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Spettacoli

Migranti, la “denuncia” di Giulio Cavalli. “Prima del mare, i migranti li abbiamo inghiottiti noi”

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In un certo senso, il suo è un debutto. Giulio Cavalli arriva a Palermo e con “A casa loro”, monologo sulle migrazioni scritto a quattro mani con il giornalista Nello Scavo, e per la prima volta si esibisce di fronte ad una platea composta in larga parte dai protagonisti dell’opera. In arido gergo burocratico li chiamano “minori non accompagnati”, ma sono i circa duecento ragazzi migranti che negli ultimi due anni hanno seguito il percorso di Harraga2, il progetto del Ciai, in collaborazione con Cledu, Send, Cesie e Comune di Palermo, che con loro ha costruito un percorso di formazione e inserimento nel mondo del lavoro. “È una bella responsabilità – dice Cavalli poche ore prima dello spettacolo in programma stasera al Biondo –  ed anche una sorta di verifica di quello che diciamo e come lo diciamo”. Attore impegnato, drammaturgo, scrittore, giornalista, più volte minacciato dai clan e per questo in passato obbligato ad accettare la scorta, torna al teatro. “In un momento in cui tutti siamo invasi da informazioni sempre più mediate, anche solo dagli strumenti che usiamo, è il ritorno a una presenza fisica che permette a chi ascolta che può verificare anche l’onestà intellettuale di chi è sul palco”. E quello delle migrazioni è tema caro, “profondamente umano oltre che tecnico, ancor prima che politico”.

Questo spettacolo ha uno scopo, un obiettivo?

“Riportare la discussione nell’alveo dell’emergenza umanitaria e non della gestione di flussi, parlare di persone. E in questo senso il teatro può essere il mezzo più adeguato”.

“A casa loro” non è stato scritto di recente, ma rimane di straordinaria attualità

“La prima versione è stata scritta quando c’era ancora Gino Strada. Di recente, Nello Scavo e io lo abbiamo rimaneggiato e aggiornato, ma la storia rimane la stessa. È cambiata la narrazione che viene costruita sopra, ma si continua a morire e anche gli appelli, che arrivino da Papa o dall’Onu, rimangono in un circuito endogamico, per cui li legge e li ascolta chi è interessato al tema. I morti li cominciamo a notare solo quando sporcano il tappeto dei salotti, allora andiamo nei salotti”

La strage di Cutro pensi abbia modificato la percezione in Italia?

“In parte sì. Dal mio angolo di osservazione vedo persone xenofobe che sono in difficoltà. Per la prima volta mi capita di vedere persone che sentono la necessità di scrollarsi di dosso una tragedia, quindi vuol dire che la tragedia è particolarmente appuntita. Certo, dover fare dei progressi sociali sulla pelle della gente è di un cinismo devastante”

Un italiano che va all’estero è “un cervello in fuga”, chi viene qui spesso un invasore. Perché?

“Primo, perché gli italiani hanno la fortuna di arrivare in Paesi più civili. In generale, c’è chi non capisce che queste persone non possono salire su un aereo perché non hanno un passaporto che glielo permetta”.

Come si è arrivati a questo?

“Prima di essere inghiottiti dal mare, i migranti li abbiamo inghiottiti noi. Oggettivizzandoli, anzi numerizzandoli, nel senso che per noi le migrazioni sono sempre state numeri. Flussi, numeri, grafici, abbiamo tolto le facce, i nomi. Ed è successo anche  con l’aiuto di utili idioti nel mondo del giornalismo che hanno trattato questo tema come se fosse una questione di statistiche e non di persone”.

Proviamo a fare un esempio

“Basta pensare alla differenza nell’accoglienza tra gli ucraini e quelli che vengono identificati come “i negri”. Per sentirci assolti nel respingerli, dobbiamo convincerci che siano altro da noi. E quelli hanno un particolare che li renda altro da noi”.

La politica che ruolo ha avuto in questo?

