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Arte

Il giullare antimafia: "Adesso siete collusi…"

Il coinvolgente spettacolo di Giulio Cavalli, che al teatro Nuovo ha raccontato come la mafia stia conquistando silenziosamente le nostre città lombarde. Fuori i nomi, e le facce, anche quelle, tutte sbattute sul palco, con le date, i numeri, e le accuse. So i colpevoli ma non ho le prove, diceva Pasolini. Giulio Cavalli, il teatrante che si cupa di mafia, porta invece proprio le prove: atti giudiziari, trasformati in recital; dice tutto e non omette nulla. E’ difficile in uno spettacolo teatrale, parlare della mafia, non quella epica siculoamericana, ma quella imprenditoriale, delle periferie milanesi, di gente che controlla cantieri, movimento terra, subappalti, che fa i soldi minacciando sotterraneamente sindaci e consiglieri  comunali o, come accadeva a Lonate Pozzolo, che instaura un regime di terrore nei confronti dei bar, delle piccole attività del paese, le violenta con l’intimidazione, e poi prepara il terreno alla conquista del mercato, con metodi da guerriglia.
Non è facile fare teatro così, e infatti, lo spettacolo «A cento passi dal duomo», realizzato da Giulio Cavalli, coautore Gianni Barbacetto, musica (stupenda) di Gaetano Liguori,  a tratti è difficile da seguire. Giulio Cavalli però è bravo e coraggioso, recita con passione e convince, sa rendere il clima di quello che dice, e sono dati, nomi, facce, persino, di mafiosi della ‘ndrangheta. sarà forse per questo che lo minacciano.
La sala del Cinema Nuovo, in viale dei mille, giovedì’ sera era piena, come non accadeva da tempo, dicono Giulio Rossini (Filmstudio 90) e Antonella Buonopane (Libera). Per l’appuntamento varesino dello spettacolo (nella rassegna Un posto nel mondo), in prima fila, c’erano gli agenti della questura di Lodi, la città dell’artista, 32 anni, che solo per aver messo in scena i nomi delle cosche, basandosi sui documenti giudiziari, è tenuto sotto la minaccia di attentati, costante. Eppure, «anche la mafia ha paura se arriva a minacciare Arlecchino» ha detto Cavalli in una recente intervista. La tesi dello spettacolo è che al Nord, a Milano, si fa ancora finta di non capire che la mafia esiste; anzi, che Milano è quasi una capitale, una grande lavanderia, e che le «famiglie» hanno colonizzato il territorio. Si parla di Sindona (appare sullo schermo una scritta, una dichiarazione del banchiere,  sul legame tra la mafia e una piccola banca in via Mercanti), di Calvi, dell’onestà del commissario liquidatore della banca privata Giorgio Ambrosoli, e della moralità del magistrato torinese Bruno Caccia, ucciso nel 1983, per le sue inchieste, contro i «picciotti».
La mafia c’è: Buccinasco, Corsico, Milano centro. Vengono i brividi a sentire i nomi che sono corsi nelle inchieste della squadra mobile di Varese, o della procura di Busto Arsizio. E Cavalli cita gli omicidi nei bar, Giuseppe Russo, ammazzato a Lonate, mentre giocava al videopoker, «sparato in faccia, tre volte», il 27 novembre 2005. E cita Modesto Verderio, il leghista, ex assessore provinciale, che ai carabinieri, testimoniò alla magistratura, alla direzione distrattale antimafia, che una cosca stava minacciando l’intero paese. Cavalli lo cita: l’inchiesta «bad boys», gli arresti, il legame con i Farao Marincola, san Cataldo, il santo calabrese, che scalzò Sant’Ambrogio.  Una metafora che strappa anche sorrisi, ma c’è poco da ridere. «Adesso siete collusi – dice alla fine dello spettacolo – …con la dignità».
20/11/2009
Roberto Rotondo

DA VARESENEWS L’ARTICOLO QUI

Al via la quinta edizione di "Politicamente scorretto" a Casalecchio. La rassegna è dedicata alla mafia vista attraverso le pagine della letteratura

C´è un forziere, uno scrigno pieno di soldi pronto a finanziare teatri in crisi, rassegne senza fondi e assessorati dai portafogli vuoti. Sulle tracce del tesoro c´è Carlo Lucarelli, il giallista, lo scrittore che ha raccontato in televisione i misfatti irrisolti della storia italiana. La prossima settimana, in occasione di «Politicamente scorretto», la mafia vista attraverso le pagine della letteratura nella quinta edizione della rassegna organizzata dalla Casa delle Culture di Casalecchio (dal 27 al 29 novembre), sarà lui a lanciare un appello ad utilizzare i soldi confiscati alla mafia per finanziare la cultura nell´Italia di oggi, sempre più avara nel sostenerla.

