Vai al contenuto

Blog

Spending review? I CIE (scusate se insisto)

Il presidente del Consiglio Monti invita i cittadini italiani a segnalare via web gli sprechi che potrebbero essere eliminati. Insieme al taglio della spesa per gli F35 e alla cancellazione della parata militare del 2 giugno, suggeriamo un altro capitolo di bilancio della spesa pubblica che potrebbe essere utilmente tagliato per finanziare invece le politiche di welfare e di inclusione sociale. Si tratta degli stanziamenti previsti per i Centri di identificazione ed espulsione (CIE).

Nel pieno di una crisi economica che non ha precedenti nel secondo dopoguerra, la legge di bilancio 2012 ha previsto un aumento delle risorse destinate alla attivazione, alla locazione e alla gestione dei centri di identificazione e espulsione per stranieri irregolari.

I 103 milioni di euro stanziati nelle previsioni assestate per il 2011 sono diventati più di 174 nel 2012 (cap.2351) e oltre 216 per il 2013 e per il 2014. Del resto il prolungamento del periodo massimo di trattenimento dei migranti in queste strutture da 6 a 18 (diciotto) mesi introdotto dalla legge 129/2011 ha aumentato ulteriormente i costi medi della detenzione.

Quello che solo in pochi ricordano è che i Cie (come prima i CPTA) non rispondono assolutamente alla funzione che è stata loro affidata dal legislatore. Meno della metà delle persone in essi trattenute viene effettivamente espulsa. L’inefficienza di queste strutture è dunque una motivazione che va ad aggiungersi a quella (ben più rilevante dal nostro punto di vista) della loro disumanità per sollecitare una loro chiusura.

Segnaliamo dunque al Governo che il sistema dei Cie rappresenta uno “degli sprechi da eliminare al più presto” e proponiamo di utilizzare le risorse per essi stanziate in modo migliore. Qualche suggerimento?

Ecco quelli di Lunaria e della campagna Sbilanciamoci!

Settimana in giro. Dove sono, cosa faccio.

Questa sera a Meda alle 21, all’oratorio Santo Crocifisso di Meda, in via General Cantore 2 (piazza del Lavoratore 1).Usa la testa, scegli la vita coinvolge 70 ragazzi come ideatori e realizzatori di un intervento di educazione tra pari per sensibilizzare sulle dipendenze.  I ragazzi realizzeranno a Meda delle campagne di guerrilla marketing. Ne hanno ideate 7 su diverse dipendenze.

Mercoledì 9 maggio, a Pavia, ore 21  Presentazione del libro di Giulio Cavalli “L’innocenza di Giulio”, Ed. Chiarelettere. Ne discute con me: Cristina Barbieri, Università di Trieste Modera: Claudio Bellinzona, Non Mi Fermo Collegio Ghislieri Aula Goldoniana Piazza Collegio Ghislieri, 4. Organizza Libertà e Giustizia.

Venerdì 11 maggio alle ore 14.30 presso il Politecnico di Milano, piazza Leonardo da Vinci 32, Aula Osvaldo de Donato: “Io non bacio le mani” con me Pino Masciari e Anna Canepa.

Sabato 12 maggio non potete mancare. Alle 14.30 Non mi fermo: Amo le differenze- inte(g)razione contro il razzismo. Intervengono:  GIULIO CAVALLI, EDDA PANDO, LUCIANO SCAGLIOTTI, PINO PETRUZZELLI, FILIPPO FOSSATI, MAURIZIO MARTINA, BRUNO GOISIS, MANILA FILELLA, HENRI OLAMA, ENRICO BALLARDINI, CLAUDIO BELLINZONA, ROMANA VITTORIA GRANDOSSI, UISP – UNIONE ITALIANA SPORT PER TUTTI, ENAR – EUROPEAN NETWORK AGAINST RACISM, UNIVERSITA’ MIGRANTES, IMMIGRATI AUTORGANIZZATI. Auditorium San Sisto via della Vittoria, 1 Bergamo.

Qualsiasi novità la trovate alla pagina degli appuntamenti.

