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Com’è bella Mondragone che abbraccia i Landa

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Se non ci siete stati non si riesce a raccontare ma avreste dovuto com’era bella Mondragone che abbracciava con gli occhi, con l’ascolto, con il battere di mani e con il cuore i figli di Michele Landa, che stavano seduto seminascosti tra le prime file di una sala strapiena come se all’improvviso la memoria fosse diventata davvero pop.

‘Mio padre in una scatola da scarpe’ è arrivato a Mondragone, o forse ci è tornato visto che proprio da lì nasce la storia di Michele Landa, guardia giurata prossima alla pensione con un culto per la famiglia e per la libertà. Presentare il romanzo a Mondragone non significava banalmente raccontare un libro, presentare il romanzo a Mondragone era solo il pretesto perché la città guardasse negli occhi Angela Landa e i suoi fratelli e vedere l’effetto che fa.

E l’effetto, davvero, è stato quello di una storia che si è fatta viva, presente, comune.

Io, nel mio piccolo posso solo ringraziare il lavoro meraviglioso di insegnanti, cittadini e di Libera che hanno organizzato un abbraccio così rumoroso.

Ora si riparte.

‘Per i diritti umani’ su ‘Mio padre in una scatola da scarpe’

(L’articolo originale è qui)

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Uscito per Rizzoli l’ultimo lavoro letterario di Giulio Cavalli scrittore e attore, da sempre impegnato sui temi civili e sulla legalità, Mio padre in una scatola da scarpe è un romanzo che parla, forse, anche un po’ dell’autore stesso, capace sempre di dire No alla cultura mafiosa, in grado di pagare un prezzo alto per i valori della giustizia e della vita.
“Michele Landa non è un eroe, e neppure un criminale. Tutto ciò che desidera è coltivare il suo orto e godersi la famiglia; vuole guardarsi allo specchio e vederci dentro una persona pulita. Ma a Mondragone serve coraggio anche per vivere tranquilli: chi non cerca guai è costretto a confrontarsi ogni giorno con gli spari e le minacce dei Torre e con l’omertà dei compaesani”.
Tornano, nel libro, le parole degli spettacoli teatrali che Cavalli porta in scena: omertà, paura, ribellione, violenza, rispetto, verità”: parole e concetti da approfondire; alcuni da cancellare, altri da insegnare, con l’esempio e la Cultura.

L’Associazione per i Diritti Umani ha rivolto alcune domande a Giulio Cavalli e lo ringrazia per la disponibilità.

E’ la storia di un uomo comune, diventato eroe, e della sua famiglia: quanto è importante raccontare storie (a teatro, in letteratura) a sfondo civile?

Io credo che sia importante raccontare storie credibili e scrivo credibili nel senso più ampio del termine ovvero abbiamo bisogno di storie che insegnino l’eroismo che sta nei tanti piccoli gesti quotidiani che sono famigliari a molti. Questo romanzo non vuole celebrare Michele Landa, che altro non è che un uomo vicino alla pensione con la cura della propria famiglia, ma prova a fare intendere quanti “profughi stanziali” si ritrovano a combattere in ambienti non facili. Ognuno secondo le proprie capacità, le proprie possibilità e le proprie attitudini. Credo che ultimamente abbiamo commesso l’errore di cercare l’iperbole mentre sotto gli occhi, tutti i giorni, abbiamo quotidiani esempi di resistenza

Qual è l’Italia che lei racconta?

L’Italia dove la prevaricazione è sistematica, il bullismo è considerato un dovere per condire la credibilità dei potenti e dove un continuo logorio della democrazia ha portato a farci credere che alcuni nostri diritti siano dei privilegi. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un graduale disfacimento del pieno significato dell’essere buoni, tanto che oggi è considerato un difetto, una debolezza. In realtà spesso essere buoni significa avere la forza di stare ostinatamente controcorrente e Michele, con i suoi figli, è la personificazione di questo sforzo strenuo e continuo.

Ci parla del progetto legato al suo libro?