“Ieri, dopo il naufragio davanti alla Libia di persone che per giorni avevano chiesto aiuto, la destra e anche pezzi del centrosinistra si sono interrogati per tutto il giorno sui metri in cui sono morte delle persone, per decidere se sia responsabilità nostra. Se ci pensi questo è espressione pura del federalismo, che poi è diventato sovranismo. E questo è il grande danno del nostro Paese, culturale e sociale: averci convinto di avere il diritto di occuparci delle cose più vicine a noi. La  frase “io penso prima ai miei figli, ai miei amici, ai miei parenti” è totalmente sdoganata. Ed è incostituzionale”.

In nome della sicurezza, sono stati approvati decreti in materia di migrazioni, mentre i magistrati lanciano l’allarme sullo smantellamento della normativa antimafia. È un paradosso?

“Quando un sistema criminale diventa sistema di potere scompare dal radar delle emergenze. E in questo Cosa Nostra, ndrangheta, camorra ci sono riuscite benissimo. Nel momento in cui loro non sono più riconosciuti come emergenza, è inevitabile che ritorni l’impunità sotto le mentite spoglie del garantismo”.

E ai migranti identificati come minaccia come si arriva?

“È la percezioni criminale avvantaggiata dall’aspetto tattile. Siccome di mafiosi non hai più la sensazione di incontrarne uno per strada, anche se magari lo hai votato, e invece i migranti li incroci per strada, è rassicurante soprattutto per quelle persone che non hanno voglia di studiare, di informarsi avere la sensazione di poter riconoscere il pericolo. La riconoscibilità del pericolo fa sentire in grado di proteggersi, tant’è che molti votano non persone in grado di affrontare gli eventuali pericoli, ma coloro che ne danno un’identificazione semplice”.

Antimafia Duemila sugli spettacoli “A casa loro” e “falcone, borsellino e le teste di minchia”

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Ieri, al teatro comunale di porto San Giorgio è andato in scena il monologo ‘A Casa Loro’ interpretato dall’artista antimafia e giornalista Giulio Cavalli. Un monologo teatrale che nasce dai reportage di Nello Scavo (giornalista di Avvenire) e racconta il dramma di chi prova a fuggire dall’Africa per arrivare in Italia, restando spesso imprigionato in Libia.

Questa sera, invece, venerdì 24 febbraio (ore 21.15) l’Isola di Chiaravalle in via G. Bruno 3 ospiterà lo spettacolo “Falcone, Borsellino e le teste di minchia – Il ridicolo onore” scritto e interpretato sempre da Giulio Cavalli.

Recuperando i canoni dei giullari del ‘500 ma conservando il rigore del giornalismo d’inchiesta, il monologo ripercorre la storia delle mafie, smontando il presunto onore dei boss con la risata. Ridere di mafia diventa così una sorta di antiracket culturale: la parola come arma bianca con cui prendere parte ad una battaglia che non può e non deve passare di moda.

Castigat ridendo mores direbbero i latini: correggere i costumi con la risata.

I due monologhi, ha detto Cavalli, “sono i due temi su cui stiamo lavorando quest’anno e sono temi su cui io lavoro da sempre quindi quello dell’immigrazione, anzi più dell’immigrazione direi sullo sconcio accordo che c’è tra Italia e Libia e per cui l’Italia è capofila nell’Europa per pagare miliziani libici di questo stato che in realtà non è uno stato“.

L’altro ieri Giorgia Meloni diceva a Kiev ‘bisogna vedere con i propri occhi’, e io penso che il teatro e il giornalismo sia un ottimo modo per portare le persone lì senza che si debbano spostare”.

‘Falcone, Borsellino e le teste di minchia’ “invece riprende il mio teatro più classico, quindi la giullarata, e racconta di questi trent’anni di mafia, di antimafia, di tutto ciò che non va nella narrazione che c’è stata e del fatto che abbiamo dato molto credito ai boss mafiosi – ce ne siamo innamorati non per ultimo Matteo Messina Denaro – e che ancora trent’anni dopo continuiamo a raccontare le mafie come un sistema criminale e non come un sistema di potere. L’anno scorso era il trentennale di Falcone e Borsellino e uno dei più grandi insegnamenti che ci hanno lasciato era stato proprio questo”.