Andreotti: le bugie non muoiono mai

Mi sono imbattuto per caso nella bella intervista di Paolo De Chiara a Mario BaroneMario Barone. Siciliano, collaboratore stretto di Andreotti, ex ufficiale di marina, ex amministratore delegato del Banco di Roma. Si conoscono dal dopoguerra, precisamente dal 1946. “Subito dopo la sua nomina – si legge nel saggio ‘Il Caffè di Sindona’ – Barone come responsabile del settore esteri del Banco appose la sua firma a un prestito di 100 milioni di dollari che l’Istituto erogò a Sindona attraverso la filiale di Nassau”. Con Barone, che ha confermato il prestito, abbiamo affrontato anche questi argomenti. “Sono il custode dell’archivio di Andreotti” ha tenuto a precisare, sottolineando che oggi ricopre anche il ruolo di presidente del Comitato Andreotti.

Nell’esercizio malato de L’Innocenza di Giulio si raggiungono vette vertiginose:

Andreotti per 10 anni è stato fuori dalla vita politica, assorbito completamente da processi che per fortuna si sono risolti in maniera positiva. Lui ha avuto il coraggio, a differenza di altri, di affrontarli a viso aperto. Lui fu tradito dal suo stesso partito al momento delle elezioni della Presidenza della Repubblica, quando venne fuori Scalfaro. Si eliminarono a vicenda lui e Forlani. Da allora è rimasto un pò fuori, meno interessato a quello che succedeva.

Andreotti con il suo partito non ha mai avuto un incarico. Era l’uomo più potente, ma non faceva parte del gruppo che comandava il partito. E il partito, quando Andreotti era il candidato naturale, gli mise tra i piedi Forlani, che si fece prendere da questa idea. Poi venne fuori il compromesso e presero Scalfaro. In Italia c’è l’abitudine che qualunque cosa succede è colpa della mafia. Io non lo so se la mafia era tanto potente. Io sono siciliano e faccio parte della Sicilia buona e non di quella cattiva. Credo che fu una lotta interna al partito. La politica, i giornali vivono di queste voci, io non lo credo. Certamente alcuni uomini del partito democristiano avevano legami con la mafia in Sicilia.

[Su Sindona] Una persona di grande genialità finanziaria. Poi, probabilmente, si fece prendere la mano dall’ambizione. Sindona era socio di Cuccia, aveva una società insieme a Cuccia. Era uno dei protetti di Cuccia, forse un giorno verrà fuori un pò di verità. Non posso parlarne né bene né male. Il suo fu un peccato d’orgoglio e si mise in un sentiero sbagliato.

A volte mi prende la paura che ce lo meritiamo, questo Paese.

Hollande e la strada da seguire per SEL

Il vento che parte da Milano, Cagliari, spira dalla Francia fino alle amministrative che saranno è un programma politico. E mentre continuiamo a non riuscire ad aprire un dibattito serio sui farfuglianti di chi vede antipolitica dappertutto la richiesta che arriva dall’Europa è chiara almeno in un punto: l’identità. Identità chiara, punti definiti e consapevolezza della propria posizione. Per questo oggi SEL ha un invito che non può non ascoltare: tenere la posizione, rivendicare le proprie diversità, non diluirsi negli alleati medioideologici o postideologici (brutti tempi, eh?).

Marco Damilano propone un’analisi interessante:

