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Ultima Voce recensisce I Mangiafemmine
[@Ultima Voce recensisce #IMangiafemmine]
Nella penombra di un mondo distorto, dove la realtà s’incaglia con la fantasia più buia, Giulio Cavalli conduce il lettore nel labirinto di DF. L’oscurità di questo paese diviene uno specchio rovesciato della società, un riflesso che svela gli abissi dell’animo umano.
Un’epopea cruda e inquietante si dipana tra le pagine di “I mangiafemmine”, tessendo una trama tanto attuale quanto disturbante.
Attraverso il libro “I mangiafemmine”, pubblicato da Fandango Libri, Giulio Cavalli ci trascina nuovamente nel cupo territorio di DF, un luogo che si erge come un sinistro specchio della società attuale, un posto in cui molti preferirebbero non affacciarsi mai. Questo romanzo, crudo e incisivo, si rivela un’opera imprescindibile per coloro che si appassionano alla narrativa distopica e sono alla ricerca di storie in grado di stimolare profonde riflessioni. È la conclusione della trilogia di DF, che aveva preso il via con i titoli “Carnaio” e “Nuovissimo Testamento“.
L’autore, firma forse il suo lavoro più radicale e provocatorio, abbracciando uno stile narrativo riconoscibile, senza timore nel dipingere un mondo già esistente.
Esaminando attentamente la nuova opera di Cavalli, emerge in modo spaventoso il parallelo tra la distopia che l’autore dipinge e la realtà che ci circonda, una realtà che, però, spesso fatichiamo ad ammettere. All’interno di questa storia si presentano figure politiche inventate, contrassegnate da simboli partitici generici, ma che non nascondono affatto le tendenze, le ipocrisie e la corruzione diffuse nella classe politica, non soltanto in Italia ma anche al di là dei confini nazionali.
DF diviene lo specchio deforme di una società in cui affiora un’epidemia di violenza contro le donne, un’epidemia ignorata da una classe politica in piena campagna elettorale. Donne uccise, smembrate dai propri compagni, mentre il candidato premier, Valerio Corti, trascura il problema, ritenendo le vittime come “normali” e non degne di considerazione.
Il romanzo di Cavalli riflette, in modo pauroso, il paradosso di una distopia che trova riscontro nella nostra realtà, con politici fittizi ma facilmente riconducibili alla corruzione diffusa, alle ipocrisie e alle posizioni vuote della politica contemporanea.
L’autore dipinge scene televisive e scontri verbali fra rappresentanti politici che imbarazzano l’intero sistema, distogliendo l’attenzione dai problemi reali. Corti stesso, in una disastrosa intervista, rivela il suo disprezzo verso le donne, negando qualsiasi responsabilità sociale nel caso di violenza su Frida, vittima di un omicidio perpetrato dal compagno.
Ma non è solo nella finzione di Cavalli che si annida il sessismo: la realtà, purtroppo, riflette tali atteggiamenti. Uomini violenti, incapaci di accettare il rifiuto, usurpano il corpo delle donne come oggetto di piacere e possesso. Cavalli, con uno stile chirurgico e freddo, sottolinea questo orrore, spingendo il lettore nell’abisso della misoginia dilagante.
Il romanzo si fa voce di una verità scomoda: il problema non sono solo gli uomini violenti, ma anche coloro che temono di diventarlo, evidenziando la fragilità di una società intrisa di patriarcato.
Le parole di Clementina Merlin, nel romanzo giornalista e attivista, rappresentano la cruda essenza del patriarcato, sottolineando la necessità di una rivoluzione culturale per rompere questo circolo vizioso di violenza e colpa auto-inflitta dalle vittime.
“I mangiafemmine” è un libro claustrofobico, una lettura che stringe lo stomaco e afferra l’attenzione, portando l’angoscia del lettore a livelli estremi. Cavalli adotta uno stile ruvido e crudo, sconvolgente ma necessario per far emergere la drammatica attualità del tema trattato.
Il romanzo è uno spaventoso specchio della nostra realtà, una lettura urgente per tutti coloro che cercano di comprendere e combattere questa epidemia di violenza che ancora affligge la nostra società.
