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Giulio Cavalli

Il nostro compito primario

Parli di “forze retrosceniche”. Sono sempre esistite. Che la politica “sulla scena” delle istituzioni sia una messinscena per distogliere gli occhi del pubblico dalla realtà del potere (che “sta nel nucleo più profondo del segreto”, ha scritto Elias Canetti) è un’idea realistica. Un tempo, il retroscena era visto come il luogo dell’oscurità, degli intrighi, dei complotti, delle cose indicibili: tutte cose negative,
da combattere in pubblico, attraverso istituzioni veritiere. Pensiamo, per esempio, alla ‘glasnost’ di Gorbacëv che, per un certo periodo, ha coltivato quest’idea. Oggi? Oggi siamo di fronte a qualcosa di nuovo. Le conseguenze sulla vita delle persone sono evidentissime, la matrice anche: il predominio dell’economia sregolata e manovrata dalla finanza speculativa. Ma è una matrice incorporea che, per ora, sembra inafferrabile, non stanabile “sollevando un velo”.
Constatiamo il declino della politica, fino alla pantomima dei suoi riti: personaggi inconsistenti, che talora si presentano come “tecnici”, rivelandosi così esecutori di volontà altrui; “posti” come posta d’una lotta che, usurpando la parola, continua a chiamarsi politica; nessun progetto dotato d’autonomia; parole d’ordine 
tanto astratte quanto imperiose: lo chiedono “i mercati”, la “Europa”, lo “sviluppo”, la “concorrenza”. Questo degrado, che si manifesta macroscopicamente come immobilismo e consociativismo, è la conseguenza di quello che è oggi il vero “nucleo del potere”. Per poter essere contrastato con i mezzi della democrazia, deve essere innanzitutto compreso, senza fermarsi solo a deplorarne le conseguenze, scambiandole con le cause.
Tu poni la domanda cruciale: che fare affinché ci si possa riappropriare di almeno un poco dell’espropriata nostra capacità politica?
Noi apparteniamo alla cerchia di chi esercita una professione intellettuale. Il nostro compito primario (non voglio dire esclusivo) è cercare di capire, non di cambiare il mondo. Sarà pur vero, come tu dici, che non sono alle viste nuovi Marx o Tocqueville. Ma il nostro compito, nel piccolissimo che è alla nostra portata, è di questa natura. Il che significa innanzitutto rifiutare il ruolo di consulenti che con tanta abbondanza questo sistema di sterilizzazione della politica offre a chi ci sta. Sarebbe
 già una bella rivoluzione.
(Gustavo Zagrebelsky
 dialoga con Luciano Canfora su ‘oligarchie e potere’. via)

Santanchè e l’inverno democratico della democrazia

Quello che avrei voluto scrivere l’ha già scritto Monica per Resistenza Internazionale:

Prima di parlare dello svuotamento di dignità, immagine e contenuti delle cariche dello Stato ad opera di una Santanchè che non ha cause pendenti con la Giustizia ed è già stata sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, mica poco, dovremmo ricordare tutti, -noi, il PD e gli schizzinosi della democrazia in genere-, che in un contesto simile (PD e PDL uniti a sostenere il Governo Monti, non nella notte dei tempi) nessuno ha mai fatto una piega su Rosy Mauro, vicepresidente di un Senato retto da Schifani. Peculato e odor di mafia allegramente insieme, e tutti contenti . Che non ci scompone Alfano alla Giustizia nel Governo Letta, né Gasparri e Calderoli vicepresidenti del Senato con la Mussolini tra i segretari.

Non è Daniela a voler dinamitare, per capriccio personale, un equilibrio politico di per sé inconcepibile ad ogni sensibilità davvero democratica, e pretendere di aprire così una crisi di Governo; la vera crisi perpetua è quella di coscienza del PD, uno squarcio -geneticamente restio alla sutura- che sotto la garza della cosiddetta responsabilità suppura da novembre del 2011, dalla cacciata di Berlusconi. L’arte del procastinare ogni soluzione di autunno in autunno non è stata inventata adesso. L’inverno della democrazia non ce lo togliamo di dosso da anni e loro, all’improvviso, danno la colpa a quella che va in giro in luglio col piumone addosso.

Riinafobia

“Nel processo Falcone c’è un aereo nel cielo che vola mentre scoppia la bomba: questo aereo non si può trovare di chi è, e così si condanna Riina perché fa comodo. E il processo Borsellino? Lì sul monte Pellegrino c’è l’hotel con i servizi segreti, quando scoppia la bomba i servizi scompaiono, però non vengono mai citati perché si condanna Riina, perché l’Italia è combinata così”.