Seconda lezione: l’identità. Ancora ieri, in piazza della Bastiglia, Hollande ringraziava dichiaratamente la Gauche. E a sfogliare il suo programma c’è da restare allibiti: assunzioni nella pubblica amministrazione, aliquota del settantacinque per cento per i redditi sopra il milione di euro, abbassamento dell’età pensionabile, tassazione delle rendite finanziarie e soprattutto rimessa in discussione del fiscal compact. Insomma, il capovolgimento della vulgata corrente anche in Italia, per cui essere riformisti ha significato essere la sinistra della destra o, se vogliamo, un altro modo di essere di destra. Amore per la ricchezza, per i capitani coraggiosi, per i cuochi di grido, per le belle barche e per le belle scarpe. Hollande dice qualcosa di sinistra, qui da noi si fatica perfino a balbettare la parola patrimoniale. Il Pd ha votato appena una settimana fa per l’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione. E fa fatica a darsi un progetto di sinistra, tanto più che appoggia un governo la cui filosofia è esattamente all’opposto. Anni Novanta: tagli alla spesa pubblica, innalzamento dell’età pensionabile, liberalizzazioni, allentamento delle tutele nel mercato del lavoro… Tutte cose che avrebbe dovuto fare il centrodestra italiano, se fosse mai esistito. Invece nel Pd c’è chi pensa che debba farle la sinistra: i tardo-blairiani, molto agguerriti, che ancora qualche mese fa chiesero le dimissioni del responsabile economia Stefano Fassina. Da oggi la sfida è aperta: l’Europa non è un dogma, non ci sono soluzioni tecniche indiscutibili. Adieu alle politics, si torna alla politica.

La pazza gioia

In Francia come vedono la questione dei rimborsi elettorali (che doveva essere ridefinita in poche settimane, dicevano AlfanoBersaniCasini scrittituttiattaccati):

Mani Pulite è durata poco
Nel 1981 si verificano le prime modifiche in seguito allo scandalo Caltagirone (bustarelle di un grande costruttore): l’importo dei finanziamenti pubblici è raddoppiato e i partiti sono nuovamente autorizzati a ricevere sovvenzioni. Non vi è alcun obbligo di controllo sulla loro contabilità.

Nell’aprile 1993 inizia la battaglia. Su iniziativa dei radicali, guidati da Marco Pannella e Emma Bonino, con un referendum si mette fine al finanziamento dei partiti. Sull’onda di Mani Pulite il 90,3% degli italiani approva l’abrogazione. Eppure non ci vuole molto tempo –  otto mesi – prima che il Parlamento, nel mese di dicembre, corregga il tiro consentendo ai contribuenti di versare lo 0,4% del proprio reddito ad un partito politico con un discreto beneficio fiscale.
Il totale di queste donazioni ai partiti è inizialmente assestato a 56 milioni poi a 82 milioni.
Nel 1997, i legislatori obbligano i partiti a tenere un bilancio, ma la Corte dei Conti può solo verificare l’esattezza delle spese elettorali.

Due anni più tardi, la legge 157 crea cinque fondi, alimentati da denaro pubblico, per rimborsare le spese sostenute dai partiti per le elezioni politiche, europee, regionali e anche per i referendum.
Nel 2006, i legislatori vanno anche oltre: questi rimborsi, che si aggirano intorno a 193 milioni di euro e sono versati in rate annuali, sono dovuti ai partiti anche se le elezioni anticipate interrompono la legislatura. Questo caso si è verificato nel 2008. I partiti hanno continuato a raccogliere i soldi spettanti per la precedente legislatura e li hanno sommati a quelli ottenuti in seguito alle elezioni del 2008.

Anche i partiti minori che, pur non avendo superato la soglia del 4% per entrare in Parlamento, hanno raccolto l’1% dei voti, hanno diritto ad un “rimborso elettorale”.
In questo modo la formazione di estrema destra La Destra, con una percentuale di voti pari al 2% aveva il diritto nel 2008 a 6,2 milioni di euro, mentre la sua campagna elettorale era costata solo 2,5 milioni.
La Corte dei Conti non può che essere perplessa. Per i suoi giudici, è difficile parlare di “rimborsi”, quando le somme versate dallo Stato sono tre volte superiori rispetto agli importi effettivamente spesi dai partiti per la propria campagna elettorale. Alle legislative del 2008, che hanno visto il ritorno di Berlusconi al potere, i partiti hanno investito complessivamente 136 milioni di euro in spese elettorali, ma hanno incassato 503 milioni. “Ovvero un guadagno del 270%” osserva Sergio Rizzo.

