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Giulio Cavalli

Turismo culturale, l’ossessione italiana

Se ne parla sempre, ovunque, dai convegni ai discorsi da bar: siamo un Paese che continua a sfoderare poco pochissimo quasi niente le proprie bellezze eppure i dati generali danno sempre l’impressione di essere poco più che pareri personali. Per questo vale la pena di leggere il dossier di GH NETwork, in attesa delle conversione in legge del decreto Cultura:

Godot

Siamo fermi, come sospesi, ad aspettare che ci dicano quando hanno deciso di smettere di aspettare per votare un procedimento che è già stabilito per legge (scritta e votata da loro, eh). Stiamo qui a leggere paginate di giornali sugli umori (raccontati ‘de relato’) del Cavaliere che ce l’ha oggi con Napolitano e domani con il PD. Sullo sfondo il Governo sfodera lo spread come spada di Damocle per non fare cadere il Governo parlando di ‘responsabilità’ come nemmeno Monti nei suoi momenti peggiori. La legge elettorale intanto è sempre la stessa, la crisi ci dicono che sia finita (come la storiella dei ristoranti sempre pieni) e non si registrano novità rilevanti nella quotidianità dei lavoratori e cittadini.

Perderebbe la pazienza anche Godot, a vedere un nostro tg.

Un completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto

Nella caserma di Bolzaneto, nei giorni successivi al G8 di Genova del 2001, il “clima” fu quello di un “completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione motiva così la sentenza emessa il 14 giugno scorso, a carico degli agenti imputati per le violenze sui no global.

“Furono negati cibo e acqua” ai giovani fermati. “Fu vietato loro anche di andare in bagno e dovettero urinarsi addosso”. Un “trattamento gravemente lesivo della dignità delle persone”. Accuse pesanti quelle scritte di giudici della Cassazione.

“Vessazioni continue e diffuse in tutta la struttura” quelle a cui vennero sottoposti i no global reclusi. Non si trattò di “momenti di violenza che si alternavano a periodi di tranquillità – osservano gli ‘ermellini’ – ma dell’esatto contrario”. Un clima violento che sfociò nella costrizione rivolta ai fermati di inneggiare al fascismo.

In quei giorni caldi di luglio, la caserma di Polizia di Bolzaneto si trasformò in un “carcere provvisiorio” dove lo Stato di diritto fu soffocato da “un’atmosfera di soverchiante ostilità” a cui tutti, o quasi tutti, gli agenti contribuirono distribuendo violenza fisica e psicologica su ogni recluso: “Non c’erano celle dove non volassero calci e pugni e schiaffi” al minimo tentativo di protesta.

La Cassazione punta il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi – scrivono i magistrati della Suprema corte – che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedere l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Cosa che non avvenne in quell’isola senza diritto in cui era stata trasformata la caserma di Bolzaneto.

A Castel Volturno ci si mangia la costa

In meno di dieci anni sono scomparsi oltre duecento metri di costa. Un’emergenza che nasconde dell’altro. Il mare risucchia la sabbia che “qualcuno” abusivamente ha prelevato altrove per costruire mega insediamenti. Parliamo delle grandi speculazioni edilizie, escavi abusivi per il “Villaggio Coppola” a Pinetamare o l’occultamento dei rifiuti gettati in buche e tompagnati. “La prima denuncia sul rischio di erosione della costa di Bagnara, a Pascopagano, risale al 2007 – riflettono Ciro Scocca e Anna De Vita di “Res Volturno”, associazione molto combattiva e concretamente anticamorra – da allora è stato un susseguirsi di segnalazioni e sollecitazioni agli enti locali, alla regione Campania e a vari organi di competenza. Purtroppo senza risultato”. I commissari straordinari del comune di Castel Volturno non solo hanno aderito all’iniziativa ma hanno confezionato una nota (vedi protocollo 43193 del 5 settembre 2013) al presidente della Regione Campania Stefano Caldoro “…sarebbe auspicabile che Lei promuovesse, nell’ambito della programmazione regionale, un’azione tesa a contrastare tale fenomeno erosivo, con la realizzazione di opere di rifacimento e di difesa, affinché questo territorio con grandi potenzialità, sia turistiche che produttive, possa rinascere nella legalità e creare occupazione…”.