«Tutte le volte che nel nostro Paese c´è un momento di crisi – spiega Lucarelli – la prima cosa che si fa è quella di tagliare i finanziamenti alla cultura. Tutti, in questo settore, dicono che sia naturale fare così, mentre in altri mondi produttivi ogni taglio scatena proteste ferocissime». Da qui, l´invito a vedere la cultura come una produzione italiana, motivo d´attrazione per il resto del mondo, `prodotto´ importante tanto quanto quelli dei settori industriali o artigianali. «La cultura fa occupazione, fa girare la ricerca scientifica – prosegue Lucarelli – . La consapevolezza del bello è un antidoto contro il degrado delle nostre città».

Domenica 29 novembre, in mattinata, alla Casa delle Conoscenze, Carlo Lucarelli mostrerà i punti della proposta in un incontro che vedrà la partecipazione di don Luigi Ciotti, Concita De Gregorio, Giulio Cavalli e Giancarlo Carofiglio. Ma l´appello, dal titolo «Nei forzieri della mafia, un tesoro per la cultura», ha già raccolto numerose adesioni, circa duemila in poche settimane di pubblicazione sul sito www. politicamentescorretto. org. Lo hanno firmato, tra gli altri, Vincenzo Cerami, Alessandro Bergonzoni, Alessandro Baricco, Lella Costa, Marcello Fois, Sergio Staino, Mimmo Calopresti e Ottavia Piccolo, oltre a molti giornalisti e magistrati.

Ci sono precedenti avviati con successo a cui si rifà l´idea di Lucarelli: la Casa del jazz di Roma, per esempio, ospitata in una palazzina che fu di boss mafiosi, o le terre in Sicilia e in altre regioni del sud Italia che, confiscate alle organizzazioni criminali, accolgono oggi le aziende agricole aderenti alla rete «Libera» di don Ciotti. «Vendere i terreni e le ville dei mafiosi e coi soldi ricavati finanziare la cultura potrebbe essere un´operazione rischiosa – è la consapevolezza di Lucarelli – . C´è il pericolo che la mafia si ricompri i suoi beni. Perchè se c´è una cosa che non le manca, sono i mezzi economici e la capacità organizzativa. Ma tra i beni confiscati, vi sono anche soldi veri. E su quelli che si può agire. La cultura nel nostro Paese non è secondaria rispetto ad altre produzioni. E un´arma per sconfiggere la mafia».

E anche per questo suo impegno che nel corso della manifestazione di «Politicamente scorretto» il Comune di Casalecchio conferirà a Lucarelli la cittadinanza onoraria. «Per essere portatore attraverso i linguaggi della comunicazione di una cultura al servizio della verità», recita la motivazione. «Sono contento di fare idealmente da ponte tra il nord e il sud dell´Italia nella lotta alla mafia – conclude Lucarelli – . Qualche mese fa, infatti, ho ricevuto dal Comune di Corleone, in Sicilia, un´altra cittadinanza onoraria».
(21 novembre 2009)

http://bologna.repubblica.it/dettaglio/lucarelli-e-il-tesoretto-dei-boss-diamo-quei-soldi-alla-cultura/1784733

Linate secondo Giulio Cavalli

Giulio Cavalli è un attore teatrale che si districa in modo eccellente tra i temi della mafia, che lo ha condannato a morte costringendolo a vivere sotto scorta dopo lo spettacolo «Do ut des» in cui ridicolizzava cosa nostra e i suoi riti, e il grande teatro civile impegnato nella ricerca della verità di cui il nostro Paese molte volte rimane orfano. L’altra sera al teatro Camploy è stata la volta del disastro di Linate, raccontato dall’attore nello spettacolo «Linate. 8 ottobre 2001: la strage», scritto a quattro mani con Fabrizio Tummolillo e arrangiato dalle musiche di Davide Savarè. Uno spettacolo nato grazie alla collaborazione di oltre 20 comuni, tra i quali Verona, che cerca di far luce sull’abnorme tragedia che è costata la vita a 114 passeggeri, tra i quali anche un veronese, e a quattro addetti allo smistamento bagagli al lavoro nel deposito centrato in pieno dal boeing. Una narrazione divisa in due tronconi paralleli: da una parte la fiaba raccontata da nonno Cleto, dell’avioporto di Bengodi, un paese di fantasia che celebrava il suo nuovo porto aereo fatto in fretta e furia da abitanti quali «Lustramarmitte» e «Culodigomma», all’insegna dell’approssimazione e delle leggerezze burocratiche. Dall’altra metà del palco invece l’incubo reale, la tragedia vissuta nei suoi momenti immediatamente precedenti. Cavalli da giullare si fa ora pilota, ora controllore del traffico aereo, ora pompiere in quella mattina in cui la nebbia non consentiva di vedere oltre 100 metri e in cui l’unico mezzo per vedere dall’alto, il radar di terra che in tutti gli aeroporti del mondo segue gli spostamenti degli aereomobili sulla pista, era un ammasso di ferraglia tenuto assieme da semplice spago. E allora eccolo seguire il piccolo Cessna che per errore si immette nella corsia di rullaggio sbagliata, tradito dalla segnaletica insufficiente e che allo stesso momento dava lo stop e il via libera. Poi, con un balzo attraverso le cuffie, lo troviamo sull’altro aereo, quello maestoso, il boeing della Scandinavian Airline diretto a Copenaghen, che mentre sta per prendere il volo verso il cielo plumbeo si trova il piccolo velivolo fermo sulla pista, in perfetta rotta di collisione. Poi l’urto, l’incendio e lo schianto fatale contro il toboga; uno scenario di cui i controllori si accorgono solo dopo mezz’ora l’impatto, in virtù della più totale confusione ed imbarazzante impreparazione. Negli stessi momenti a Bengodi nonno Cleto e «Maria faccia da stria» brindavano all’inaugurazione dell’avioporto, ma i professori che avevano dato il via libera, per sicurezza tornano indietro in treno. E dopo una breve, ultima immersione tra gli atti processuali, l’attore che da circa sei anni deve guardarsi le spalle dai mafiosi offre al pubblico, tra cui sedeva anche il presidente del Comitato 8 Ottobre, Paolo Pettinaroli, la triste verità: a pagare per quelle negligenze e assurde superficialità sono stati solo quei 118 corpi straziati. Per il resto, dopo otto anni, ancora e solo nebbia.