Le parole sono di Salvatore Riina durante il processo di Firenze, pronunciate il 10 marzo 2009, quattro anni fa che sembrano un’era geologica tenendo conto degli sviluppi giudiziari sui rapporti tra Cosa Nostra e Stato.
Sarà forse che in questi ultimi anni (ancora prima di quel 2007 e quella deposizione) abbiamo girato l’Italia per svestire Riina dal patetico vestito del boss come principe nero per mostrarlo in tutte le sue miserevoli nudità (intellettuali, prima che pelose) ma il prurito curioso che in questi giorni si leva per qualche bisbiglio del boss rinchiuso ad Opera è patetico almeno quanto lui.
Riina in questi anni ha parlato a chi doveva parlare, ha dichiarato più volte di essere stato un ingranaggio di un meccanismo molto più grande che comprendeva alte sfere dello Stato (“l’ammazzarono loro” disse riferendosi a Paolo Borsellino), agli uomini di Stato disse “guardatevi dentro anche voi” e fece intendere di essere stato “tradito” e “venduto” in occasione del suo arresto. Riina dunque è loquace da tempo, molto più di quanto torni utile a chi vorrebbe sensazionalizzare qualche sua parola per alimentarne la lontananza e il mito: gli ingredienti perfetti per mantenerlo senza luogo e senza tempo nella teca dei cattivi. Vorrebbero farci dimenticare che Riina è lo stesso che a colloquio con il figlio in carcere ebbe a dire che “Schifani era una mente” o che i comunisti erano “un problema contro lo Stato”.
Il problema non è il piccolo Totò che ciclicamente parla ma tutto intorno il Paese che non lo ascolta o, peggio ancora, che lo alleva nel pascolo dei cattivi per un buon editoriale all’anno.
Eppure senza riinafobia lo spartito sarebbe più chiaro e più popolare, facendo a meno della poesia, e Riina apparirebbe più contemporaneo e lucido di quelli che vorrebbero analizzarlo.

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Dal proclama al rinvio

Mi servirebbe sapere qual è la differenza tra lo scorso governo Berlusconi-Berlusconi e l’attuale governo Berlusconi-Letta sugli annunci. Mi servirebbe sapere se i critici della ‘politica degli annunci’ di B. trovano più etica, più responsabile, più democratica la ‘politica dei rinvii’.
Mi piacerebbe anche sapere se la coalizione che ha partorito questo governissimo è quella stessa urgente e ineludibile che era obbligatoria per affrontare le emergenze: le emergenze che sono state tute rinviate a dopo l’estate per non disturbare la missione della crisi.
Siamo passati del proclama al rinvio e ci dovrebbe bastare. Contenti così.

Un anno e mezzo dalla “pecorella” di quel NO TAV

E appena si posa la polvere ci si accorge che le cose non sono sempre come vengono urlate. E ci si accorge che la rabbia e l’indignazione sono quasi più belle quando sono semplici e alla luce del sole qui dove agire nell’oscurità è sinonimo (chissà perché) di intelligenza.

“Una volta un sacchetto di plastica otturò uno scarico della fossa biologica che abbiamo nel retro di casa. Dovetti trattenere il fiato, infilarci il braccio e rimestare bene. Qui è lo stesso”.

L’intervista a Marco Bruno firmata Wu Ming è su Internazionale, qui.

Marco che chiamava un carabiniere “pecorella” veniva equiparato alla fame in Somalia e al bombardamento del mercato di Sarajevo. Così La7 apriva il suo Tg la sera del 29 febbraio 2012. Ed era solo l’inizio. Un decano del giornalismo d’inchiesta come Carlo Bonini definiva il discorso di Marco “birignao squadrista”. Al Tg1 Pier Luigi Bersani dichiarava: “Ci sono formazioni anarco-insurrezionaliste che cercano acqua su cui navigare”. Gli faceva eco Mario Sechi sul Tempo del giorno dopo: “In val di Susa stiamo assistendo ad una prova tecnica di squadrismo vecchio e nuovo, ferraglia e hi-tech, all’eruzione di un magma anarco-fascio-comunista che si sta organizzando per fare il salto di qualità”. Da questo magma era affiorato Marco.

Ma chi era Marco? Presto detto: era “un personaggio non bello, l’inatteso volto disumano e strafottente del movimento”. Così Paolo Griseri su Repubblica del 1 marzo. Griseri proseguiva: “Da anni, da molti anni, la val di Susa è anche questo. Una schizofrenia collettiva che trasforma la brava gente in truci eversori, gli impiegati in bombaroli come cantava De Andrè”. Marco, questo truce eversore, era “uno di quelli che non trovi in prima linea durante gli scontri, ma arriva, colpisce, sparisce. Non fa parte del movimento organizzato”. Lo assicurava Libero del 2 marzo.

E se il movimento non era d’accordo, se faceva notare che Marco non era mai “sparito”, anzi, era sempre stato in valle dove lo conoscevano tutti, be’, non aveva importanza. Marco era ormai quello che dicevano i media, cioè uno squadrista, anzi, un anarco-insurrezionalista fascio-comunista. Marco era disumano e truce. Soprattutto, era privo di onore, come si legge in questo lancio Ansa: “ROMA, 29 feb – I vertici del gruppo Pd in Senato, Anna Finocchiaro, Luigi Zanda e Nicola Latorre, hanno chiesto al comando generale dell’arma dei carabinieri di ‘poter stringere la mano in segno di solidarietà e di ringraziamento al carabiniere che ieri in val di Susa è stato vigliaccamente insultato da un dimostrante privo di onore’”.