Andando in giro per scuole e librerie abbiamo scoperto che il romanzo risulta molto utile anche per discutere di bullismo e prepotenza. In realtà il progetto con le scuole è tutto merito di Ivano Zoppi e la sua ONLUS Pepita che hanno avuto il merito di trasformare il libro in un’occasione per chiedere di alzare la voce contro i soprusi. Un libro, appena uscito in libreria, smette di essere del suo autore e anche questa iniziativa l’ho vissuta con l’emozione di uno spettatore privilegiato. Sono molto contento che finalmente si riesca a dare una declinazione quotidiana ad un fenomeno (quello mafioso) che troppo spesso ha bisogno di eroi per poter essere raccontato.

Spesso le persone oneste vengono lasciate sole dalle istituzioni e, per questo, molte di loro hanno perso la vita, seguendo l’etica e la legge…Oggi in che direzione si sta muovendo lo Stato italiano in termini di lotta alle mafie?

Si da sempre molto poco. L’Italia è il Paese più evoluto sul fronte antimafia perché è anche il laboratorio più estremo delle mafie ma sono convinto che al netto della retorica ancora oggi si faccia troppo poco e troppo spesso male. Pensiamo, solo per citare un esempio, ai testimoni di giustizia che non sono altro che normali, semplici cittadini a cui “è capitata l’occasione di essere giusti”. dovrebbero essere trattati dallo Stato con tutta la cautela e la gratitudine per chi decide di alzare la testa e invece sono pressoché quotidiane le notizie di difficoltà ambientali, economiche e di sicurezza di chi ha deciso di denunciare. La strada è lunga e in più il movimento antimafia sembra vivere anche un pericoloso periodo di appannamento.

Come possiamo educare i giovani alla cultura della legalità?

Primo: facendo in modo che essere corretti e rispettare la legge sia conveniente. E questo è un dovere della politica. Poi abbiamo bisogno di riportare il senso di legalità al senso di solidarietà, cittadinanza attiva, responsabilità e giustizia. Qui non si tratta solo di insegnare le leggi ma riuscire a far cogliere il senso alto che sta dietro alle basi della democrazia. E finché non riusciremo a raccontare la legge come un’opportunità piuttosto che un limite credo che faremo molta fatica a trovare un vocabolario che funzioni.

Michael Moore scrive a Donald Trump

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Caro Donald Trump,

forse ricorderà (è molto probabile dal momento che ha “una memoria di ferro”), che ci incontrammo nel novembre del 1998 dietro le quinte di un programma televisivo pomeridiano al quale fummo invitati. Tuttavia, un attimo prima di andare in onda, un produttore mi chiamò in disparte per dirmi che lei si sentiva un po’ “agitato” di apparire in onda con me. Mi ha detto che lei non voleva essere “fatto a pezzi” e voleva che l’assicurassi che non mi sarei scagliato contro di lei. “Non penserà mica che voglia aggredirlo e metterlo alle strette?”, chiesi perplesso. “No – rispose la produttrice – È solo un po’ nervoso”. “Eh? Non l’ho mai incontrato prima d’ora. Non ha alcun motivo di essere teso”, dissi. “Non so nemmeno molto sul suo conto, oltre il fatto che gli piace ribattezzare le cose sul suo nome. Se vuole posso parlarci io”. Come ricorderà, è quello che feci. Mi avvicinai e mi presentai. “La produttrice mi ha detto che è preoccupato per quello che potrei dire o fare durante il programma. Senza offesa, ma la conosco a malapena. Sono del Michigan. La prego di non preoccuparsi, andremo d’accordo!”.

Sembrava sollevato, poi si avvicinò a me e mi disse: “Non volevo avere rogne e volevo solo assicurarmi che noi due potessimo andare d’accordo, che non mi prendesse di mira per qualche assurdo motivo”. “Prenderla di mira”? Ho pensato, ma dove siamo, in terza elementare? Sono rimasto sconvolto da come un sedicente uomo duro del Queens si trasformasse in un gattino spaventato.Siamo andati in onda e non è successo nulla di sconveniente. Non le ho tirato i capelli, non le ho messo la gomma da masticare sulla sedia. “Che inetto”, pensai mentre lasciavo gli studi televisivi.