DA http://bennycalasanzio.blogspot.com/2009/11/linate-secondo-giulio-cavalli.html

L’ARTICOLO QUI

19 novembre A CENTO PASSI DAL DUOMO a Varese

In occasione della “Carovana antimafia 2009”, Coop Lombardia e il coordinamento provinciale di Libera propongono il nuovo spettacolo teatrale di Giulio Cavalli “A cento passi dal Duomo”.
La rappresentazione, scritta in collaborazione con il giornalista Gianni Barbacetto, si terrà giovedì 19 novembre alle 21, presso il cinema teatro Nuovo di Varese (via dei Mille 39), e si concentrerà sulla presenza delle famiglie mafiose al Nord. Al pianoforte Gaetano Liguori.

Ascolta si fa serio

Dopo il modello di teatro civile “alla Paolini”, oggi il concetto comprende esperienze e modalità espressive diverse. Roberto Saviano, Giulio Cavalli, Belarus Free Theatre, tre esperienze accomunate dal fatto di rinunciare in vario modo alla raffinatezza dello stile per puntare all’evidenza dei contenuti

Della definizione di “teatro civile” si è a tal punto abusato da farla diventare vagamente stucchevole: ed è un vero peccato, perché questa categoria espressiva, che ha di per sé delle risonanze intellettualmente nobili – un’idea antica di polis, di collettività che si raccoglie attorno ai propri riti comunicativi – contiene al suo interno una varietà di forme e di stili diversi, una vasta gamma di possibili e spesso affascinanti declinazioni. C’è un teatro civile praticato da un solo attore monologante e c’è un teatro civile proposto da interi gruppi, c’è un teatro civile incentrato sul puro racconto e c’è un teatro civile che rappresenta delle vicende di senso compiuto costruite su dialoghi, azioni, personaggi.

Anni fa, dopo il successo del Vajont, si era imposta diffusamente – grazie anche alla bravura e al carisma del suo principale interprete – la tipologia preponderante della narrazione “alla Paolini”, che in qualche modo aveva finito per imporre uno schema, un modello costante che aveva dei ritmi, delle intonazioni, degli argomenti quasi fissi a cui ispirarsi: ed è stato quel modello che a un certo punto, applicato da troppi volonterosi epigoni, ha finito col diventare fatalmente ripetitivo, saturando il mercato. Oggi il concetto, per fortuna, si è esteso, comprende esperienze e modalità espressive diverse, unicamente accomunate dal fatto di rinunciare in vario modo alla raffinatezza dello stile per puntare soprattutto all’immediatezza, all’evidenza dei contenuti.

Così, in virtù di questa ritrovata energia creativa, il cosiddetto teatro civile – nelle sue molteplici articolazioni – sta vivendo un momento di grande vitalità, con un gran numero di proposte che lasciano il segno. Ed è un bene che sia così: non perché l’altro teatro, quello dotato di una più ambiziosa costruzione registica e drammaturgica, abbia in sé qualcosa di sbagliato, anzi anch’esso sta sempre più eliminando gli orpelli, riducendosi all’essenziale, ma perché il confronto, la dialettica tra questi due poli opposti del linguaggio scenico li stimola e li arricchisce entrambi. E il pubblico, in questo momento, ha bisogno tanto di suggestioni artistiche quanto di momenti di più ampia riflessione.