@CriticaLetteraria recensisce #IMangiafemmine
“Lui era un brav’uomo e rimane un brav’uomo al di là di quello che ha fatto, se l’ha fatto”, spiegherà il portiere non mancando di ripetere a tutti come Tullio Ravasi fosse dedito al lavoro: “Lavoro lavoro lavoro, solo quello, fino a tardi, dalla mattina prestissimo, e quando torna a casa si ritrova quel muso buio di una moglie ingrata, eternamente insoddisfatta”. Al radio giornale pure la madre di lei a mezza bocca dovrà ammettere che ce ne vuole per esaurire la pazienza del marito di sua figlia. “Come può un uomo che lavora tutto il giorno per garantire l’inedia della sua signora non esplodere?”, chiederà un passante senza nome e cognome da scrivere nel sottopancia del servizio televisivo. (p. 28)
La moglie “ingrata”, Frida, è stata uccisa dal tanto paziente marito che da molto tempo ormai, non le dedicava alcuna attenzione, rincasava tardi, stanco, così lui riferiva, ma nessuno sapeva che Tullio abusava nel suo ufficio, ma anche altrove, delle stagiste che avevano bisogno di lavorare e stavolta la nuova ragazza aveva avuto il coraggio di denunciare tutto. Il pericolo dello scandalo e le conseguenze legali del suo comportamento lo avevano incattivito e capro espiatorio di tanta tensione era stata sua moglie che già da tempo si era confidata con la madre, manifestando preoccupazione:
«No, mamma, non posso stare sempre zitta. […] Questa volta è diverso. Tullio non è stanco, è diventato cattivo. Ieri sera è tornato a casa, puzzava di alcol, la camicia increspata e i capelli schiacciati. […] Te lo giuro, mi guardava con odio. Odio». (p. 22)
Frida, Sonia, Clara e altre donne sono state uccise dai loro compagni, ossia dalla persone cui un giorno avevano deciso di affidare la propria vita. È la cronaca nera che dà in pasto al sensazionalismo dei media storie e retroscena di violenze, stupri e femminicidi. Nella nazione di DF, quello stato immaginario che abbiamo già visto nei romanzi Carnaio e Nuovissimo testamento, Giulio Cavalli osa provocare per l’ennesima volta, e forse anche di più rispetto ai precedenti libri della trilogia, creando una situazione paradossale: il femminicidio è ammesso dalla legge. È legale uccidere donne. A DF il femminicidio è parificato all’attività venatoria: l’uomo, il cacciatore per eccellenza, va a caccia di donne e le uccide, allo scopo di combattere l’esuberanza numerica della popolazione di sesso femminile. Quello che conta è rispettare le normali regole igieniche, seguire le istruzioni dettate dal ministero evitando di uccidere la donna in presenza di minori che possano assistere allo spettacolo di caccia. Questa è l’unica “delicatezza” concessa, per il resto l’utilizzo o meno di brutalità, l’abuso sessuale prima o dopo la caccia non è neppure tenuto in considerazione dalla normativa. L’oggettificazione della donna raggiunge allora il culmine: non solo il suo consenso non è richiesto in nessuna occasione, ma è qualcosa di cui disfarsene quando diventa molesta. È come dire che il bene-donna, nel libero mercato della nazione di DF, è un surplus di cui non se ne fa nulla, non è parificato alla persona, ma alla selvaggina ed è necessario disfarsene seguendo regole di smaltimento ben precise: eliminare donne per rispettare l’equilibrio sociale e demografico di DF.
Decreto Legge n. 55/4231 Misure straordinarie per la regolamentazione temporanea dell’attività venatoria speciale/straordinaria del femminicidio
IL PRESIDENTEVisti gli articoli 77 e 87 della Costituzione, […] Decreta:Articolo 1 – FinalitàIl presente Decreto Legge stabilisce misure straordinarie per la regolamentazione della caccia al fine di preservare l’ordine pubblico e i principi etico-sociali, nel rispetto delle nome igienico-sanitarie.