Nessuno partito fa eccezione

Nel corso degli anni, questi rimborsi sono aumentati sempre più. A ciascun partito toccavano 0,35 euro per elettore e per anno nel 1973. Poi si è passati ad 1 euro nel 2001, 2,47 nel 2006 e 4 euro due anni dopo.
A questo dobbiamo aggiungere i contributi pubblici ai giornali di partito: 4 milioni di euro nel 2008 a La Padania, il giornale della Lega Nord. Quasi altrettanto per il quotidiano comunistaLiberazione. Più di 6,37 milioni per L’ Unità, legato al Partito Democratico, ecc…

“Come moltiplicare per 11 il proprio capitale in cinque anni senza correre alcun rischio? Chiedetelo alla Lega Nord ” aggiunge Sergio Rizzo. Nel 2008, il partito autonomista e xenofobo ha speso 3,746 milioni per le elezioni e ha incassato 41,384 milioni dallo Stato, con un incremento del… 218% all’anno. A quanto pare questo non gli è bastato, come provano i gravi scandali che hanno costretto il suo carismatico leader, Umberto Bossi, a dimettersi.
Nessun partito fa eccezione, nemmeno quelli che si proclamano i più virtuosi e si battono per la moralizzazione della vita pubblica. L’Italia dei Valori (IDV), dell’ex giudice Antonio di Pietro, ha incassato nell’ultima legislatura 21,6 milioni di euro (in cinque anni) rispetto ai 4,4 milioni effettivamente spesi. Il PDL di Silvio Berlusconi 206,5 milioni per 68,5 milioni di spese. Il Partito Democratico, unico partito a presentare bilanci “certificati”, 180,2 milioni per 18,4 milioni di spese elettorali.
Non c’è da stupirsi che alla soglia di una riforma di importanza cruciale per le finanze del Paese, le forze politiche sono riluttanti e si mostrano quanto meno prudenti.

L’articolo de Le Figaro qui.

A mezzanotte una scarpetta a forma di buona notizia. Sarda.

In Sardegna si è raggiunto il quorum per il referendum che chiede l’abrogazione delle quattro Province di recente istituzione (2001), Carbonia Iglesias, Medio Campidano, Olbia Tempio e Ogliastra, e di tagliare le indennità dei consiglieri regionali. Altri cinque quesiti sono invece consultivi: si sondano gli elettori per abolire le altre quattro Province storiche (Cagliari, Sassari, Nuoro e Oristano), portare da 80 a 50 il numero dei componenti del Parlamento sardo, cancellare i consigli di amministrazione degli enti regionali, istituire un’Assemblea costituente per la riscrittura dello Statuto autonomistico, eleggere direttamente il presidente della Regione attraverso le primarie. E il raggiungimento di un quorum è sempre una buona notizia per la politica. Sempre. E i temi sono quelli che sul piano nazionale si continua a bollare come antipolitica. Spesso.

Lo scollegamento, evidentemente, ha raggiunto il quorum.

Province: il vuoto di democrazia

Carlo Rapicavoli propone un’interessante riflessione che da tempo avevamo anticipato e analizziamo nei nostri giri in giro per l’Italia: con la scadenza di queste amministrative otto province rimangono scoperte in un limbo di rappresentatività che riflette il piano nazionale. Otto province commissariate non sia sa bene come per inseguire una cancellazione (che condivido nell’obiettivo) senza modalità chiare.

Un primo risultato è stato raggiunto: nasce una palese disparità nella rappresentanza di alcuni territori.

I cittadini di otto Province – a differenza delle altre – non avranno più una rappresentanza politica portatrice dei loro interessi in tutte le sedi istituzionali, ma saranno rappresentanti da un Commissario – non eletto ma nominato – che non risponde delle proprie scelte agli elettori ma al Ministro dell’Interno che l’ha nominato.

Con quale mandato un commissario potrà decidere se approvare un no ad esempio un piano urbanistico comunale?

Sulla base di quale autorità rappresentativa potrà stabilire le priorità negli investimenti ad esempio su scuole o su viabilità?

Sulle priorità nella destinazione delle risorse? Sulle scelte in merito al futuro assetto istituzionale nei tavoli di coordinamento?