Lo si è colto, ad esempio, dalla prolungata standing ovation che ha accolto, al Teatro Studio di Milano, La bellezza e l’inferno, lo spettacolo scritto e interpretato da Roberto Saviano, e prodotto dal Piccolo Teatro. In senso stretto, si tratta di un teatro civile sui generis, perché l’autore di Gomorra, con una scelta che fa altamente onore al suo bisogno di non irrigidirsi in un cliché ormai scontato – di camorra e malavita organizzata parla di fatto pochissimo, e preferisce illustrare il destino di una serie di personaggi che hanno superato e vinto l’inferno di estreme difficoltà fisiche, psicologiche o ambientali in virtù della loro fede nella bellezza della vita, nella pienezza della creazione artistica, nella necessità di testimoniare una condizione di sofferenza e di disagio dei propri simili o del proprio popolo.

Sfiorando il tema delle cosche soltanto a proposito della comunità nigeriana di Castelvolturno, che ha osato sfidare la violenza dei boss con molta più determinazione di quanto non abbia fatto la cittadinanza locale, lo spettacolo – costruito su articoli e interventi vari dello stesso Saviano – si sofferma dunque soprattutto sui casi esemplari di due ragazze iraniane – Neda Soltani e Tarameh Moussavi – che hanno subito una fine atroce in nome della possibilità di esprimere le proprie idee, dello scrittore nigeriano Ken Saro-Wiwa, ucciso in quanto oppositore del governo e delle multinazionali del petrolio, di un altro scrittore, l’amatissimo Varlam Salamov, sopravvissuto ai gulag staliniani, del calciatore Leo Messi, divenuto un campione a dispetto di una grave forma di nanismo, del pianista jazz Michel Petrucciani, che non ha lesinato il proprio talento malgrado una malformazione che rendeva le sue ossa fragili come vetro.

Saviano, diretto con mano leggera da Serena Sinigaglia, dimostra davvero un’insolita misura: non fa il divo, non si atteggia a tribuno, non cerca a tutti i costi di commuovere, di indignare, di suscitare la reazione più viscerale dello spettatore. Si limita a raccontare delle toccanti storie umane, ragionando su di esse pacatamente, lucidamente, sentitamente, senza inseguire l’attualità più sfacciata, senza sfoggiare proteste o recriminazioni. Persino quando, a titolo dimostrativo, fa girare in platea un autentico Kalashnikov, l’arma preferita da killer e terroristi, invitando gli astanti a passarselo di mano in mano, non compie un gesto retorico, non sembra cercare il facile effetto emotivo, come altri farebbero, ma punta semplicemente sulla scarna, oggettiva eloquenza di quella spietata macchina di morte.

Il suo modo di porsi, ovviamente, non è quello di un attore professionista, e si vede da certe piccole incertezze, da certi impercettibili espedienti per riprendere fiato e ritrovare di volta in volta il filo del discorso. Ma l’intensità dello sguardo che egli posa sulle persone e sulle cose non richiede una tecnica particolare: anzi, la naturalezza, l’assoluta assenza di artificio recitativo conferiscono alle sue parole un’ulteriore carica di autenticità, uno spessore di verità che diventa a tratti abbacinante. A garantire la profondità di questa esigenza di interloquire, ove mai ce ne fosse bisogno, c’è la presenza della scorta che deve accompagnarlo fino in palcoscenico. Si torna a casa, dopo averlo visto, con un inusitato senso di commozione e arricchimento (al Teatro Grassi di Milano dal 16 al 20 febbraio).

Un altro attore costretto a esibirsi sotto scorta è Giulio Cavalli, che però ha uno stile e delle finalità completamente diversi. Poco più che trentenne, dotato di una formazione tradizionale e di un’iniziale inclinazione “giullaresca”, forse mediata dal modello di Dario Fo, da un paio d’anni Cavalli persegue un teatro di informazione e di denuncia, che è passato attraverso lo svelamento dei retroscena del disastro di Linate del 2001 e il tema spinoso della pedofilia e del turismo sessuale per approdare, da qualche tempo a questa parte, a un impegno costante ed esclusivo nell’analisi del fenomeno mafioso e della sua penetrazione nel tessuto economico nazionale.

In un certo senso Cavalli, che dirige il Teatro Nebiolo di Tavazzano – una sala del territorio lodigiano trasformata in un centro dello spettacolo di narrazione e documentazione, dove sta anche nascendo un archivio di testi e di copioni – incarna l’evoluzione più recente e più radicale di questo genere di esperienze: il suo lavoro, più vicino alle inchieste della stampa che agli slanci dell’invenzione artistica, avviene a stretto contatto con giornalisti e magistrati, del cui operato è in qualche modo un sostegno e una prosecuzione. Non a caso il suo ultimo spettacolo, A cento passi dal Duomo, ricavato da un saggio di Gianni Barbacetto e presentato poche settimane fa al Teatro della Cooperativa di Milano, è interamente dedicato alle infiltrazioni dei padrini nei progetti per l’Expo del 2015, e in altre mille attività del capoluogo lombardo e dintorni.