Articolo 2 – autorizzazione all’attività venatoria specialeè consentita la pratica venatoria volta all’equilibrio dei generi, secondo i protocolli e le modalità stabilite nel presente Decreto Legge. L’autorizzazione alla caccia è subordinata al possesso di una licenza rilasciata dalle autorità competenti, previo superamento di un esame attestante la conoscenza delle norme igienico-sanitarie e delle regole di sicurezza. (p. 123)
Leggendo il nuovo romanzo di Cavalli, ci si rende conto paurosamente di quanto il paradosso, o se si vuole, la distopia che lui costruisce sia lo specchio fedele della realtà in cui viviamo, ma di cui fatichiamo a renderci conto. Nella storia vi sono personaggi politici inventati, con sigle politiche generiche, ma dietro cui non si fatica certo a trovare le posizioni, le ipocrisie e la corruzione della classe politica, italiana e non solo. Ospitate televisive in occasione delle elezioni, scontri verbali fra esponenti di forze avversarie da cui partono a razzo parolacce o ingiurie che mettono in imbarazzo l’intero partito e a cui bisogna entro il giorno dopo porre rimedio tramite social, magari con un post. È la politica che salva le apparenze, partecipa ai diversi programmi televisivi per parlare del niente e creare discorsi che mirano a infangare il partito nemico, contando sul power dressing (leggi: l’abito fa il monaco) e distogliendo l’attenzione dai problemi reali. È proprio il caso di Valerio Corti, che, partecipando a una intervista televisiva, è convinto di farcela e di fare del suo partito quello vincitore nel parlamento di DF, ma nel confronto verbale con Clementina Merlin, direttrice del giornale DF unita ed esponente del partito opposto, quello dei democratici, commette una serie di gaffe e si fa scappare di bocca commenti ingiuriosi sulla donna che gli aveva chiesto semplicemente come mai nel suo programma politico non fossero state previste misure per arginare i casi di violenza sulle donne, alla luce anche del recente omicidio di Frida per mano del suo compagno:
“Come le fa brutte le donne, l’isteria”, disse allora ammiccando storto verso la telecamera. […] Dismette la postura da damerino.“Guardi Clementina…”“Merlin”, lei lo interrompe.“Signorina”, dice Corti, “non vorrei sbagliarmi, poiché le indagini sono ancora in corso, ma questa Frida non era propriamente un’eroina. Quel che sappiamo, lo può leggere sui giornali, è che questa Frida, pace all’anima sua, ha potuto comodamente dedicarsi al solo mestiere di moglie, senza doversi alzare per andare a fare un lavoro normale. E il suo dovere non lo ha esercitato molto bene se il povero marito è stato trascinato dall’ esasperazione fino a compiere un gesto inimmaginabile a detta di chiunque lo abbia conosciuto. […] (pp. 46-48)
Discorsi maschilisti, frasi e commenti sessisti però non si leggono, ahimè, solo nei libri distopici! E Frida, come si è già detto all’inizio, in questo romanzo non è l’unica vittima di uomini violenti. Uomini che non sanno accettare un no, che non si capacitano della fine di una storia, uomini che chiedono a una donna di licenziarsi dal proprio lavoro e di dipendere solo dal maschio, uomini che approfittano dell’occasione e diventano ladri di corpi di donne, usandoli a proprio piacimento per poi disfarsene, uomini che continuano a pensare che la donna sia “roba” loro, uomini che temono la donna forte. Uomini mangiafemmine, appunto.
Un romanzo davvero provocatorio, forte, dissacrante, scritto da un artista libero, che non ha paura di esporsi, che sa dominare le pagine con uno stile davvero interessante, fluido e chirurgico insieme, volutamente freddo a volte, laddove il freddo serve per agghiacciare le coscienze.
