti di affari tra alcuni trasportatori e gli uomini del clan, oltre a frequentazioni “rilevate nell’attività info-investigativa”. Una contiguità, ragiona il Prefetto, “desunta anche dalla presenza di automezzi su terreni nella disponibilità della suddetta famiglia”.

Con in mano questi dati, l’avvocato Stefano Zani, direttore generale di Sogemi, il 17 novembre 2013 decide di chiudere il cantiere. Contemporaneamente scrive all’azienda appaltatrice e alla Rial sas, titolare del subappalto per il movimento terra, intimando entrambe a non far entrare i camion delle sei aziende di trasporti. Quindi invia un esposto alla Procura di Milano “per gli accertamenti su eventuali profili penali”. Naturalmente Sogemi come anche Christian Color non hanno responsabilità nell’aver aperto le porte dell’Ortomercato ai mezzi delle cosche. Colpe, penalmente non rilevanti, potrebbero, invece, essere date alla Rial che da subappaltatrice affida il lavoro “di sbancamento, con carico e trasporto agli impianti di stoccaggio”, alle sei società finite sotto la lente dell’antimafia milanese. In particolare, ragiona Sogemi, la responsabilità di Rial è legata alla ritardata comunicazione delle imprese poi utilizzate per movimentare la terra. Da qui l’ipotesi di revocare alla stessa Rial i lavori. Revoca che potrebbe arrivare già la prossima settimana e potrebbe diventare operativa fra 15 giorni. Intanto negli uffici della Dia in via Mauro Macchi gli investigatori del capo centro Alfonso De Vito stanno ultimando le interdittive antimafia che riguarderanno due società di trasporti.

Insomma, al di là del caso particolare sulla cosca Barbaro, i Mercati generali restano un obiettivo prediletto dei clan. Tanto che spesso dal suo monitoraggio gli investigatori prendono spunto per inchieste che poi nulla hanno a che vedere con l’Ortomercato. E’ successo poche settimane fa per l’arresto di Antonio Papalia, classe ’75, fermato per droga e associazione mafiosa. Il suo nome emerge da un fascicolo poi archiviato aperto dalla Procura di Milano su alcuni episodi di estorsione all’interno della struttura di via Lombroso 54. Stesso civico al quale faceva riferimento fino al 2009 la società di agrumi di Antonio Piromalli, figlio del capo dei capi della ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro.

I Riina e la Puglia

Giusto oggi riflettevo sullo strano legame con la Puglia della famiglia Riina: partendo da Totò che nel carcere di Opera si lascia andare allegramente alle considerazioni con il boss della Sacra Corona Unita Lorusso fino ai viaggi “pugliesi” della sua famiglia. L’idea che Cosa Nostra sia un’entità separata da camorra, ‘ndrangheta e tutte le altre organizzazioni criminali orami è superata dagli studi, dai riscontri e anche nei fatti. Ne ha scritto un articolo come sempre intelligente e interessante Lirio Abbate per L’Espresso:

170908228-b858e71d-d78e-4881-b375-73cbf6cafb86La signora Ninetta Bagarella, sposa di Totò Riina, nei mesi scorsi ha fatto un giro nel Brindisino. Dopo aver abbracciato la figlia e i nipoti che si sono trasferiti in Puglia, è andata a salutare la moglie del capomafia Giuseppe Rogoli, uno dei fondatori della Sacra corona unita, in carcere per scontare tre ergastoli. Le due donne, secondo quello che risulta a “l’Espresso”, si incontrano a Mesagne, come se fosse una visita di cortesia, e conversano da vecchie amiche, accomunate dalla stessa passione: quella per i boss. La coincidenza vuole che sia pugliese pure la “dama di compagnia”, così viene chiamato nel gergo carcerario il detenuto che trascorre ogni giorno l’ora di socializzazione con i mafiosi al 41 bis. La “dama” di Riina è Angelo Lorusso, con un passato criminale insignificante, ma ben preparato sulla storia di Cosa nostra. Della mafia siciliana il pugliese conosce tutto. Lorusso stuzzica Riina durante le passeggiate nel cortile del carcere di Opera e lo aizza sui magistrati di Palermo, in particolare su quelli che sostengono l’accusa nel processo sulla trattativa fra mafia e Stato. Lo fa parlare delle stragi, a cominciare dalla morte del giudice Chinnici fino agli attentati contro Falcone e Borsellino, criticando anche il comportamento del latitante Matteo Messina Denaro che «pensa solo a se stesso» fino alla mancanza di coraggio dei mafiosi di oggi che non vogliono delitti eccellenti. Ma contro il pm Nino Di Matteo le affermazioni del boss sono pesantissime. Riina lo vorrebbe morto «come un tonno». Ma in libertà non ci sarebbe nessuno disposto a riprendere la stagione stragista dei corleonesi. Sarà così? Lorusso incalza molto Riina, facendogli fare affermazioni e rivelazioni su stragi e omicidi che per tre mesi sono state registrate da telecamere e microspie della Dia fatte piazzare dai pm. Si vedono i due parlare a lungo, appartati in un angolo in cui Riina e Lorusso credono di essere al riparo e quindi possono discorrere liberamente. Ma chi ha voluto che Lorusso diventasse la “dama” di Riina? La coppia sembra essere stata formata dal Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) dopo aver ricevuto l’indicazione del nome dalla Procura nazionale antimafia. Una prassi che si ripete per tutti i capimafia detenuti. Sarà forse una coincidenza, ma anche la “dama” precedente a Lorusso assegnata a Riina era un pugliese. L’unico detenuto al 41 bis che da quasi trent’anni si rifiuta di avere una compagnia è don Raffaele Cutolo, perché non gradisce i reclusi che gli vengono assegnati per la socializzazione. E da sempre trascorre la sua detenzione in completa solitudine. La procura di Caltanissetta sta indagando su queste minacce, contenute nelle conversazioni intercettate da settembre a novembre scorso. E il Dap nei giorni scorsi ha completato il parere per sottoporre Riina a un ulteriore restringimento del carcere duro previsto dal 41 bis, che lo porterà a un ulteriore isolamento: niente più “dama di compagnia” e niente più passeggiate per sei mesi. In passato allo stesso provvedimento sono stati sottoposti Bagarella e Provenzano. Il comportamento di Riina, con l’eco mediatica provocata dalle intercettazioni, ha creato negli ultimi mesi un clima tesissimo dentro il carcere di Opera. Lì il “capo dei capi” sembrava primeggiare su tutti e rispolverare un atteggiamento spavaldo da padrino, al punto da fargli rispuntare in viso il suo ghigno da “belva”: quello che illuminava il suo volto prima di lanciarsi sulla vittima designata, descritto da tanti collaboratori di giustizia. Un’eccezione anomala. A Opera sono rinchiusi i più pericolosi criminali, ma a nessuno è permesso avere lo stesso comportamento assunto da Riina.