Quello di Giulio Cavalli è un teatro dal severo taglio militante, senza mediazioni o concessioni all’intrattenimento. Esso si basa unicamente sulla nuda cronaca, su un’incalzante concatenazione di avvenimenti loschi e sanguinosi che attraversano la nostra storia da una trentina d’anni a questa parte, dall’assassinio di Giorgio Ambrosoli in poi, e non lascia certo spazio a quel tanto di sentimenti personali – come il tifo adolescenziale per le prodezze di Maradona – che comunque Saviano porta in luce. Il suo scopo non è di suscitare un atteggiamento dialettico, ma di togliere il fiato all’ascoltatore. Se ne esce sgomenti, profondamente impressionati. L’attore manipola con sapienza la sua materia, fa collegamenti, trae conclusioni, lascia in sospeso qualche ipotesi più o meno arbitraria: ma poco importa, fosse vera anche solo la metà di ciò che dice, ci sarebbe veramente da aver paura (il 7 novembre a Bolzano, il 12 novembre a Como, il 19 novembre a Varese).

Ancora diversa è l’idea di teatro civile messa in mostra dal Belarus Free Theatre, un gruppo di attivisti bielorussi che vanno in scena unicamente per far conoscere la drammatica mancanza di libertà e democrazia che affligge il loro Paese: in Discover love, lo spettacolo che ho visto al festival “Vie” di Modena, ad esempio, si occupa della piaga degli omicidi politici e dei sequestri di persona misteriosamente orchestrati dal regime. Non c’è traccia di finezze o abbellimenti in questo impianto narrativo che va dritto al cuore del problema: la vicenda, ispirata a un episodio realmente accaduto, procede lungo il filo del racconto con cui la moglie di una vittima eccellente, l’ex capo del comitato elettorale, Anatoly Krasovski, sequestrato e barbaramente ucciso nel 2000, ricostruisce la sorte del marito.

Lo spettacolo, realizzato con mezzi davvero poveri, ha l’andamento di una romantica storia d’amore: si parte dall’infanzia della donna, un’infanzia simile a tante altre, sul cui sfondo si avvertono però, come attutiti, i segni di un potere cupo, autoritario, si prosegue con l’incontro che segna la sua esistenza, preludio a un matrimonio felice e appassionato. Poi, all’improvviso, il brutale epilogo: una notte l’uomo – insieme con l’amico che lo stava accompagnando – viene inghiottito dal nulla, e su di loro calerà un’invalicabile cortina di silenzio. Diventeranno due nomi in più da aggiungere a una lunga lista di cittadini rapiti e scomparsi, per i quali è in corso una campagna dell’Unione Europea, cui il Belarus contribuisce con le proprie rappresentazioni.
Raramente, credo, mi era capitato di vedere un apparato teatrale così ingenuo e dimesso, così assolutamente ridotto ai minimi termini: la scenografia è di una semplicità disarmante, la recitazione un po’ sommaria, e non c’è margine per una qualsiasi sottigliezza d’invenzione: tutto è spoglio, tutto è focalizzato esclusivamente sull’urgenza di comunicare. Ma è chiaro dall’inizio che questo prevalere del contenuto sulla forma non toglie niente all’efficacia del messaggio, anzi lo rende ancora più vibrante.

La rinuncia alla pura dimensione estetica è compensata dallo struggente bisogno di far sentire la propria voce, l’elementarità dello stile si traduce in un’emozionante continuità fra il teatro e la vita: il vero nucleo dello spettacolo non è l’azione in sé, sono le immagini video delle proteste in una qualche città bielorussa, sono i ceri accesi che accompagnano gli spettatori all’uscita, come in un mesto cerimoniale funebre.

Renato Palazzi

DA LINUS L’ARTICOLO QUI

17 novembre Giulio Cavalli a Palermo per la tavola rotonda “Disinformazione il seme dell'odio?”

martedì 17 novembre 2009
Tavola rotonda “Disinformazione il seme dell’odio?”
– dalle ore 18.00 presso “I Candelai”
Esperti, artisti, giornalisti impegnati sul fronte della giusta e libera informazione, si confronteranno col
pubblico sulle strozzature che fanno del sistema mediatico italiano un esempio di involuzione sociale,
con i suoi evidenti focolai in questa Italia sospesa. L’incontro si pone l’obiettivo di avviare una
riflessione sui temi dell’informazione, della disinformazione e l’implicazione che essa ha avuto e ha nel
nostro tessuto sociale e politico, che appare sempre più ovattato, in cui la cattiva informazione non si
profila solo come sintomo, ma come mezzo. Minimizzazione del fenomeno, controllo delle notizie (più
o meno enfatizzate; e viceversa nascoste), promozione di “sentimenti contro” e della paura dell’altro,
generalizzazione delle ostilità stanno creando una società cieca che si orienta verso un posticcio nulla?
Tavola Rotonda
Giulio Cavalli – attore, regista teatrale (www.giuliocavalli.net)
Valentina Gebbia – scrittrice, giornalista (www.valentinagebbia.com)
Rossella Puccio – giornalista, direttrice di Zero91 Magazine (www.zero91magazine.it)
Anna Bucca – presidente Arci Sicilia (www.arcisicilia.it)
Cirrus Rinaldi – ricercatore di Sociologia giuridica, della devianze e del mutamento sociale
Fulvio Vassallo Paleologo – Università di Palermo, esperto di tematiche sull’immigrazione, membro
Asgi – in collegamento skype da Agrigento
Daniele Papa – avvocato, membro Asgi
Francesco Viviano – giornalista la Repubblica

