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Malagrotta, Cerroni e i sette re di Roma

120370583Sette persone sono state arrestate dai carabinieri del Noe di Roma nell’ambito dell’inchiesta sulla gestione dei rifiuti del Lazio. Tra questi anche l’imperatore dei rifiuti di Roma, “l’ottavo re” che ha vissuto negli anni di centrodestra e centrosinistra come il padrone, il monopolista nella gestione del pattume sia nella capitale che nel Lazio: Manlio Cerroni, proprietario dell’area della discarica di Malagrotta, è finito ai domiciliari. Un’inchiesta, quella della Procura di Roma, che scompagina un sistema di potere giocato in forza del controllo della catena di comando a rischio di lasciare la Città eterna inondata di rifiuti. Sistema che ha fatto comodo alla politica, incapace di scelte e di governare il ciclo.   Con Cerroni agli arresti domiciliari altre 6 persone: imprenditori, ma anche funzionari pubblici. Si tratta in questo caso dei dirigenti regionali Luca Fegatelli (“l’uomo dei 10 incarichi”) e Raniero De Filippis. Agli arresti Francesco Rando, uomo di fiducia dell’avvocato e gestore della Pontina Ambiente. Rando gestisce anche la E.giovi srl che, insieme al Consorzio Co.la.ri., è tra le aziende principali dell’avvocato che fatturano in media 150 milioni di euro all’anno. Non è l’unico collaboratore di Cerroni coinvolto nell’inchiesta: anche altri due storici assistenti dell’avvocato sono finiti ai domiciliari, Pino Sicignano (direttore della discarica di Albano Laziale) e Piero Giovi. Associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti e truffa sono tra i reati contestati a vario titolo agli indagati. La Guardia di Finanza di Roma ha nel frattempo sequestrato beni mobili ed immobili per 18 milioni di euro.   L’inchiesta da Velletri 
Ne ha fatta di strada Cerroni, una vita in sella dai tempi della sindacatura nel piccolo paese di Pisoniano, in provincia di Roma, anni Cinquanta – quando si faceva immortalare vicino a Giulio Andreotti – fino all’ascesa da imprenditore. Cerroni ha costruito un impero controllando la mega discarica di Malagrotta che per 30 anni ha ingoiato i rifiuti di Roma, di Fiumicino e della città del Vaticano. Società in tutta Italia e anche all’estero, un patrimonio sconfinato e impianti costruiti in mezzo mondo. Ora l’epilogo dei domiciliari.   L’inchiesta è partita nel 2009, condotta dai carabinieri del Noe di Roma agli ordini del colonnello Ultimo e del capitano Pietro Rajola Pescarini. La Procura di Velletri, pm Giuseppe Travaglini, aveva chiesto gli arresti, ma il gip nell’aprile 2012 ha trasferito gli atti per competenza alla Procura capitolina. Sotto accusa era finita la gestione del polo industriale di Albano Laziale, dove Cerroni, con la Pontina Ambiente, gestisce una discarica e un Tmb, impianto di produzione del cdr, le balle dei rifiuti da incenerire. Secondo l’accusa veniva prodotto cdr in misura inferiore rispetto a quanto veniva poi fatto pagare ai Comuni conferitori, con risparmio per il privato che spendeva di meno per smaltirlo in discarica, che in tanto si esauriva prima, piuttosto che per incenerirlo. I Comuni pagavano per un servizio che non ricevevano procurando così un vantaggio alla società di Cerroni. L’inchiesta per competenza si è spostata a Roma, i pm Alberto Galanti e Maria Cristina Palaia sotto la guida del procuratore Giuseppe Pignatone, hanno chiesto le misure cautelari, accolte dal gip Massimo Battistini.   Il funzionario a disposizione Se c’è l’imprenditoria non può mancare il funzionario regionale, anche lui ai domiciliari, si tratta di Luca Fegatelli. Notizie riguardo l’indagine, che oggi ha portato all’esecuzione delle misure cautelari, erano già state pubblicate eppure Fegatelli, anche quando Nicola Zingaretti è stato eletto presidente della Regione, è rimasto in sella con una sfilza di incarichi (ilfattoquotidiano.it ne contò 10). Tra questi anche quello di direttore dell’agenzia regionale per i beni confiscati. Fegatelli è stato dirigente della direzione regionale energia e rifiuti fino al 2010 prima di passare a capo del dipartimento istituzionale e territorio, ruolo che oggi ricopre. Per gli inquirenti è stato a disposizione del gruppo imprenditoriale, è risultato il vero regista, l’uomo chiave della strategia “cerroniana” in Regione. Insieme a Cerroni ai domiciliari finiscono i suoi uomini di sempre, i fedelissimi che da anni sono stati ai vertici della galassia di imprese dell’avvocato.   Poi c’è Raniero De Filippis. Prima direttore del dipartimento del territorio (dal 2007 al 2010), poi attualmente alla guida della direzione regionale ambiente e politiche abitative. De Filippis, con Fegatelli, fu tra i “fortunati” che vide il suo incarico prorogato da Renata Polverini in extremis del suo mandato da governatrice (che stava esaurendosi sotto i colpi degli scandali). E lo stesso funzionario si è “distinto” anche per la coincidenza di avere come collega – funzionario in Regione Lazio – il nipote Alessandro. Anche De Filippis è stato confermato da Zingaretti nonostante tutto. Nonostante la Corte dei Conti lo avesse condannato a risarcire la Regione accertando un danno erariale di 750mila euro. E nonostante nel 2002 avesse già patteggiato 5 mesi per abuso d’ufficio e falso ideologico per vicende legate ad una comunità montana di cui era stato commissario liquidatore.   L’assessore al telefono 
Ai domiciliari anche Bruno Landi, ex presidente della Regione Lazio negli anni Ottanta, craxiano di ferro, presidente di Federambiente Lazio, che ha ricoperto diversi ruoli nelle società dell’avvocato da Viterbo a Latina. Landi è stato il punto di contatto con il mondo della politica. Quella politica che ha sempre acconsentito alle richieste dell’avvocato per lo spettro della spazzatura in strada e l’incapacità dei partiti di avviare un ciclo di gestione dei rifiuti. Negli atti, l’informativa dei carabinieri del Noe inviata alla Procura di Velletri, anche una telefonata con l’attuale assessore regionale Michele Civita (estraneo all’inchiesta), quando era assessore in Provincia. Conversazioni che raccontano il ruolo e il potere di Cerroni. Era il 2010. I carabinieri scrivono nell’informativa: “L’assessore, sebbene in un primo momento sembra tenere testa alle pretese dell’avvocato, alla fine soccombe dietro la paura di creare un problema igienico-sanitario simile a quello vissuto dalla città di Napoli, così come paventato dal Cerroni stesso”. Un potere e un ruolo che hanno affascinato anche Goffredo Sottile (pure lui estraneo all’indagine), ultimo commissario per l’emergenza rifiuti a Roma, che anche in pubblico aveva espresso apprezzamenti per l’avvocato. Nonostante l’indagine in corso a carico di Cerroni – nota già dallo scorso anno – Sottile ha insistito per affidargli la gestione della nuova discarica che avrebbe servito Roma dopo Malagrotta. Ipotesi poi tramontata. Tramontata come la rete di potere dell’anziano avvocato.