“Nel primo caso lo spettacolo sulla Libia è uno spettacolo classico mentre nel secondo si ride perché sono convinto che la risata contro la mafia funzioni. Ce lo insegnano i giullari del ‘500 che i potenti ma soprattutto i prepotenti non sopportano la risata”.

E poi ancora, in merito al dibattito che si è accesso intorno al 41 bis: uno degli scopi di una “precisa parte politica del governo, mi sembra evidente, lo raccontano gli ultimi vent’anni della storia di questo Paese” sia “abolire mezzi di indagine o comunque mezzi giudiziari che servono per sconfiggere la mafia” in “nome di un garantismo che non ha niente a che vedere con il garantismo”.

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Sto cercando unə organizzatore/trice teatrale.

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Non sto qui a spiegare perché la vita ti porta ad allontanarti da qualcosa che ritenevi imprescindibile fino a un minuto prima. Accade così.

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Draghi, Lega, ddl Zan: il male non è fare politica al Primo Maggio ma i partiti che controllano la Rai

Le domande giuste e le domande sbagliate, a prima vista, sembrano sempre più o meno la stessa cosa. La differenza è che le domande sbagliate di solito vengono poste per non ottenere risposte, ma per aumentare la polvere e la schiuma e inevitabilmente per ottenere più coinvolgimento. Più dibattito confuso, più viralità, più clic, più introiti pubblicitari e più popolarità.

Le domande sbagliate sono quelle che oggi si attorciglieranno su Fedez, come in una guerra tra galli in cui si chiede di parteggiare per il cantante o per Salvini, con Fedez o con la Rai, e infatti già scivolano le battute sulla Lamborghini, sui soldi, perfino sulla pubblicità visibile del marchio del suo cappellino.


Le domande giuste, invece, sarebbero da porre alla politica tutta, a destra e a sinistra, su un sistema che ottunde, ammortizza, diluisce tutto quello che deve passare in televisione, sulla televisione pubblica italiana, non tanto per censura ma più per una sorta di autocensura che tiene in piedi il carrozzone dell’informazione italiana in cui il primo obiettivo è quello di non incrinare relazioni che valgono molto più delle competenze per la propria carriera in Rai.

Qualcuno fa notare che non c’è stata censura poiché Fedez ha potuto comunque parlare [qui il testo integrale del suo discorso] ma si dimentica di osservare la cappa che sta sulla testa di quelli che, senza i mezzi e senza la potenza di fuoco, invece, non arrivano nemmeno allo scontro e si allineano.

Uscendo dalla diatriba tra Fedez e gli altri, allora, rimangono due punti fondamentali. Primo: che la televisione pubblica e la politica si siano adagiati su questa abitudine vigliacca di credere che i diritti vadano celebrati senza essere esercitati è la fotografia perfetta di un Paese senza coraggio.


Il Primo Maggio è la festa dei diritti ed è doveroso, ognuno secondo le proprie idee, esercitare e reclamare diritti. Altrimenti chiamatelo concerto e non ammantatelo di altri significati.

Secondo: che la politica ogni volta, ciclicamente, faccia finti di stupirsi di quel mostro che è la Rai, che la politica stessa ha creato, è un’ipocrisia intollerabile. Quello che accade a Fedez accade ai conduttori, ai giornalisti, ai collaboratori (ancora di più).

Un’azienda che ha dirigenti il cui merito è sempre quello di essere “diligenti” più che capaci è ovvio che vada a finire così e la responsabilità è tutta politica, è tutta della politica. Questa scena dei piromani che si disperano per l’incendio ce la potreste anche risparmiare, almeno per il gusto della verità e della dignità.