Lo scrive Arnaldo qui.

Due parole (che girano)

Mi sta piovendo addosso di tutto. Teniamo botta, per carità, ma sto ascoltando tutti (anche i più infimi) mentre aspetto che ascoltino il pentito Bonaventura. Non mi interessa né una scorta potenziata (“perché vuole fare il Saviano”, ha detto qualcuno senza sapere che so) e non mi interessa fare la vittima (mio dio, sono felicissimo e ho una vita che mi ripaga più di quanto merito senza bisogno di vittimismo). Nei prossimi giorni convocherò una conferenza stampa per dire quello che penso, in poche parole.

Ma una cosa una la voglio chiarire per chi ritaglia la rassegna stampa (con la testa china): Luigi Bonaventura ha parlato di un’opera di delegittimazione che qualche ufficiale (maschile/femminile) sta appoggiando con telefonate interurbane e, se Bonaventura sarà riscontrato, ne dovrà pagare le conseguenze. La maldicenza mentre un pentito parla di maldicenze è un rischio che determina responsabilità.

Sono disinteressato a codazzi di scorte ma interessatissimo agli ebeti. Anche istituzionali.

Boom!

A Pozzallo (RG) per l’ennesima volta nel mio lavoro ho incontrato ragazzi che mi insegnano l’entusiasmo. E, mi dicono, abbiamo fatto boom.

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Bisogna strappare erbacce, potare, dissodare, estirpare radici velenose, arare. Bisogna lavorarla, la terra della politica.

Il problema è che, purtroppo, la politica è arrivata ai suoi minimi storici, come professione consigliata.
Nessuno la augurerebbe a suo figlio. Chi la pratica si crea un circolo di complici & sodali, per potersi distaccare dal mondo, dalla realtà, dalla società. Sono tanti piccoli clan, con lingua e tradizioni autoctone, spesso inquinati dall’endogamia.

Io, in un certo senso, li capisco: non puoi essere guardato storto anche quando vai al cinema, a mangiare una pizza, a prendere un caffè. Li capisco, ma vorrei metterli in guardia. Questo guardarsi in cagnesco fra eletti ed elettori, questa frattura che si fa sempre più radicale fra la “polis” e il politico, è un rischio grave per la democrazia. Anzi, ormai, è una malattia. Per guarirla non basta innestare, nel terreno infestato da robusti cespugli di gramigna, un paio di fragili pianticelle della “società civile”, col rischio che non attecchiscano e il secco le faccia morire.

Bisogna strappare erbacce, potare, dissodare, estirpare radici velenose, arare. Bisogna lavorarla, la terra della politica. Seminare qualcosa di vero, qualcosa di nuovo. Idee, linguaggio, principi, progetti. Tutto. Bisogna bonificare, e poi ricominciare da zero. Non sarà facile né breve, ma, alla fine, saremo “società civile” tutti. Gente della città, gente della polis. Rappresentati e rappresentanti.

Lidia Ravera qui: una testa prestata (per fortuna) alla politica.

Soffiando via la polvere sulla mafia romana

Ne avevamo già parlato in occasione dell’ultimo pezzo di Pietro Orsatti e Silvia Cerami e ne parleremo nella prossima puntata di Radio Mafiopoli (che riprende questa settimana dopo la pausa estiva): a Roma le mafie invisibili cominciano a diventare tema di analisi e discussione anche “sociale”. Se ne parla all’aperitivo, se ne discute in famiglia e non di rado capita di scambiarsi due battute anche tra amici. Come se un vento soffice ma continuo stia cercando di sollevare la polvere su una (voluta?) confusione tra bande e omicidi lasciando troppo spesso da parte la criminalità organizzata. Per questo oggi vale la pena approfondire con l’intervista di Alessandro Ambrosini ad una fonte (per ora) anonima:

Nasce tutto dall’operazione Maya, quando da fonte confidenziale ci arrivò l’informazione che c’era uno squilibrio a livello criminale nel narcotraffico ad Ostia. E’ l’estate 2002 e la soffiata parlava di possibili omicidi tra i gruppi malavitosi del litorale. Noi della Polaria,con la squadra mobile di Roma, decidemmo di puntare i fari sulla famiglia Triassi richiedendo la possibilità di intercettare, con sistemi ambientali e non, alcuni personaggi con la scusa di indagare nell’ ambito della sparizione di Santo Cardarella (elemento di spicco di Cosa Nostra, collettore della cosca Cuntrera-Caruana ndr). Motivazione questa che ci permetteva di avere le autorizzazioni in modo veloce visto che si trattava di un latitante (per cui serve solo l’autorizzazione del Pm e non anche del Gip). A quel tempo, a capo della Dna di Roma c’era De Fichy che, come ci dissero, negò l’autorizzazione per un motivo burocratico legato alla competenza territoriale.Ma questo rimane un mistero visto che il mandato di cattura per Santo cardarella era in carico alla sezione narcotici di Roma.

Ma…
Ma noi non ci fermammo al primo no. Chiusa questa operazione con un nulla di fatto continuammo ad attenzionare la famiglia Triassi sempre sulle basi della fonte confidenziale chiedendo ancora gli strumenti intercettivi per monitorare la situazione. La mattina dell’omicidio Frau Cito Blaiotta ci negò le intercettazioni. Nel pomeriggio, verso le 15, ammazzarono Paolo Frau e in serata “avevamo tutto acceso” sui telefoni che avevamo chiesto di mettere sotto controllo un mese prima. 
Probabilmente, se i telefoni fossero stati autorizzati al controllo quando l’avevamo chiesto, forse, si poteva prevenire o per lo meno avere una pista certa da seguire per scoprire chi aveva commesso il delitto e l’ambiente in cui era maturato. Pista che, successivamente, sembra sia stata trovata visto che, dopo l’omicidio. la prima telefonata effettuata da casa Frau fu fatta in Costarica a tale Luigi Vit. Persona che ritorna nell’operazione Alba Nuova all’interno del sodalizio criminale insieme a Giacometti Roberto e ai defunti Emidio Salomone, Giovanni Galleoni, Francesco Antonini e Luigi Crialesi. A quel tempo noi della Polaria eravamo aggregati alla sezione narcotraffico della Squadra Mobile di Roma e iniziammo con i colleghi una serie di accertamenti, seguivamo perciò un filone dell’indagine. Contemporaneamente la sezione criminalità organizzata, sempre della Squadra Mobile romana, indagava sull’omicidio Frau. 
Due indagini diverse ma che avevano protagonisti gli stessi uomini quindi
Si, noi proseguimmo sulla pista che già seguivamo mentre la sezione criminalità organizzata iniziò ad attenzionare e a fare sequestri nei confronti di quelli che nella nostra squadra chiamavamo “vecchi coatti”. Dopo una serie di accertamenti ci accorgiamo che iniziano ad evidenziarsi molte società di spedizioni,chioschi,gestione delle spiagge e dei parcheggi amministrate da prestanomi. Tutte situazioni di cui però non potevamo indagare sia come Polaria sia come Squadra Mobile. 
Una pista che poteva riguardare il Gico della Guardia di Finanza, certamente non voi. Ma torniamo all’omicidio Frau. 
E infatti noi cercammo di coinvolgere il Gico ma in una riunione con Failla, il capo della sezione criminalità organizzata,dove chiedevamo gli accertamenti su Modica Amore ( moglie di Santo Cardarella) lui fece capire chiaramente che non aveva intenzione di “mettere” in mezzo i militari della Guardia di Finanza “perchè non voleva dividere niente con nessuno” Si, c’è un lato sconvolgente nelle indagini sulla morte di Frau, un lato che però va evidenziato ritornando su chi era la vittima. Paolo Frau era il braccio destro di Danilo Abbruciati, tanto che anche suo figlio porta il nome del boss di Testaccio. E’ anche colui che, sebbene non risulti dalle carte processuali (fu accusato e condannato Nieddu), è molto probabilmente colui che portava la moto nel tentato omicidio di Rosone a Milano. Dove trovò la morte Abbruciati. Era quindi un pezzo da novanta all’interno della Banda della Magliana. Ruolo che gli permise di avere il suo appezzamento di territorio proprio a Ostia e di gestire indisturbato ogni tipo di traffico nel litorale. Era tra l’altro conosciuto e riconosciuto come un confidente dei servizi segreti. Nonostante tutto, gestisce il parcheggio di Cineland, prassi comune per giustificare un minimo di entrate. Cineland è una struttura di intrattenimento sulla Via del mare dove ci sono parchi giochi, cinema e quant’altro. Proprietari e gestori di questa struttura sono le famiglie Paone-Merluzzi-Ciotoli, gli stessi proprietari del bar Sisto in Piazza Anco Marzio. 
Imprenditori locali quindi. Ma perchè sottolinea il bar Sisto? 
Il bar Sisto è noto perchè quando la Polaria di Fiumicino e la Mobile di Roma catturarono Pompei Vincenzo detto “Chicco”(uomo legato al clan Senese e arrestato a San Paolo del Brasile nell’operazione Valleverde), riuscirono ad individuarlo proprio mettendo sotto controllo il telefono privato del bar stesso. Lui infatti chiamava regolarmente Edoardo Ciotoli da San Paolo del Brasile, cosa che ci permise di intercettarlo e di andarcelo a prendere. 
La cosa sconvolgente? 
La cosa sconvolgente è che chi indagò sull’omicidio di Paolo Frau fu Antonio Paone, ispettore della Squadra Mobile di Roma sezione criminalità organizzata 
Ma Paone era forse parente di una delle famiglie proprietarie di Cineland di cui Frau gestiva i parcheggi? 
Certo, quindi è ovvio che lui stesso non abbia mai voluto andare in profondità nelle indagini. Se si fosse scoperto che la sua famiglia insieme ai Merluzzi e ai Ciotoli erano i datori di lavoro di Frau, che era stato ucciso per motivi di narcotraffico, sarebbe scoppiato uno scandalo. Io non voglio dire che lui sia in malafede ma è evidente un conflitto di interessi che è alla luce del sole e che, anche rispetto alle risultanze dell’operazione Anco Marzio, fa crescere più di qualche dubbio. Solo Dodici mesi prima, circa, partì da quel bar l’operazione che portò all’arresto di Pompei, uomo di Senese, con relativo sequestro di 290 chili di cocaina. Qualcosa vorrà pur dire. 