Di N. Trocchia su Il Fatto Quotidiano

Accreditarsi con un libro

La seconda cosa che Luca dimentica nel suo post è che in moltissimi casi scrivere un libro, un saggio qualsiasi, qualcosa che a malapena arriverà negli scaffali e che venderà forse qualche centinaia di copie per scomparire dopo pochi mesi, è una forma di accreditamento indispensabile in un numero molto ampio di ambienti culturali e professionali. Moltissimi oggi scrivono libri con questo unico pensiero e tutto sommato fanno benissimo a farlo. C’è un provincialismo formidabile in questo, non tanto dello scrittore in sé ma dei moltissimi che ti accreditano in società in quanto scrittore pubblicato. Con un tomo. Di carta. Nessuna pagina digitale, nessun ebook anche magnifico ti darà accesso ai piani bassi (e talvolta a quelli medi e perfino in qualche caso a quelli alti) del palcoscenico culturale nostrano. Se poi sei uno di quei pazzi che si autopubblicano in formato digitale allora passi direttamente nel girone degli sfigati per definizione. La targhetta scrittore (anche se il tuo libro non l’ha mai letto nessuno), quella di una volta, la mano che regge il mento nella terza di copertina e lo sguardo pensoso, sono il bagaglio minimo per essere accettato in società. Forse anche questo non durerà per molto ma per ora di sicuro un po’ funziona.