Momento artistico
– Performance di Giulio Cavalli
– Letture tratte da “Metà bianchi, metà neri” a cura dell’autrice Valentina Gebbia, con
l’accompagnamento musicale di Valeria Cimò
– Intervento musicale dei Ma’aria con Valeria Cimò & group
– Lettura del racconto “Di vita, di morte” a cura dell’autrice Maria Teresa de Sanctis
– Proiezione dell’estratto video di “La porta della vita”- adattamento teatrale di Maria Elena Vittorietti sui
reportage di Francesco Viviano, legati alla vicenda della nave Pinar. Diretto e interpretato da Filippo Luna
– Chiude Paolo Maselli con la presentazione in anteprima nazionale di “Storie di resistenza
quotidiana”. Documentario che oltre a testimoniare il lavoro di gruppi e associazioni, come Addiopizzo e
Libera Terra, racconta una resistenza fatta da gesti quotidiani, impegno e condivisione di ideali, da professionisti
e semplici cittadini, che si oppongono, pacificamente e concretamente, a un sistema mafioso che produce
sfruttamento e incertezze. – 40 min. Diretto da Paolo Maselli, scritto da Daniela Gambino –
http://srq.altervista.org

 

IL PROGRAMMA QUI

Indagini come copioni teatrali: Cavalli recita contro le mafie

Recitare «contro» la mafia. Salire sul palco per denunciare i malviventi. Cultura ma anche denuncia sociale. Un dovere che diventa anche un pericolo per chi decide di rompere il muro del silenzio. L’ omertà che tanto «non cambia niente lo stesso». È dal 2006 che Giulio Cavalli, attore milanese, riceve minacce. La sua colpa? Lavorare con giornalisti e magistrati e trasformare le loro indagini in copioni teatrali. «A cento passi dal Duomo» scritto a quattro mani con Gianni Barbacetto, è in scena stasera al Teatro Litta (ore 21, ingresso libero, prenotazione 338.24.07.189), uno degli appuntamenti di «Milano dice no», la tre giorni milanese promossa dalla Carovana antimafia. Uno spettacolo «sotto tutela», come l’ attore che lo interpreta. Al suo fianco come sempre il pianoforte combattente di Gaetano Liguori. Che cosa ha fatto per scatenare la reazione delle organizzazioni criminali? «Ho usato la parola per raccontare storie, ma soprattutto per specificare fatti e per puntualizzare nomi e cognomi» risponde Cavalli. Il teatro torna a essere un luogo di denuncia o è l’ ultima spiaggia di una società dove la libertà di informazione è minacciata? «Io sono un ottimista per natura. Credo che in un momento in cui la comunicazione globale sia così facilmente controllabile, il teatro diventi un’ occasione per esercitare il diritto alla libertà e l’ indipendenza. Paolo Borsellino diceva “parlate della mafia, alla radio, in tv, sui giornali. Ma parlatene!”. I prossimi impegni? «Sto preparando un nuovo lavoro sulla memoria andata in prescrizione di un senatore a vita». Ma cosa spinge un uomo di 32 anni, sposato e padre di un bimbo, a compiere queste scelte? «Pretendere la bellezza… non dovrebbe essere obiettivo comune di tutti gli uomini di arte e cultura?»

Livia Grossi

DA CORRIERE DELLA SERA

L’ARTICOLO QUI

«Mafia al Nord, la politica si deve schierare»