L’articolo proviene da TPI.it qui

Se si insegnasse la bellezza

Eccomi qua, ora è ufficiale, posso dirvelo. Insieme a quei magnifici sognatori de Comuni Virtuosi ci siamo messi intesta di raccontare la bellezza e la saggezza amministrativa che anche se nascosta abbiamo nella nostra bellissima Italia. Soluzioni semplici per problemi complessi di città che sono prima di tutto delle comunità. Ne è venuto fuori un monologo che mi riporterà sui palchi (io che continuo a dirmi che vorrei fermarmi e invece non riesco a trattenermi dalla magia di calpestare palchi) e che mi porterà a girare l’Italia. Abbiamo voluto pensare a qualcosa di agile (sì, sì, anche economicamente “agile”) che possa diventare una riunione condominiale su e giù per il Paese. Festeggiamo così i 15 anni di un’associazione che ha la bellezza come fine. E come si fa a non volere bene a chi nonostante tutto ancora crede che ci siano piccole storie da preservare, da tenere sul palmo della mano e da trasformare in parola. Per ospitare una replica dello spettacolo potete scrivere a info@comunivirtuosi.org. Vi abbraccio. ———————– qui trovate un po’ di informazioni https://comunivirtuosi.org/si-insegnasse-la-bellezza/

Candidiamo i nostri figli

VOCE 1: Ho tre figli. Perché siamo una famiglia larga, come si dice, anche se quando ci prende la paura ci viene da stare stretti. Si chiamano Tommaso, Leonardo, Martino fra dieci anni voteranno, più o meno. Mi sono sempre convinto che la ‘responsabilità’, dico per un padre, se avesse un forma la responsabilità per un padre verso i suoi figli, la responsabilità sarebbe a forma della domanda “e tu cosa hai fatto?”. E non so mica rispondere, ora come ora, sul cosa ho fatto. Ogni tanto mi terrorizza l’idea di dovergli spiegare che mentre tornavo alla sera, a casa, durante il giorno non ero riuscito a scrivere abbastanza forte la disuguaglianza di un mondo dove più del merito conti la geografia, la disuguaglianza di un Paese che s’è messo in testa di punire i fragili, perché non rallentino i potenti e i prepotenti, che spesso sono le stesse persone. Non riesco mica a trovare le parole per dirgli, sul cosa ho fatto io, che il buonsenso a volte nella storia diventa fuorimoda ed è un fardello che costa, a portarselo in giro. Chissà come gli racconto che anche essere buoni, è stato considerato un vizio.

VOCE 2: Nina è mia figlia. Ha cinque anni. Scrive lettere strane, di cui non sempre capisce il significato, e parla molto, ma penso che non abbia preso dal papà. Ora, l’esperimento che vi propongo per i prossimi tempi è il seguente. Immaginate il futuro dei vostri figli. Quando saranno maggiorenni. Per me è facile. Sarà il 2030. Quando saranno grandi, quando potranno votare, quando potranno candidarsi, che quando l’ho detto il giorno dopo De Luca ha candidato suo figlio, per dire che bisogna stare attenti. Nel 2030 si saprà se qualcuno avrà fatto qualcosa per i cambiamenti climatici, altrimenti Nina avrà forse freddo in Europa, mentre molti bambini con i loro genitori scapperanno dalle zone desertificate. E cercheranno riparo da Nina. E a loro, invece della macchina, regaleremo una scialuppa. Nel 2030 si saprà se avremo fatto qualcosa per chi è più povero, altrimenti Nina andrà a scuola e all’università, mentre altre e altri, brave e bravi come lei e più di lei, non potranno permetterselo. Nel 2030 si saprà se una donna sarà ancora più libera, da tutti gli integralismi, dai fanatismi che sono un po’ da tutte le parti, dal machismo e dai maschi che ancora spiegano alle donne come devono comportarsi. Vestirsi. Vivere. E le pagano meno dei maschi. E lasciano loro la cura familiare. Delle nine e degli anziani.

VOCE 1: Chissà come mi guarderanno, da grandi, quando gli dirò che ho provato a occuparmi degli sconfitti, che mi appassionano infinitamente di più i fragili piuttosto che quelli che sono disposti a camminare sulla propria etica pur di riuscire a competere. Nel 2030 chissà come mi guarderanno mentre gli racconto che siamo andati in giro per teatri, tra panchine di cartone, quinte e le valigie stropicciate, le valigie da tournée, a raccontare la speranza di essere tutti uguali. Chissà come mi guarderanno. Che magari, lo spero, mi diranno “ma davvero?” con la faccia di chi non riesce nemmeno a immaginare abbia sbandato così in basso. Chissà se non ci accuseranno di essere stati deboli, indifferenti o peggio codardi a non urlare il nostro sdegno. Chissà se riusciremo a convincerli che ci abbiamo provato dappertutto, in tutti i modi, a raccontare che l’alternativa non solo c’è ma è anche possibile. Anche per teatri, siamo andati.