Eccoci qui nel 2015 e, come tante altre persone bianche arrabbiate, lei è spaventato da uno spauracchio; uno spauracchio costituito da tutti i musulmani. Non solo quelli che hanno ucciso, ma tutti i mussulmani. Fortunatamente, Donald, lei e i suoi sostenitori non assomigliate più al volto degli Stati Uniti moderni. Non siamo una nazione di bianchi arrabbiati. Ecco un dato statistico che le farà rizzare i capelli: l’ottantuno percento di coloro che andranno alle urne l’anno prossimo per eleggere il presidente è costituito da donne, cittadini di colore, ragazzi tra i 18 e i 35 anni. Ovvero, né da persone come lei, né da coloro che la vorrebbero a capo del Paese. Per questo, in preda alla disperazione e alla follia, può anche proporre il divieto d’accesso in questo Paese a tutti i musulmani. Sono cresciuto con l’idea che siamo tutti fratelli e sorelle, senza distinzione di razza, credo o colore della pelle, il che significa che, se deve essere imposto un divieto ai musulmani, lo stesso divieto deve essere imposto a me e a chiunque altro. Siamo tutti musulmani.

Così come siamo tutti messicani, siamo tutti cattolici ed ebrei, bianchi e neri e tutte le altre sfumature intermedie. Siamo tutti figli di Dio (o della natura o di qualsiasi altra cosa in cui creda), parte della famiglia umana e questo non può essere cambiato di una virgola per effetto di quello che dice o che fa. Se non le piacciono queste regole statunitensi, allora se ne può andare in castigo in uno dei suoi grattacieli a meditare su quello che ha detto. Poi ci lascia in pace, così eleggiamo un vero presidente, che sia forte e compassionevole allo stesso tempo, o abbastanza forte da non apparire lamentoso e spaventato da un tizio con un cappellino da baseball seduto accanto a lui sul divano di uno show televisivo.

Lei non è così forte, Donny, e sono contento di aver avuto modo di costatare la sua vera essenza tanti anni fa. Siamo tutti musulmani. Se ne faccia una ragione.

Distinti saluti,
Michael Moore

PS: chiedo a tutti di leggere questa lettera e di firmare la seguente dichiarazione: “Siamo tutti musulmani” e di condividere una foto con un cartello che dica “SIAMO TUTTI MUSULMANI” su Twitter, Facebook o Instagram utilizzando l’ hashtag #WeAreAllMuslim. Pubblicherò tutte le foto sul mio sito e poi gliele invierò, Sig. Trump. Si unisca a noi.

(Questo post è stato pubblicato per la prima volta su The Huffington Post U.S. ed è stato poi tradotto dall’inglese da Valentina Mecca)

Il blog ‘per tutti’ su ‘mio padre in una scatola da scarpe’

L’articolo originale è qui.

 Dico subito che questo libro mi è piaciuto parecchio.

La prima cosa che ho apprezzato è la scrittura, perché lo stile di questo autore è moderno e dinamico, coinvolgente e incisivo, semplice e lineare ma non banale.

Mi piace come riesce a rendere bene l’atmosfera. Mi piacciono le sue osservazioni. Mi piacciono i dialoghi popolari e le metafore vivaci. Ha un modo di esprimersi che è decisamente nelle mie corde.

Inoltre è riuscito a dare a questa storia una pennellata di inevitabilità e malinconia senza cadere nella tristezza.

Andando avanti nella lettura ho imparato ad amare i personaggi: Michele, il protagonista, in primis, ma anche Rosalba e Massimiliano (…ciccione e stupido ma così ingenuamente coraggioso).

L’ambientazione, Mondragone in provincia di Caserta, è un mondo che non conoscevo e di cui non avevo mai letto nulla, e mi ha suscitato molto interesse e curiosità. Viene descritto come un piccolo mondo paralizzato dalla paura dove le persone per bene per difendersi diventano invisibili e quindi soli.

La mafia, a tratti sussurrata e a tratti urlata, è la coprotagonista.

Leggendo ho capito subito che avevo tra le mani un libro piacevole e interessante; quindi a circa tre quarti di lettura ho deciso che ne avrei parlato qui nel blog e per portarmi avanti ho cominciato a cercare informazioni su autore e genesi del romanzo.

Dovete sapere che che io ho il vizio di togliere subito le sovra-copertine dei libri. Le metto in qualche angolo in attesa di finire il libro e ricomporlo e spesso non leggo le informazioni riportate sulla terza e quarta di copertina. Anche questa volta ho fatto così! La sovra-copertina gialla è finita subito dimenticata nel comodino e io sono andata in giro per giorni con un anonimo libro grigio.