L’attore teatrale ha parlato al Verri, affiancato dal giornalista Colonnello, che ha avvertito: «Criminalità vicina» . L’appello di Cavalli, che cita il “caso Sant’Angelo” e l’estorsione di Lodi.
«Basta negare che le mafie esistono in Lombardia. La politica dichiari apertamente da che parte sta». La denuncia è arrivata da Giulio Cavalli, attore e regista lodigiano sotto scorta, che martedì nel corso di un intervento pubblico ha descritto intrecci e interessi delle cosche al nord Italia, con le mani del racket che sono arrivate fin nel cuore del capoluogo del Lodigiano. Di fronte alla platea, riunita nell’aula magna del liceo Verri a Lodi, l’attore ha sostenuto: «Ora che siete informati stare fermi è complice, è anticostituzionale. Occorre un segnale forte dal mondo della politica». Cavalli ha parlato durante un incontro organizzato nell’ambito della tappa lodigiana della carovana antimafie, un ciclo di iniziative che si è chiuso in città ieri mattina con un confronto con gli studenti all’Itis Volta, alla presenza di Francesco Galante del Consorzio Libera Terra Mediterranea. Intitolata “Le mani sul nord. Quarant’anni di storie di mafie”, la serata del Verri è stata aperta da Cavalli che, senza risparmiare nomi e cognomi, ha ricostruito nei dettagli le infiltrazioni della criminalità organizzata tra nord Milano, Varese e la provincia di Lodi. Partendo da inchieste della magistratura, procedimenti giudiziari e cronache giornalistiche, l’attore ha tracciato una mappa dettagliata dei traffici illeciti delle cosche e dei legami con le famiglie di ‘ndrangheta e mafia. Una commistione di affari e imprese che, nel resoconto dell’attore, non lascia fuori nemmeno uomini delle istituzioni del territorio regionale. Nella descrizione delle situazioni che devono destare maggiore allarme, Cavalli ha citato la bufera giudiziaria che ha colpito Sant’Angelo, con le pesanti accuse al vaglio della magistratura che hanno colpito l’azienda che era stata incaricata della raccolta rifiuti. Poi il caso di Lodi, con un tentativo di estorsione ai danni di un titolare di bar di piazza della Vittoria. «Voglio sperare che ci sia una società civile che prenda posizione su questi temi», ha detto Cavalli. Al Verri è poi intervenuto Paolo Colonnello, giornalista del quotidiano “La Stampa”, che, documenti giudiziari alla mano, ha riferito delle attività dei clan in Lombardia. In particolare ha citato il tentativo di entrare nella proprietà di aziende in crisi, la volontà (in diversi casi riuscita) di controllare il settore della movimentazione terra nei cantieri e la gestione dello spaccio di droga. «Spesso queste realtà criminali sono più vicine a noi di quanto davvero si pensi, solo che quando queste cose vengono scoperte a volte è troppo tardi», ha detto Colonnello. Per questo il giornalista ha invitato la politica ad occuparsi maggiormente di tali aspetti. Infine ha preso anche la parola l’assessore del comune di Lodi, Andrea Ferrari, che ha ricordato l’importanza per gli enti locali di aderire all’associazione Avviso pubblico, gruppo che si occupa della promozione della legalità. Mat. Bru.

DA IL CITTADINO L’ARTICOLO QUI

La mafia a Milano e la battaglia del teatro civile di Giulio Cavalli

Lecco (bge) «La mafia a Milano non esiste. Non è mai esistita. E` tutta una montatura per screditare il ricco, produttivo, avanzato, civile, Nord Italia».

Di mafia, all’ombra della Madonnina, se ne è sempre parlato poco e male. Ma è stato proprio a Milano, a 100 passi dal Duomo, che si sono consumati, in meno di dieci anni, dal 1974 al 1983, oltre 100 sequestri a scopo di estorsione. Senza contare che negli anni la cintura di Comuni intorno alla metropoli lombarda è diventata la patria ufficiale del confino delle mafie, la coltre di silenzio ideale per coprire «l’omicidio di Giorgio Ambrosoli, Sindona, i retroscena di Raul Gardini, di Calvi e dell’Expo 2015».

A raccontarlo senza troppi peli sulla lingua è un giovane attore lodigiano, Giulio Cavalli, direttore artistico del teatro Nebiolo di Tavazzano, che si è sempre occupato di temi scomodi, al punto da essere minacciato dalla mafia e da vivere da tempo sotto scorta: sin da «Linate 8 ottobre 2001», racconto che svela molti punti oscuri dell’incidente aereo che causò 118 morti, «Bambini a dondolo», sul turismo sessuale infantile, e «Do ut Des», show che ridicolizza i boss prodotto con il Comune di Gela.

Il suo ultimo spettacolo, dal titolo «A 100 passi dal Duomo», che va in scena venerdì 13, alle ore 21, allo Spazio Musica «Achille Gajo» di Lecco, in via Plava 5 (rione Pescarenico), scritto in collaborazione con il giornalista Gianni Barbacetto, si concentra invece sulla presenza delle famiglie mafiose al Nord, capoluogo manzoniano compreso.

Insofferente alle etichette, soprattutto a quella di «teatro civile», Cavalli ha intrapreso una lotta contro «la presunzione ebete di Milano che fa la bella addormentata. A livello di antimafia qui siamo ancora all’anno zero ?spiega-. La Lombardia non vuole ammettere a se stessa di essere stata vittima di una cosa così barbara e vile come la mafia, che è siciliana».

La capitale, morale, secondo l’attore, reagisce «con un’omertà più fine. L’indifferenza educata dei suoi abitanti equivale alle finestre chiuse di Cinisi, in provincia di Palermo. Sono convinti che il pizzo sia un taglieggiamento per questioni siciliane e rifiutano ogni discorso sulle possibili complicità».