La Camera di Commercio troppo antimafiosa

Ci sforziamo molto ottimisticamente di non credere che la non rielezione di Enrico Bini alla Presidenza della Camera di Commercio di Reggio Emilia non sia veramente dovuta alla sua attività antimafia come dichiara in un’intervista di ieri.

Ci sforziamo di credere che non possa esistere una classe dirigente imprenditoriale che davvero possa pensare che parlare di mafie in Emilia Romagna allontani gli investimenti; perché se davvero fosse così verrebbe voglia di urlare che certe decisioni sembrano figlie di un’affiliazione culturale che non abbiamo più tempo e voglia di accettare come semplice ignoranza o buona fede.

Intanto appuntiamoci le parole di Bini, che suonano chiare:

“È chiaro che il mio impegno e quello della mia giunta sul tema hanno inciso sulla mia mancata rielezione. Il nostro è un territorio che fa fatica a fare i conti con la questione e forse pensava forse di non essere coinvolto”. Forse la battaglia del presidente non faceva comodo a tutti: “L’economia illegale fa molti affari con quella legale. Non tutti sono consapevoli, ma spesso da queste parti si lavora con ditte legate alla malavita”.

E ora non resta che aspettare una nuova Presidenza che continui su questa strada. Noi, curiosi, osserviamo.