Mantellini in un suo post dimostra di essere avanti in un argomento che l’editoria non ha ancora intravisto.

La confusione che aiuta le mafie e le droghe

Roberto Saviano aveva cominciato a parlare di legalizzazione delle droghe durante la preparazione del suo ultimo romanzo e quando in Italia il dibattito sul tema era relegato all’ostinazione dei Radicali e poco altro. Ricordo che quando uscì uno dei suoi primi corsivi e poi alcune interviste sul tema rimasi sorpreso dal “silenzio” sul punto: tutti discutevano del libro “Zero Zero Zero” (dividendosi in buona parte già in idolatria o demolizione prima ancora che fosse dato alle stampe) ma in pochi vollero raccogliere quell’invito a legalizzare. Passò come una provocazione, una conclusione affrettata, un’idea che non si risolve con un libro.

Ora il tema della legalizzazione delle droghe risale nel dibattito nazionale dopo le recenti decisioni degli altri Paesi in giro per il mondo (che semplicemente significa che noi qui in Italia siamo indetto nel dibattito, no?) e ancora Roberto scrive un articolo chiaro e per me completamente condivisibile:

Io credo che la legalizzazione, e non la liberalizzazione, sia l’unica strada. Due termini simili che spesso vengono confusi, ma che indicano due visioni completamente diverse. Legalizzare significa spostare tutto quanto riguarda la produzione, la distribuzione e la vendita di stupefacenti sotto il controllo dello Stato. Significa creare un tessuto di regole, diritti e doveri. Liberalizzazione è tutt’altro. È privare il commercio e l’uso di ogni significatività giuridica, lasciarlo senza vincoli, disinteressarsi del problema, zona franca. Invece legalizzare è l’unico modo per fermare quel silenzioso, smisurato, violento potere che oggi condiziona tutto il mondo: il narco-capitalismo.

Appunto sulla differenza tra liberalizzare e legalizzare sta il nodo creato ad arte per rendere l’argomento tutto bianco o tutto nero.

La verità è che non abbiamo scelta: la situazione attuale impone un’analisi accurata del mercato delle droghe e l’attuazione di un programma che non sarà la soluzione definitiva e immediata, e che forse sarà un male minore, ma necessario. Lasciare il mercato delle droghe nelle mani delle organizzazioni criminali non renderà immacolate le coscienze di quanti ritengono che lo Stato non possa farsi carico di produrre e distribuire sostanze stupefacenti. È proprio questo il punto da affrontare e l’inganno da sfatare. Ad avere occhi per vedere.

L’articolo completo è su Repubblica.

Per un contrasto europeo al crimine organizzato e alle mafie

per_un_contrasto_europeo_al_crimine_organizzatoL’eccellente lavoro di Sonia Alfano al Parlamento Europeo:

PER UN CONTRASTO EUROPEO AL CRIMINE ORGANIZZATO E ALLE MAFIE. Il 25 ottobre 2011 il Parlamento Europeo a Strasburgo ha approvato a larghissima maggioranza (584 favorevoli, 48 astenuti e 6 contrari) la risoluzione sul crimine organizzato nell’Unione Europea. Per la prima volta, anche grazie ai nuovi e ben più ampli poteri conferitigli dal Trattato di Lisbona, il  Parlamento Europeo affronta consapevolmente la questione della minaccia posta quotidianamente alle libertà e ai diritti dei cittadini dalle organizzazioni criminali e dalle mafie. Proprio così, dalle mafie. La risoluzione del Parlamento Europeo, di cui ho avuto l’onore e l’onere di essere relatrice, rappresenta un primo ma fondamentale passo di questo difficile percorso politico che ha come obiettivo l’affermazione della supremazia delle istituzioni e dei cittadini rispetto ai poteri criminali e mafiosi. Il Parlamento Europeo traccia un ambizioso piano politico, richiedendo alle istituzioni competenti una serie di misure e di interventi che disegnano una complessa azione di contrasto, con un approccio globale contestualmente repressivo e preventivo. La risoluzione propone le linee guida che a livello europeo dovranno essere seguite nel contrasto alle organizzazioni criminali.