Il commento te lo strappavano praticamente dalle labbra: in Italia è talmente normale che le forze dell’ordine agiscano in modo violento e scomposto, che se un poliziotto o carabinierenon spacca la testa a qualcuno diventa un eroe, una figura a metà tra Gandhi e Salvo d’Acquisto, uno da encomiare.

Dove sono i voti degli italiani

Come saranno le campagne elettorali del futuro, nel lavoro di Dino Amenduni:

In questa analisi proviamo a fare un passo ulteriore e a provare a immaginare le campagne elettorali del futuro prossimo alla luce di alcuni dati che emergono dalla ricerca e che ridefiniscono alcune regole della comunicazione politica.

In particolare:

– i quotidiani hanno perso due milioni di copie vendute a livello nazionale negli ultimi 12 anni (-34.3%);
– Facebook è usato dal 41.3% della popolazione italiana, Twitter dal 5.4%;
– il 70% degli italiani pensa che “gli apparati dell’informazione” manipolino le notizie;
– quasi un italiano su due sceglie di votare non sulla base di ciò che ha appreso dai media (vecchi e nuovi), ma da ciò che ha ascoltato da amici, parenti e conoscenti (il 43.9% degli elettori, +25% in soli quattro anni);
–  il 35.3% degli italiani pensa che le tecnologie digitali abbiano peggiorato (e non migliorato) l’organizzazione dei movimenti politici.

In questa presentazione proviamo ad analizzare questi dati e a immaginare cinque idee operative per “aggiornare i partiti”, in modo che rispondano efficacemente a questo profondissimo cambiamento delle dinamiche di orientamento al voto degli italiani.

La bussola di Pisapia

«Potrei votare Renzi se ha superato, come mi sembra abbia fatto, il concetto della rottamazione cercando invece di arrivare a una sintesi dell’utilità e della ricchezza delle persone che hanno esperienza» sono le parole di Giuliano Pisapia sulla probabile candidatura di Matteo Renzi al prossimo congresso del Partito Democratico. Aggiungendo, poi: «Non ho mai pensato che fosse troppo di destra. Penso che sulla giustizia lui abbia una visione come quella che ho io – ha detto Pisapia – e cioè che non ci deve essere un pregiudizio ma un giudizio. Sul altri temi ci sono differenze forti, ma è il bello di una coalizione unita e unitaria».

Il fatto è che le differenze forti sono il bello di una coalizione unita e unitaria se risultano comuni i valori di fondo. Gli stessi valori che non sono sopravvissuti al piano Bersani e che difficilmente sembrano compatibili al piano Renzi. Lo diceva SEL, oggi lo nega Pisapia. Sempre meglio, davvero.

Nando ci mette il dito

In questo gran parlare di mafie, antimafia, Lombardia, nord e ‘ndrangheta esce un articolo coraggioso (sì, coraggioso) di Nando Dalla Chiesa sui giudici e l’antimafia al nord. Alzare il grado di discussione prendendosi la responsabilità di sollevare osservazioni sulle interpretazioni del 416 bis  e le sue diverse emersioni in questo quadro evoluto (o forse, involuto) lombardo: Nando dice quello che in molti hanno pensato ma non hanno voluto dire. Alcuni sviluppi giudiziari “su” in Lombardia indicano un “federalismo del 416 bis” che chiede attenzione e discussione.

Ci sono procure e direzioni distrettuali antimafia che funzionano bene, e alle quali dobbiamo essere grati per avere tutelato la convivenza civile rimediando agli oceani di ignavia della politica e delle classi dirigenti.

Ma poi, quando si cerca di seguire lo svolgimento dei processi, quando si mette bene la lente di ingrandimento sul lavoro di piemme e giudici di vario ordine e grado, si compie la sgradevole scoperta. Anche il potere giudiziario dà la sua robusta mano a diffondere l’idea che in fondo al nord la mafia non ci sia.

Sono ormai molte le occasioni in cui si è costretti a constatare che per applicare il 416 bis (ossia per imputare il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso) la magistratura del nord richiede un tasso di mafiosità superiore, a volte molto superiore, a quello sufficiente per applicarlo al sud.

Sembra quasi che per essere considerati mafiosi in pianura padana o in Liguria si debba risultare affiliati a tutti gli effetti a un clan con tanto di rito di iniziazione, si debba appartenere a famiglie considerate mafiose da generazioni e si debba già essere stati condannati per mafia in altri processi, possibilmente in Calabria o in Sicilia.

Da qui le assoluzioni incredibili, la rinuncia aprioristica a contestare l’associazione mafiosa (sono “solo” trafficanti o usurai), la costruzione di una giurisprudenza arbitraria e assolutamente contra legem.

L’articolo da leggere è qui.