Il problema non sono solo gli uomini che uccidono o che stuprano, il problema sono anche gli uomini che non uccidono e non stuprano ma hanno il terrore di avere prima o poi il bisogno di farlo. Nella loro testa è sempre la reazione sbagliata a una rabbia giusta. E se non delegittimiamo quella rabbia, la nostra salvezza dipenderà sempre dal buon cuore del nostro nemico. (p. 151)
Voglio chiudere la mia recensione con questa citazione, che è uno stralcio del discorso di Clementina Merlin, nel romanzo democratica e giornalista attivista per i diritti delle donne, perché trovo che sia emblematica, in quanto in essa è condensata l’essenza del patriarcato, che, ci piaccia o meno ammetterlo, ha profonde radici nella nostra tanto evoluta cultura. Tra le righe si legge infatti: «io, uomo, posso aver bisogno di farti del male, ucciderti anche, se mi dai motivo di farlo». La donna vittima di violenza – lo dicono i dati – si colpevolizza, si sente causa del suo male, prova verso sé stessa disgusto e vergogna e questo circolo vizioso che si crea è alimentato proprio dal maschilismo che continua a considerare la donna un essere inferiore e più debole bisognoso di essere guidato, mero oggetto di soddisfazione sessuale. Questo retaggio medievale, duro da combattere, ha dato sfogo alla frustrazione dell’uomo che in età recente ha visto diventare la donna sempre più libera, sempre più indipendente. La violenza è la punizione per aver osato emanciparsi. Per cominciare a fare davvero qualcosa di concreto, non bastano leggi e decreti, c’è bisogno di una rivoluzione culturale, di un nuovo paradigma su cui impostare una nuova visione del mondo veramente inclusiva e paritaria.
https://www.criticaletteraria.org/2023/12/blog-post.html?m=1
Il quotidiano Domani su I mangiafemmine (e un estratto dal libro)
Nel primo Consiglio dei ministri che convocherò entro la fine della prossima settimana interverremo con un decreto», dice la presidente Marzia Rizzo testa sul microfono come un abbeverarsi, «legalizzando il femminicidio e chiudendo una volta per tutte questa piaga infestante che ha assalito il dibattito pubblico. Il popolo ha espresso la sua volontà, ci affida la responsabilità di occuparci di cose ben più serie per la prosperità dei cittadini di DF».
«Legalizzare il femminicidio?». Nella sede dei Democratici, uffici usurati e odore di mensa, la conferenza stampa della presidente Marzia Rizzo è seguita nel salone principale da una televisione larga e pesante ormai fuori produzione. «Legalizzare il femminicidio è impossibile, ha preso un abbaglio, avrà voluto dire normare e le è scappata la mano», dice un senatore che anche questa volta è riuscito a rientrare in Parlamento, per 110 fortuna, visti i debiti ancora da pagare.
Il segretario dei Democratici assiste alla trasmissione su una sedia di magazzino, i gomiti sulle ginocchia, una campagna elettorale appena persa che non ha lasciato segni. Alla brocca del caffè Mario Spini, un vecchio comunista che ancora legge libri, lamenta un «periodo nero, nerissimo, per cui non siamo pronti, per cui non siamo attrezzati», e gli altri che gli dicono di smetterla, di accontentarsi, che ha guadagnato un altro giro di giostra alla sua età e non ha ancora imparato a fare un caffè. In fondo alla stanza si consigliano di non evidenziare l’errore, non è questa l’opposizione che gli elettori si aspettano, non è una parola sbagliata a fare perdere il consenso a questi che sono una corazzata. Dall’osservatorio del sentimento sui social dicono che quella frase sostanzialmente è passata inosservata. «Alle femministe gliela farà pagare. Questo lo possiamo dare per certo.
Il suo elettorato glielo chiede ma soprattutto glielo chiede Corti che non sopporta l’idea di essere stato fatto fuori su un tema che per lui non dovrebbe nemmeno esistere», Filippo Sansa è il segretario particolare del segretario, quando dice qualcosa i parlamentari gli prestano attenzione perché conoscono i passaggi di idee all’interno del partito: Sansa propone, il segretario talvolta si limita a smussare ma l’azione finale ricalca la proposta. Il segretario ombra lo chiamano quelli della minoranza interna che vorrebbero scalzare il segretario da anni ma ogni volta ne escono sconfitti. «Ai cittadini di DF interessa l’economia. Vedo che continuate a non capirlo. Non interessano le battaglie ideologiche sui principi. Non interessa l’azione residuale di chi radicalizza lo scontro ma non propone soluzioni», dice Luigi Barattini, l’economista per tutti, professore universitario in una scuola senza iscritti ma membro nei direttivi di una dozzina di fondazioni. «Sì Luigi», gli risponde Sansa, «posso anche essere d’accordo con te ma Valerio Corti non ha perso la poltrona da presidente per una previsione errata sull’inflazione».