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Di fronte a tutto questo non rispondo nemmeno

ninodimatteoPerdoni la domanda scomoda, ma c’è chi ipotizza che tutta la vicenda e il clamore mediatico che ha sollevato siano strumentali, addirittura volute.
“Lo pensino pure, sulle pelle degli altri è facile. Quando verranno depositate le trascrizioni delle frasi di Riina, ascolteranno le sue parole e guarderanno il video capiranno tutto”.

C’è allora un tentativo di delegittimare il suo, il vostro lavoro?
“Non mi sorprendo più nulla. C’è sempre chi, di fronte ai proiettili, parla di auto-minacce. Persino ai tempi di Giovanni Falcone è andata così. Di fronte a tutto questo non rispondo nemmeno, non degno di considerazione chi insinua senza conoscere. Non mi sorprendo. È una storia che si ripete da sempre. Stavolta, però, si dovranno scontrare con il video e la voce di Totò Riina. Ritengo che ci sia, proprio nell’ottica di delegittimare determinati tipi di indagini, un tentativo di non valutare i fatti, persino di ribaltarli”.

Un’intervista a cuore aperto di Nino Di Matteo, l’innominabile per la politica e pure qualche “antimafioso”.

Quel Paese che in questo tempo taglia gli stipendi della DIA

La lotta alla mafia è ancora una priorità per il governo? A parole sì, nei fatti sembra di no. Lo dimostrano i costanti tagli al bilancio della Dia, la Direzione investigativa antimafia, alle prese con una crisi finanziaria senza precedenti. L’ultimo taglio lineare riguarda il “Tea”, il trattamento economico accessorio che viene erogato ai 1.300 dipendenti della Direzione. Sino a due anni fa questa voce di bilancio – che rappresenta il 20 per cento dello stipendio – era considerata spesa obbligatoria.

Dal 2011 in poi, con le leggi di stabilità, il “tea” per i dipendenti dell’Antimafia rischia di diventare un miraggio, perché quelle somme non sono più stanziate automaticamente per legge, ma soggette alla discrezionalità dell’esecutivo che ne dispone il pagamento con successivo decreto.

Per garantire il “tea” servirebbero 10 milioni di euro l’anno, ma la somma disponibile ammonta a poco più della metà. Dal 2001 al 2012 il bilancio della Dia è passato da 28 milioni di euro a 17. La Direzione investigativa sconta anche carenze di personale: per lavorare a pieno regime la pianta organica prevede circa 3 mila tra funzionari e investigatori. In servizio ce ne sono meno della metà.

(click)

I negazionisti in Riviera

Avevo scritto di un piccolo assessore imbecille e invece gli amici del GAP (Gruppo Antimafia Pio La Torre) mi scrivono che la specie è vasta e (purtroppo per noi) in ottima salute. Il negazionismo è un male oscuro che si rivela non solo nelle negazioni grette e nette di qualche cretino ma galleggia anche tra i moderati per indole, posizione o professione che attraverso il “benaltrismo” o l’idiozia prêt-à-porter riescono a scalare l’argomento tra le cose poco importanti. Questo Paese si è salvato con gli allarmisti, miei cari: dal Peppino Impastato esibizionista e buffone, il Pippo Fava idealista, donnaiolo e complottista, dal Beppe Alfano che vedeva mafia dappertutto o dal Giovanni Falcone che faceva antimafia per fare carriera. Riflettiamoci, va.

Qui i piccoli imbecilli in Riviera schedati dal GAP.

Pippo Fava non amerebbe questo Paese

Pippo_Fava30 anni fa moriva ammazzato Pippo Fava. Oggi sono da leggere le parole (come sempre bellissime) del figlio Claudio nella sua intervista per L’Unità (qui) e riprendendo un articolo memorabile scritto proprio per I Siciliani dopo la sua morte. Perché quei ragazzi di Fava oggi sono una lezione che sarebbe meglio perseguire piuttosto che commemorare:

Un uomo

da “I Siciliani”, gennaio 1984

Pippo Fava ha scritto un sacco di libri, e cose di teatro anche.

Però Pippo Fava non è mica uno importante.

Per esempio, arriva una centoventiquattro scassata, dalla centoventiquattro esce uno con la faccia da saraceno e un’Esportazione che gli pende da un angolo della bocca e ride e quello è Pippo Fava.