Se avessi letto le informazioni di base sopra riportate avrei saputo che quella raccontata in “mio padre in una scatola da scarpe” è una storia vera. L’ho scoperto cercando informazioni sul web per comporre questo breve scritto e mi sono rovinata inevitabilmente il finale.

Il romanzo si basa sulla storia di Michele Landa, ma, se non volete fare il mio errore, cercate questo nome e leggete cosa è successo nel 2006 solo dopo aver finito il libro.

Ho scoperto anche che l’autore è sotto scorta per il suo impegno contro la mafia.

Tutto questo dà a questo romanzo un valore aggiunto.

Se questo fosse un racconto di pura invenzione alla fine avrei inveito contro l’autore pretendendo uno straccio di perché… ma questo libro si basa sulla realtà dei fatti e quindi è così che doveva terminare.

Ho chiuso il libro con una sensazione di inevitabile ma ho sperato fino alla fine in un qualche tipo di riscatto…in un atto di coraggio…

…forse mi sono illusa che anche a Modragone potessero crescere i meli…

“Mio padre in una scatola da scarpe” di Giulio Cavalli edito da Rizzoli nel settembre del 2015 è un libro bello e importante che mi sento vivamente di consigliare.
Da leggere e da regalare…
Buona lettura!

L’onore dell’Arma? Trovare gli assassini di Cucchi

cucchi-stefano-ilariaAlla fine viene fuori che Stefano Cucchi è stato pestato. Pensa te. E vengono fuori anche le telefonate di un carabiniere con la moglie in cui si definisce “divertimento” la violenza esplosa contro il ragazzo.

Il fatto è che in questo Paese troppo spesso i Carabinieri “saltano” in difesa del proprio onore, subito sull’attenti come se il gioco di “infangare l’Arma” sia il passatempo preferito di molti. E invece no. Qui sono dei carabinieri che hanno sporcato l’Arma. Che sia chiaro. E basta prenderli e farli condannare per dimostrare che si tratta di persone che hanno commesso un reato, prima che carabinieri. E così l’Arma è salva.

Semplice. No?

(intanto è sparito il reato di tortura, ne ho scritto qui)

Si riesce a crescere digerendo l’invidia

1418078439-0-invidia-e-gelosia-conferenza-a-modicaC’è lo scrittore che siccome vende tantissimo abbiamo bisogno di convincerci (e convincere più persone possibili) che sia un incapace che ha avuto solo fortuna. C’è l’attore di teatro civile che “costa tantissimo” e “mio dio fa il comunista con i soldi degli altri”. Poi c’è il politico “che non capisce un cazzo” e l’assessore che è “un incapace”. il dirigente “figlio di papà” o “quella che l’ha data all’uomo giusto”. In auto, alla guida, c’è quello con il macchinone “e poi guida come un pensionato” oppure quello che “mi piacerebbe sapere con che soldi mantiene quella macchina”. Poi c’è quella “bella ma rifatta”, quella “chissà a chi l’ha data” o semplicemente quella “che l’ha data a tutti”. Gli uomini, invece, annoverano quello “che venderebbe sua madre” oppure il “chi si crede di essere” per finire con qualcuno con “più culo che anima”.

Viviamo nell’ossessione di essere in competizione con il resto del mondo senza sapere leggere quanto sarebbe più potabile il mondo se divenisse un posto migliore. Subiamo la concorrenza di gente che fa tutt’altro in tutt’altro modo semplicemente per trovare credibili giustificazioni. Scrittori che incrociano le dita per il fallimento degli altri prima ancora di un riconoscimento proprio oppure giornalisti che confidano nello scoop sbagliato del collega poco sopportato. Gente (dottori, professori, figli d’arte, ex protagonisti ormai in naftalina) che vive con le dita a forma di corna augurando malasorte. Miserabili che non sanno nemmeno immaginare che gusto abbia l’essere contenti semplicemente perché “accontentati”, sgombri da una concorrenza che è solo bile, sindrome di complotto oppure complesso d’inferiorità.

Che bella cosa l’ecologia intellettuale: il dare il giusto peso alle cose. A se stessi in primis.

La bellezza delle visioni

Visionari sono quelli che senza giri di parole, senza complicate architetture, riescono a rendere immediata e facile una nuova prospettiva. Ecco Banksy cosa disegna a Calais, crocevia di migranti:

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