Sbuffa, Sansa. Lo scontro nel partito tra chi ritiene gli elettori selvatici sottosviluppati da non inseguire nei loro pruriti e chi, come lui, chiede di intercettare anche i desideri, oltre ai bisogni, è una litania quotidiana. Filippo Sansa non lo vuole nemmeno fare quel lavoro, non sopporta ricoprire quel ruolo. Filippo Sansa ha la natura del funzionario di partito, ama smistare le elaborazioni dei gruppi di lavoro, allertare gli esperti sui progetti di legge, coordinare i gruppi locali e nazionali, tirare le somme degli incassi nelle feste e negli eventi.
Pragmatico, dicono di lui. Il segretario del partito lo vuole con sé perché «il Sansa vede le cose come le vede la nostra gente, è la cinghia di distribuzione tra dirigenti e popolo». «Nei nostri circoli ci si chiede perché non siamo capaci di esprimere una donna come segretario», affonda Sansa. Qui il segretario solleva i gomiti e si pone eretto. «In che senso?», gli chiede, e Sansa spiega che tra gli iscritti al partito galleggia un’evidente delusione per l’intuizione di candidare a presidente di DF una donna, dice Sansa che gli iscritti gli chiedono perché «non siamo arrivati prima noi». «Le iscritte, immagino», interviene il deputato Torlisi.
«Gli iscritti, anche gli iscritti maschi», puntualizza Sansa. «Me li vedo i nostri iscritti Democratici che non dormono la notte perché non abbiamo una donna come segretaria, interessati più al sesso che alle qualità della guida della nostra comunità. A me pare che qui si stia perdendo la bussola. Se domani lanciamo una campagna in difesa degli uccelli dobbiamo proporre un’upupa come ministra all’Ambiente?», chiede Barattini mentre smammola sul telefonino sudato. «Io dico la mia», dice Sansa che ha voglia di troncare la discussione, in sottofondo s’ode Marzia Rizzo rispondere sulle iniziative per richiudere il buco dell’ozono.
«I nostri hanno bisogno di essere scaldati con battaglie identitarie. E infatti in questa campagna elettorale si sono mossi poco, svogliati e male», dice Sansa. Il segretario dei democratici ora è in piedi. «Andare alla guerra contro un governo che non si è ancora insediato accusando una donna di essere nemica delle donne sarebbe un gesto di poco rispetto istituzionale, basato su un pregiudizio. La Rizzo ha anche una figlia femmina. Faremo solo la figura dei fessi, ancora una volta». La discussione è chiusa, forse.
Guardando la conferenza stampa, Clementina si riempie di collera. «Legalizzare il femminicidio?», Clementina Merlin chiama immediatamente la redazione. «Questa è la notizia da mettere in prima», dice trafelata al suo caporedattore. «Non lo so, ora vediamo, non ne sta parlando nessuno, nemmeno i Democratici rispondono, rischiamo di montare un caso inesistente». «Inesistente? Ma cosa serve di più, che vengano a manganellarci in casa? Ma perché siete così cretini?». «Clementina, al solito esageri e io non ho tempo da perdere, devo chiudere il giornale». La stimano in redazione. Però «quando vuole sa essere davvero insolente», dicono. Lei ora vorrebbe poter parlare per l’ultima volta con suo padre, chiedergli un consiglio. «Legalizzare il femminicidio?».
