Riporto le parole di Marisa, sorella di Lea Garofalo:
«Mi chiedo se si sia fatto poco a livello istituzionale, me lo chiedo perché mi tormenta il pensiero che tutto questo si sarebbe potuto evitare. Quando c’è stato il suo tentato rapimento, Lea ha denunciato. Quando le hanno chiesto chi poteva essere stato, lei ha fatto il nome di Cosco. Quando ha dovuto testimoniare contro suo fratello e contro il padre di sua figlia, lei ha testimoniato, perché – come ha avuto modo di scrivere – voleva una vita libera e un futuro migliore per sé e sua figlia. Ma per fare qualcosa hanno aspettato che morisse. La chiamavano collaboratrice di giustizia invece di testimone, facendo così in modo che si sentisse marchiata. Voleva far cambiare il cognome alla figlia e non c’è riuscita. Quando le spostavano da un posto all’altro, perché nei pressi della loro abitazione notavano presenze particolari, cadeva nello sconforto e si chiedeva come avessero fatto a sapere dove abitavano. Neanche io lo sapevo. Allora i suoi timori aumentavano e non si fidava nemmeno della scorta. Lei non è stata zitta. Ha continuato a denunciare, sempre e nonostante tutto».
(da La figura rimane, di Doriana Righini in Contro Versa, autrici varie, sabbiarossaED, Reggio Calabria 2013)