VOCE 2: Nina vivrà con un sacco di amici che vengono da tutte le parti del mondo. Altri saranno nati in Italia: chissà se allora saranno considerati italiani o se si perderanno altre legislature, come questa. Nina avrà molta tecnologia a disposizione, del resto già usa Lopad – come lo chiama – molto meglio di me. Quella tecnologia renderà la vita più semplice, ma sarà accessibile a tutti? E se sostituirà il lavoro degli umani, ci sarà lavoro per Nina e per i suoi amici? E se si ridurrà il lavoro, come la metteranno Nina e i suoi compagni con il reddito? E avremo consumato altro suolo? E avremo fatto tesoro del risparmio e dell’efficienza energetici? Ecco, personalmente alle elezioni candido Nina. E spero che voi facciate lo stesso con i vostri piccoli. Che non possono votare. Ma sono gli elettori più importanti. Gli unici elettori che contano davvero.

Tratto dallo spettacolo “Sono tutti uguali” di Giulio Cavalli e Giuseppe Civati

Buon venerdì.

L’articolo Candidiamo i nostri figli proviene da Left.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2019/05/10/candidiamo-i-nostri-figli/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

InFolio recensisce “Mafie Maschere e Cornuti”

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Impegnato, ironico, graffiante e, allo stesso tempo, leggero: Giulio Cavalli ancora una volta non si smentisce. Lo spettacolo dello scrittore e teatrante di fama, “Mafie, maschere e cornuti”, è approdato al De Sica in tutta la sua irriverenza, proprio nella Giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Un monologo coinvolgente e interattivo che fa riferimento alla tradizione giullaresca per far cadere le maschere dei mafiosi e “smutandarli”, ovvero mostrarli per quello che spesso sono: personaggi che arrivano da ambienti ignoranti e, a volte, bizzarri, uomini che si ridicolizzano da soli. Uno spettacolo, quello di Cavalli, che tocca diversi argomenti come le infiltrazioni mafiose nel nord Italia e la mitizzazione che le serie televisive rischiano di alimentare raccontando le loro malefatte. Nonostante la serietà dell’argomento e la determinazione con cui l’autore intende trattarlo, il monologo risulta appassionante e divertente, ma di un divertimento che sa di derisione e che fa riflettere lo spettatore sull’assurdità dell’essere in balia di criminali che nient’altro sono se non grottesche rappresentazioni di un certo disagio sociale. Lo show si è tenuto nel contesto del percorso di spettacoli che l’Archivio Storico dell Cabaret Italiano sta promuovendo, inserendosi tra anima popolare e l’omaggio a Nanni Svampa, entrambi prodotti dal musicista e comico Flavio Oreglio. Forte l’appoggio dell’amministrazione che ha collaborato promuovendo la gratuità dell’evento.
«La mafia fa schifo» ha dichiarato Danilo Perotti, consigliere comunale con delega alla Legalità. «È importante creare occasioni, soprattutto con i giovani e con le scuole, affinché i nostri cittadini non lo dimentichino mai. In questo percorso di consapevolezza la memoria svolge un ruolo importante e il ricordo, che avviene anche attraverso la conoscenza delle storie delle vittime, permette di trasformare la memoria in impegno quotidiano di testimonianza e resistenza civile».  


Mattia Rigodanza

Una mia intervista su “Mafie Maschere e Cornuti”

Irriverente, beffardo, pungente… questo è Giulio Cavalli in “Mafie maschere e cornuti”, lo spettacolo – in collaborazione con l’Archivio storico del cabaret italiano – andato in scena al teatro “De Sica” di Peschiera Borromeo giovedì 21 marzo 2019 in occasione della Giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie.