Da quanto vive sotto scorta e qual’è stata la rappresentazione che ha cominciato a far paura a qualcuno?

«La vicenda ? spiega Cavalli – è cominciata in una climax ascendente dal 2006. In quel periodo insieme a Rosario Crocetta, Antonio Ingroia, Giovanni Impastato e molti altri avevamo deciso che era il momento di riprendere in mano la lezione di Peppino Impastato e ?disonorare? Cosa Nostra mettendone a nudo le bassezze morali e la comicità dei limiti medievali di riti e boss. Disonorarli, per noi, era una questione di onore. Un modo per ribellarsi ad un racket culturale di eroicità negativa di individui che una certa televisione ci proietta come ?astuti geni del male? e invece si rivelano infimi nella loro bassezza. Ridere di mafia significava urlare forte che ?il re è nudo? e, di conseguenza, che difficilmente questi personaggi avrebbero potuto tenere sotto scacco una nazione senza l’aiuto dei colletti bianchi e di alcuni pezzi della politica.»

Cosa differenzia la mafia del sud da quella del nord?

«Al nord hanno l’abito buono delle organizzazioni economiche. Profumano di partite iva e eleganza, stanno nel riciclaggio in cravatta e nella cocaina del dopo aperitivo di certa borghesia. Ma l’odore è lo stesso; quello peloso della prevaricazione e della bava dell’illegalità.»

Il biglietto di ingresso costa 5 euro. Per informazioni e prevendite riguardanti lo spettacolo: lecco@arci.it.

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«Non è un merito essere sotto scorta»

La carovana contro le mafie ha fatto tappa in città ieri: hanno parlato l’attore minacciato dai boss e il regista Figazzola
Cavalli: «Il contrasto alle cosche deve essere un’attività condivisa»

La lotta alla criminalità organizzata non deve essere un atto eroico e solo di alcuni, ma un costume ordinario che riguarda tutti. Un sussulto di «dignità» che si muove nel pieno rispetto della Costituzione, che invita i cittadini a contribuire «al progresso morale» della società. È questo l’appello che l’attore e regista Giulio Cavalli ha rivolto agli studenti dell’Itis ieri mattina. Un intervento pubblico all’interno della tappa lodigiana della carovana antimafie, che ha in programma due giorni di dibattiti e incontri sulla legalità. «Il contrasto alle cosche dovrebbe essere un’attività del tutto ordinaria e condivisa. Per questo se sono sotto scorta non è da ritenersi un merito, ma un demerito di tutti gli altri – spiega l’uomo di spettacolo, colpito da minacce mafiose e protetto da alcuni agenti – è come se mi fossi chinato un attimo per raccogliere un accendino e improvvisamente mi sono accorto che gli altri avevano fatto un passo indietro». L’appuntamento per riflettere su giustizia e diritti, oltre che sul contrasto alle mafie, è cominciato dalle scuole. Dal mattino molti degli alunni del liceo Gandini e istituto Itis del capoluogo si sono confrontati con alcuni personaggi impegnati nella società e nel mondo della cultura. Dopo un’introduzione del dirigente scolastico Itis, Luciana Tonarelli («é un orgoglio per noi ospitare questa iniziativa, che invita tutti ad essere testimoni della legalità»), e la presentazione da parte di un’insegnante e rappresentante dell’associazione Adelante, ha preso la parola all’istituto tecnico l’attore sotto scorta Giulio Cavalli. E ha ricostruito la genesi della sua opera, nata dalla volontà di sbeffeggiare il falso onore degli uomini mafiosi. Capi molto rispettati, che guardati con attenzione si rivelano «davvero comici»: «Basti pensare a Provenzano con i suoi celebri pizzini, oppure a Totò Riina, una persona che in vita sua non deve aver mai preso un congiuntivo», dice l’attore lodigiano. E ancora ha puntato il dito sulle diverse ramificazioni dei clan che arrivano fino a noi, con i sospetti di infiltrazioni che raggiungono anche il Lodigiano. Poi ha preso la parola anche il regista Roberto Figazzolo, coordinatore di un cortometraggio dal titolo “Librino? Una favola”, racconto-testimonianza di un’esperienza svolta in una località alle porte di Catania, grazie all’apporto di alcuni bambini del posto. Infine al Gandini di Lodi le classi sono state divise in gruppi e sono stati realizzati dei laboratori tematici con gli alunni, guidati da personaggi come la direttrice del carcere, Stefania Mussio e Adriana Cippelletti del comune di Casale, che ha introdotto al tema dei beni confiscati alla mafia, oltre ad altri ospiti illustri. Sempre al mattino si è tenuto anche un incontro alla casa circondariale di via Cagnola con l’autore Carlo Barbieri, autore di “Le mani in pasta”.Matteo Brunello

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