Bene, un giorno a Pippo Fava gli dicono di fare un giornale, è una faccenda strana affidare un giornale a Fava che, dice la gente perbene, è uno che non si sa mai che scherzi ti combina: comunque il giornale c’è, si chiama il Giornale del Sud e subito Pippo Fava lo riempie di ragazzi senza molta carriera ma in compenso mezzi matti come lui.

«Tu, come ti chiami?». «Così e cosà». «E cosa vorresti fare?».

«Mah, politica estera…». «Ok, cronaca nera».

La cronaca, al Giornale del Sud, la si fa all’avventura.

Non si conosce nessuno, si parte proprio da zero. Ci sono storie divertenti, tipo quella del povero emarginato napoletano che arriva in redazione e tutti fanno i pezzi commoventi sul povero emarginato e poi arriva Lizzio dalla questura per un paio di stupri…

Si chiude alle tre di notte; non si “buca” una notizia.

Con grande stupore, i catanesi apprendono che a Catania c’è una cosa che si chiama mafia. E che Catania è divenuta un centro del traffico di droga.

Dopo qualche mese, un attentato: un chilo di tritolo. Ma si va avanti.

La faccenda dura un anno. Poi succedono tre cose.

La prima è che gli americani decidono che la Sicilia va bene per coltivarci missili.

E questo a Fava non va bene, e lo scrive.

La seconda che a Milano acchiappano un grosso mafioso, Ferlito, parente di un assessore e uomo di molto rispetto;

e anche qua, Fava si comporta piuttosto – come dire – maleducatamente.

La terza è che nella proprietà del giornale arrivano amici nuovi, uno dei quali è…

– ok, avvocato, niente nomi –

… un importante imprenditore catanese coinvolto nel caso Sindona e un altro un importante politico catanese coinvolto nell’assessorato all’agricoltura.

Telegramma all’illustrissimo dottor Fava:

«Comunichiamo con rincrescimento a vossignoria illustrissima che il giornale ora ha un altro direttore».

I matti, i ragazzi della redazione vogliamo dire, occupano il giornale. L’occupazione dura una settimana, durante la quale gli occupanti ricevono la solidarietà di alcuni tipografi, di una telefonista, di un guardiano notturno e di un ragazzino dell’Ansa (a pensarci, anche un giornalista ha telefonato, allora). Poi arriva il sindacato e, molto ragionevolmente, l’occupazione finisce.
Senza Fava finisce anche, e alla svelta, il Giornale del Sud (perché non-leggere le stesse notizie su un giornale nuovo, se puoi già non-leggerle su quello vecchio?).

Ma Fava nel frattempo non s’è stato con le mani in mano. Ha raccolto una decina dei “suoi” matti: «Si fa un giornale».

Come, quando e se si farà non lo sa nessuno.

Ma intanto si mette su una bella redazione, con le sue brave “lettera ventidue” scassate.
Chi è disposto a investire qualche centinaio di milioni su due “lettera ventidue” scassate, dieci matti fra i venti e i venticinque anni e uno di sessanta? Ovviamente, nessuno.

D’altra parte dopo l’esperienza del GdS Fava e i suoi, a sentir parlare di padroni, si mettono a bestemmiare.

Allora si mette su una bella cooperativa – «Radar!». «E che vuol dire?».

«Suona bene!» – si disegna un bellissimo stemmino per la cooperativa e si firmano alcune tonnellate di cambiali.

Due mesi dopo arrivano due bellissime Roland di seconda mano, offset bicolori settanta/cento, e Fava se le cova con lo sguardo che se invece di essere due offset fossero due turiste svedesi lo denuncerebbero per stupro.

A fine novembre, Pippo Fava arriva in redazione, schiaccia l’Esportazione nel portacenere e fa:

«Ragazzi, si fa il giornale». «Quando?» «Con quali soldi?»

«Io faccio il pezzo sulla Procura!» «Come lo chiamiamo?» «Io ho un’idea per il pezzo di colore» «Ma i soldi…».

La vigilia di Natale, le Roland sputano una cosa rettangolare con scritto su

«I Siciliani».

Anno uno, numero uno, i cavalieri di Catania e la mafia, la donna e l’amore nel sud. Un tipografo porta il pupo in redazione. «Be’, potrebbe anche andare» fa uno dei redattori con nonchalance, e subito dopo si mette a ballare.
Il giornale arriva in edicola alle nove di mattina.