Quando Marzia Rizzo pronuncia la frase, Beatrice Vagnati sta bruciando nel boschetto dietro alla stazione di Saranda. Aveva sedici anni fino a un minuto fa. Ora ha milioni di anni come la cenere che si appoggia. Era contenta di Mario, più grande, con la patente. A volte le faceva il piacere di accompagnare al supermercato anche le sue amiche, in classe con lei. Passavano a prenderle, come gli adulti, lei scendeva per alzare il sedile e spedirle dietro perché il sedile davanti, di fianco a Mario, quello delle mogli, era roba sua. L’ha conosciuto alla festa della scuola, lui era fidanzato con una all’ultimo anno. Ma era una puttana, diceva, perché lo tradiva in continuazione. A Beatrice ha fatto tenerezza, così ferito e bistrattato, nonostante il taglio sul sopracciglio destro.
Oggi uscivano per festeggiare un anno di fidanzamento, Mario si è arrabbiato per un messaggio nel telefono di Beatrice, un compagno di classe che la salutava con baci. «Che cazzo bacia? Che vuol dire Bea?», le ha chiesto. «Baci, si dice baci mica perché si bacia, si dice baci come si dice ciao», ma lui no, lui sapeva che semplicemente gli era scappato perché si baciano davvero. «Pensi che sia stupido? Pensi di prendermi per il culo?». A lei veniva da ridere ma non rideva per non farlo arrabbiare di più, lo baciava a baci piccoli sulla bocca come i pappagalli mangiano i biscotti, lui l’ha spinta sul sedile con una manata sulla faccia. «Ma sei scemo?».
«Chi cazzo è questo? Chi cazzo è?», diceva mentre le stringeva le mani sul collo, urlandole come poteva fargli questo, anche lei come tutte le altre, «Ma allora siete tutte puttane», e ripeteva rispondi!, le diceva rispondi!, ma lei non respirava più. Terrorizzato, non voleva. Non se n’è nemmeno accorto. La solleva, non ci riesce, la trascina in uno spiazzo, ha una tanica di benzina per il decespugliatore. Gli rimane l’odore dei capelli bruciati, sembra plastica.
Quando i giornalisti chiedono a Valerio Corti cosa ne pensi dell’ennesimo femminicidio lui risponde che, se è un femminicidio anche un litigio tra ragazzini, allora vale tutto. «Ancora con questa storia? Non preoccupatevi, ora la sistemiamo». Saluta. Ora che è al governo la scorta ha un’auto nuova, più veloce e più elegante.


Transfuge.fr recensisce “Nuovissimo testamento”
In una nuova distopia profetica, L’ultimo Testamento, Giulio Cavalli descrive un mondo privato di sensibilità dove i cittadini sono robotizzati per essere meglio governabili
Immaginiamo un paese dove i sentimenti non sarebbero più in corso, lo Stato inoculando ai cittadini, dalla nascita, “un vaccino che impedisce loro di esprimere le loro idee, la loro personalità e le loro inclinazioni, instaurando di fatto una dittatura che trae vantaggio da un popolo assonnato incapace di rendersi conto della sua letargia, e permettendo al governo di sopprimere ogni possibilità di scambio democratico”. Amorfo, atrofizzato, appiattito, questa nazione ha perso fino alla nozione di libertà incondizionata. Tutte le forme estetiche sono state smussate o cancellate per anestetizzare gli spiriti; la sensibilità si è attenuata così tanto nel corso degli anni che abbiamo dimenticato la musica e i libri, quei “testi che raccontavano altri mondi”. La vitalità e l’immaginazione sono vietate; ad ogni cittadino viene assegnato un coniuge per un tempo limitato, per scopi strettamente procreativi, e i bambini sono curati da un Centro speciale dove sono “svezzati, svezzati, istruiti, nutriti, vestiti, istruiti, rimproverati, iniziati alle esperienze affettive e sessuali e poi promossi o bocciati”. Abbiamo istituito una nomenclatura per
comunicare le sensazioni e si ricorre a una scala digitale per parlare degli stati d’animo.