Un insieme di storia, comicità, atti giudiziari, articoli di giornale, aneddoti, domande e riflessioni che colpiscono gli spettatori – che l’artista rende parte attiva dello show – come stilettate. Non mero ascolto, non semplice presenza in sala; Cavalli si aspetta risposte dal pubblico, pretende ragionamenti, esige che si «alleni il muscolo della curiosità». E colpisce come, durante la serata, la maggior parte delle risposte arrivi da un’adolescente più che dagli adulti, che certi fatti li hanno vissuti o ascoltati almeno nelle cronache.

A partire dall’eredità lasciataci dai giullari del ?500, che deridevano i potenti con le loro parole, finendo per questo spesso decapitati; Giulio Cavalli ricorda come la risata sia l’arma più potente contro chi ha potere e lo esercita senza rispettare le regole. E nel “racconto del potere” rientrano politica, economia e mafia. Quest’ultima, in particolare, viene smontata dall’artista a ogni episodio della narrazione; l’onorabilità – tanto importante per la mafia nella proiezione che intende dare di sé – viene meno a ogni passo dello spettacolo, quando l’artista racconta di mafiosi che si incontrano nella cella frigorifera di un negozio di ortofrutta per evitare di essere intercettati, di latitanti ritenuti all’estero che riescono chissà come a procreare, dei covi di altri “potenti” ridotti a vivere come poveracci, di boss e figli di boss che si smontano da soli semplicemente con le loro dichiarazioni in aula o ai giornali, e tanto altro ancora.

Ripercorrendo dunque le operazioni antimafia degli ultimi anni, Cavalli mostra una mafia diversa, una mafia che – tolta la rappresentazione che riesce a dare di sé anche grazie a chi la racconta (in quello che lo stesso artista chiama “concorso culturale esterno”) – fa davvero ridere e non fa più così paura. Ma allora, di cosa bisogna aver paura? La risposta la fornisce lo stesso Cavalli, citando Mark Twain «Non bisogna avere paura di ciò che non si conosce, ma bisogna temere ciò che crediamo vero e invece non lo è».

Sul palco, insieme a Cavalli, il fisarmonicista Guido Baldoni che non rappresenta solo l’accompagnamento musicale dal vivo con brani originali ma è parte sostanziale dell’esibizione con la sua capacità di sottolineare i momenti più emblematici e dialogare con l’artista.

Incontriamo Giulio Cavalli nel foyer del teatro, per una breve ma significativa intervista con 7giorni:

Giulio, quale domanda vorresti non ti fosse mai fatta in un’intervista?

«Quelle sulla scorta, niente domande sulle scorte».

E quale invece vorresti che ti venisse fatta e non ti è mai stata fatta?

«La domanda di qualcuno che si informa prima di intervistare».

Come sono cambiate le mafie dal tuo spettacolo “A cento passi dal Duomo” a oggi?

«Sono molto più nascoste, rincorrono meno il mito – tant’è che il maggior produttore di mito mafioso in Italia è un antimafioso – e rincorrendo meno il mito si prestano anche meno, se vuoi, alle giullarate perché sono molto barbosi, sono molto grigi, incravattati, quindi sono imprenditori, politici… Diciamo che il manovale non esiste quasi più perché è un ruolo completamente subappaltato alle comunità di altre etnie, alle famose risorse come le chiama Salvini, e quindi essendo tutti colletti bianchi viene per noi anche più difficile raccontarle. Io penso che non sia un caso che nello spettacolo di oggi noi parliamo di Riina e Provenzano, che comunque sono macerie delle mafie e non sono sicuramente contemporaneità».

Come sono cambiati invece i tuoi spettacoli negli anni? Hanno avuto un’evoluzione?

«Mi interessa molto meno sostituirmi ai giornalisti, ai magistrati o a sedicenti associazioni antimafia e mi interessa fare semplicemente il mio ruolo. Il mio ruolo è quello di smutandare e quindi di provocare la risata. Se qualcuno ha bisogno di verificare la mia credibilità interrogandomi sugli atti giudiziari, vuol dire che ha un problema di autostima lui, non io».

Insomma se è vero che «una risata vi seppellirà» ridere di mafia, per usare sempre le parole di Giulio Cavalli, «è antiracket culturale, e le mafie – come tutte le cose terribilmente serie – meritano di essere derise».

Elisa Barchetta (fonte)