A mezzogiorno non ce n’è più (a piazza della Guardia, dicono, due fanno a cazzotti per l’ultima copia: ma onestamente non ne abbiamo le prove). Si brinda nei bicchieri di plastica, e si prepara il numero due; nel cassetto i mazzi di cambiali sembrano meno minacciosi.

Ed è passato un anno. La mafia, a Catania, c’è o non c’è?

«Ma no… al massimo un po’ di delinquenza…» (il signor Prefetto).

«Cristo se c’è! E sbrigatevi a fare qualcosa che qui finisce peggio di Napoli» (I Siciliani).

E quel signore, come si chiama quel signore là?

«Noto pregiudicato…» (la stampa per bene).

«Santapaola Benedetto, detto Nitto, MAFIOSO!» (I Siciliani).

 

E i missili, dite un po’, vi dispiace se lascio un paio di missili nel sottoscala? «Ma prego, si figuri, come fosse a casa sua!».

«Ahò! Ca quali méssili e méssili! I cutiddati a’ casa vostra, si vvi l’aviti a ddàri!»

 

E i cavalieri, vediamo un po’; anzi, i Cavalieri?

«Ecco dunque cioè nella misura in cui ma però… AIUTO diffamano Catania!»

«I cavalieri catanesi alla conquista di Palermo con la tolleranza della mafia.

Firmato Dalla Chiesa. Noi stiamo con Dalla Chiesa».

Ed è passato un anno.

C’è un ragazzino, a Montepò, che ancora non sa bene se andrà a fare il suo primo scippo o no. C’è una vecchia, in via della Concordia, che è rimasta fuori dall’ospedale perché non c’era posto. C’è una tizia, a viale Regione Siciliana, che costa ventimila lire ed ha quattordici anni. C’è un manovale, alla zona industriale, che ci ha rimesso una mano e dicono che la colpa è sua. C’è uno sbirro, in viale Giafaar, che ha una bambina a casa ma va di pattuglia lo stesso. C’è una bambina, da qualche parte allo Zen, che forse diventerà una puttana e forse una donna felice.

E c’è un’altra bambina, in un cortile pieno di sole, e ora Pippo Fava prende in braccio la bambina e la bambina ride.

«Nonno, nonno, ora faccio l’attrice».

«Qualche volta mi devi spiegare chi ce lo fa fare, perdìo. Tanto, lo sai come finisce una volta o l’altra: mezzo milione a un ragazzotto qualunque e quello ti aspetta sotto casa…

Beh, te lo prendi un caffé? E l’occhiello, vedi che dieci righe per un occhiello a una colonna sono troppe».

Forse mezzo milione, forse di più: il tizio, con l’altro tizio e quello che doveva dare il segnale, era là ad aspettare e ha alzato la 7,65 e ha sparato. Professionale.

Certo, in una villa di Catania, s’è brindato, quella notte.

Forse ha avuto il tempo di guardarlo negli occhi. Non pensiamo spaventato.

Forse, impietosito. Sapendo benissimo che il tizio pagato – uscito forse da un miserabile quartiere, uno di quelli che lui non era riuscito a salvare – sparava anche contro se stesso, contro la propria eventuale speranza.

Forse ha pensato che un giorno o l’altro quelli che venivano dopo di lui ci sarebbero riusciti a farli smettere di sparare, a…

Ma forse non gliene hanno dato il tempo.

***

E questo è tutto.

Ok, ringraziamo tutti quanti, grazie di cuore a tutti.

Adesso dobbiamo ricominciare a lavorare, c’è ancora un sacco di lavoro da fare per i prossimi dieci anni.

Mica possiamo tirarci indietro con la scusa che è morto uno di noi.

Se qualcuno vuole dare una mano ok, è il benvenuto, altrimenti facciamo da soli,

tanto per cambiare.
Va bene così, direttore?

Elena Brancati, Cettina Centamore, Santo Cultrera, Claudio Fava, Agrippino Gagliano, Miki Gambino, Giovanni Iozzia, Rosario Lanza, Nanni Maione, Riccardo Orioles, Nello Pappalardo, Tiziana Pizzo, Giovanna Quasimodo, Antonio Roccuzzo, Fabio Tracuzzi, Lillo Venezia.