E’ possibile che non ci renda conto del grave vulnus al sistema democratico ed al diritto di elettorato attivo si sta determinando in questo modo? 

Era proprio necessario anteporre una decisione di tale portata ad una revisione ponderata di riordino istituzionale e di riassetto delle competenze?

Le domande di Rapicavoli non sono banali e non sono provocazione. E, forse, i tecnici dovrebbero avere le risposte. Che però non sono pervenute.

#occupykremlin 250 arresti da festeggiare con i vecchi amici

L’Eco di Mosca conferma i numeri: almeno 250 arresti tra i manifestanti del corteo contro Putin.
Come dice bene Andrea: andiamo avanti così. Domani Berlusconi arriva per festeggiare l’amico Putin con le bollicine tenute in fresco.
Da noi ne parleremo quando uscirà un bel film sul tema. Qui non vanno di moda le indignazioni e le solidarietà troppo contemporanee. Quelle le abbiamo delegate ai reality, evidentemente.

20120506-190255.jpg

Benvenuto Macao!

(attenzione, questo è un post che qualcuno estrarrà dal cilindro per farne pantano nella prossima campagna elettorale: salvatelo tra i preferiti per non affaticare l’esercizio della banalità e i motori di ricerca)

Dunque a Milano sboccia Macao. O forse la notizia è che a Milano (e in Lombardia) negli ultimi anni non si è riusciti a rispondere alle motivazioni che dentro Macao sono coagulate. Mentre gli editorialisti prezzolati gridano allo sgombero subito (e fa sorridere vedere i giornali di centrodestra in difficoltà tra l’attacco al sindaco Pisapia e agli okkupanti) oggi qualcuno vorrebbe insegnarci che Macao è violenza. Niente a che vedere con l’arte, dicono. Invece Macao è fantasia. E la fantasia non può essere violenta per natura. E’ straripante, inaspettata, destabilizzante e selvaggia. Ma mai violenta.

Quindi forse sarebbe il caso di puntare meno al luogo e ora interrogarsi sulla spinta propulsiva. Si legge sul manifesto di Macao:

Da un anno ci stiamo mobilitando, riunendoci in assemblee dove discutere della nostra situazione di lavoratori precari nell’ambito della produzione artistica, dello spettacolo, dei media, dell’industria dell’entertainment, dei festival e della cosiddetta economia dell’evento. A questa logica per cui la cultura è sempre più condannata ad essere servile e funzionale ai meccanismi di finanziarizzazione, noi proponiamo un’idea di cultura come soggetto attivo di trasformazione sociale, attraverso la messa al servizio delle nostre competenze, per la costruzione del comune.

Rappresentiamo una fetta consistente della forza lavoro di questa città che per sua vocazione è da sempre un avamposto economico del terziario avanzato. Siamo quella moltitudine di lavoratori delle industrie creative che troppo spesso deve sottostare a condizioni umilianti di accesso al reddito, senza tutela, senza alcuna copertura in termini di welfare e senza essere nemmeno considerati interlocutori validi per l’attuale riforma del lavoro, tutta concentrata sullo strumentale dibattito intorno all’articolo 18. Siamo nati precari, siamo il cuore pulsante dell’economia del futuro, e non intendiamo continuare ad assecondare meccanismi di mancata redistribuzione e di sfruttamento.

Apriamo MACAO perché la cultura si riprenda con forza un pezzo di Milano, in risposta a una storia che troppo spesso ha visto la città devastata per mano di professionisti di appalti pubblici, di spregiudicate concessioni edilizie, in una logica neo liberista che da sempre ha umiliato noi abitanti perseguendo un unico obiettivo: fare il profitto di pochi per escludere i molti.

Insomma Macao apre perché il dibattito è stato escluso dalle istituzioni. E forse non stupisce che proprio su questo blog si diceva che non fosse pensabile crescita senza cultura, del patrimonio culturale a pezzi, dei tagli alla cultura come un lento assassinio alla consapevolezza, e il nostro appello con più di 1300 firme.

Perché se la cultura non può essere bene comune è solo sofismi al servizio di qualche altro interesse.