Questo paese sanificato, amputato delle sue emozioni e controllato da un vaccino, Giulio Cavalli lo chiaddeò DF, un acronimo che dà molte interpretazioni, sia in francese che in italiano. Il suo presidente, Andrea Bussoli, assicura il mantenimento dell’ordine attraverso una ‘polizia affettiva’, ma un focolaio di resistenza si diffonde in clandestinità a favore del contrabbando. Refrattari alle amicizie ‘robotizzate’, ricoverati a causa di una ‘retenzione affettiva fallita’, i ‘malati seriali’ si ribellano al ‘genocidio emotivo’ di questo regime spartano costituendo Brigate sentimentali che organizzano attentati. Grazie a un antidoto al vaccino, provano dubbi, rabbia e indignazione. Sebbene considerati terroristi, questi eccentrici ottengono di poter discutere in televisione con il presidente che concede loro un referendum sul diritto all’empatia.
Sia divertente che inquietante, il paradigma suggerito dal romanziere italiano ricorda gli anni di piombo e l’era berlusconiana, ma anche la propaganda paranoica delle politiche di contenimento a cui hanno portato le recenti crisi sanitarie. Di capitolo in capitolo, questo romanzo di anticipazione densa e fluida si diffonde come una profezia intrisa di una visione sovversiva la cui portata evoca classici come Fahrenheit 451 di Ray Bradbury o L’arancia meccanica di Anthony Burgess. Le sue molle retoriche sono l’iperbole e l’ironia, ma l’esito, che era già quello di La voce della luna, l’ultimo film di Federico Fellini, rimane comunque pessimista: “I cittadini di DF erano solo un mucchio di idioti e cosa ci si può aspettare da un popolo peloso che vede la sicurezza nella speranza che nulla si muova intorno a lui? »
L’Ultimo Testamento di Giulio Cavalli, romanzo tradotto dall’italiano da Lise Caillat, alle Edizioni dell’Osservatorio, maggiori informazioni
Giulio cavalli intervistato da La Provincia di Como sullo spettacolo ‘A casa loro’
Giulio Cavalli: «Violenza sui migranti, la colpa collettiva»
L’attualità più drammatica e discussa irromperà, questa sera, martedì 28 novembre, sul palco del Teatro Sociale di Como. Alle 20.30, per il ciclo Prosa Off, va in scena “A casa loro”, un monologo teatrale che Giulio Cavalli, giornalista, scrittore, autore e attore teatrale, ha scritto con Nello Scavo, giornalista di “Avvenire”, nonché reporter internazionale e cronista giudiziario.
Lo spettacolo è stato scelto anche come primo step dell’abbonamento Under30, pensato per il pubblico tra i 18 e i 30 anni, con spettacoli eterogenei, attorno ai quali sono costruite serate ad hoc. In questo caso, l’appuntamento collaterale si terrà alle 18.30, in collaborazione con FuoriFuoco, collettivo giornalistico composto da ragazze e ragazzi under30 di Como e provincia. Essi presenteranno un proprio lavoro di indagine sul tema della migrazione, nel nostro territorio. (I biglietti per lo spettacolo costano 20 euro più prevendita. Info: 031/270170 e www.teatosocialecomo.it). Con Giulio Cavalli, da sempre impegnato in un teatro che dia voce ai temi dell’oggi, anticipiamo i temi del monologo.
Cavalli, lo spettacolo che la vedrà in scena, stasera, con il chitarrista Federico Rama, tratta il tema delle migrazioni. Da che punto di vista?
Abbiamo scelto di concentrarci sulle condizioni in cui vengono detenuti, illegalmente (lo sanciscono tutte le organizzazioni internazionali), i migranti in Libia. È la famosa “esternalizzazione delle frontiere” che è tornata in voga anche ultimamente con gli accordi tra Italia e Tunisia e successivamente, tra Italia e Albania. A me e a Nello interessava raccontare cosa significhi veramente “a casa loro”, per avere contezza che si tratta di violenza sistemica compiuta da persone pagate e addestrate da noi e dall’Unione europea. La colpa è collettiva.
Tutto si basa su un’inchiesta giornalistica.
Sì. Noi abbiamo scelto di non dare un giudizio ad una vicenda che è pre – politica. Credo che chiunque possa essere d’accordo sul fatto che questi migranti abbiano il diritto a non essere imprigionati, a non essere vittime di torture e violenze, a non essere uccisi. Persone di sensibilità politica diversa, anche contrapposta, non possono non riconoscere come ingiusta questa situazione, che nega i diritti fondamentali dell’uomo.
Che tipo di linguaggio avete utilizzato?
Alla base c’è il preziosissimo lavoro di Nello Scavo che propone un giornalismo di qualità che vuole essere testimonianza. Inoltre tra i materiali per la costruzione del monologo abbiamo inserito le voci di molti migranti che Nello ha incontrato. Il registro linguistico è quello del teatro civile.
Possiamo considerare il tema divisivo?
In realtà, no, almeno per quanto riguarda lo spettacolo. Questo allestimento ha infatti preso una piega inaspettata. Abbiamo avuto il privilegio di “costruire” un circuito teatrale che non esiste e che passa dalle sale comunali alle chiese. Il pubblico è eterogeneo e proviene da mondi diversi che difficilmente, altrimenti, si toccherebbero. Proprio perché proponiamo una questione “pre – politica”, come dicevo, suscitiamo reazioni concordi. Mi è capitato di parlare con gente che non vuole sentir neppure parlare di migranti, non li vuole qui. Eppure tutti comprendono che l’orrore dei campi di detenzione deve finire. Si pretende che l’Italia faccia la sua parte per il salvataggio di queste persone, Mi sembra una vittoria. Eppure questa semplice constatazione viene un po’ furbescamente nascosta dalla politica.
Crede che ci sia qualche speranza, perché le cose possano cambiare in meglio?
Le vicende a cui assistiamo non fanno ben sperare. Io confido però nella attuazione rigorosa delle convenzioni internazionali.
Il teatro è importante per mettere sotto gli occhi dello spettatore fatti che si vorrebbero ignorare?
Il teatro è sempre una voce importante anche se non è la sede per cambiare il corso degli eventi. Quello spetta, ovviamente, alla politica.
Un’ultima domanda sul suo ultimo libro, in uscita: “I mangiafemmine”. Un romanzo sul tema, purtroppo, attuale del femminicidio?
Non ho scritto sul femminicidio in senso stretto. Come già in “Carnaio” mi interessava mostrare come sia facile scivolare nell’orrore. È un romanzo iperrealista e disturbante che vuole costringere a pensare.

Su “I mangiafemmine” Concita De Gregorio per la Repubblica
E’ uscito il nuovo libro di Giulio Cavalli, autore di “Carnaio”. (“Carnaio”, nel 2019, ha vinto il Campiello Giuria dei letterati, è molto tradotto per l’estero. Cavalli, 1977, vive sotto scorta per il suo impegno contro le mafie). Il nuovo libro s’intitola “I mangiafemmine”, l’ho letto in una sera. Anche questo è ambientato in un tempo e in un luogo immaginari, un leggerissimo futuro. Valerio Corti, candidato ultraconservatore, è in campagna elettorale mentre il paese è devastato da un’epidemia di violenza contro le donne, a migliaia morte ammazzate.
Il candidato premier lo trova un fatto di natura. Pensa difatti che sia ora di abbattere ipocrisie e teoremi fallaci. Se si vuole costruire una Patria che si regga sulla famiglia la donna deve accettare il suo posto nel mondo e non rompere l’ordine naturale delle cose. Il rispetto della donna – dice – non consiste nell’illuderla di poter accedere a ruoli che non le competono. La missione della donna è il dolore. Le donne soppresse dai loro mariti sono un argine al populismo di genere che ha intossicato il vivere civile. L’omicidio è una legittima difesa di uomini che si sentono scavalcati, traditi, lasciati, oppressi sviliti e malserviti.
E’ ora di un grande movimento specista che ripristini la verità storica: il capo famiglia ha l’obbligo, con tutti i mezzi, di proteggere se stesso e i propri figli dalle isterie. Corti è dunque pronto a sostenere la riforma più rivoluzionaria della storia recente. Visto che il femminicidio è strutturale, ineliminabile la soluzione è solo una: legalizzarlo. Il problema, difatti, non sono gli uomini che stuprano e uccidono ma tutti quelli che temono di aver prima o poi bisogno di farlo. E ora: votate.

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