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Eppure “ammazzare” è una parola di uso fin troppo frequente.

Scrive Enrico Colaiacovo nel suo blog:

Non so se la intenda così, ma a me sembra che tutti noi possiamo dare un duplice contributo alla sua sicurezza (e spero anche alla sua serenità) e alla continuazione del prezioso lavoro che sta facendo. Da una parte far capire a chi deve capire che colpire lui significa colpire un’intera comunità. Dall’altra propagare e amplificare lo spirito di #scassaminchia che anima la sua arte e la sua passione civile, cioè la ragione dell’odio che la criminalità gli riversa contro.

Sì la intendo proprio così, Enrico.

Reggio Calabria: la politica che si infiltra nella ‘ndrangheta

Sono stati “la causa efficiente dello scioglimento del Consiglio comunale”. Con una sentenza di 120 pagine, il tribunale civile di Reggio Calabria falcia quasi un’intera classe politica di centrodestra già travolta lo scorso ottobre dallo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose. I giudici hanno stabilito, infatti, l’incandidabilità dell’ex sindaco Demetrio Arena, il delfino del governatore Giuseppe Scopelliti che, dopo essere stato defenestrato da Palazzo San Giorgio con la pesante accusa di guidare un’amministrazione contigua alla ‘ndrangheta, è stato premiato con la nomina ad assessore regionale alle Attività produttive.

Pesantissimo il commento del tribunale presieduto dal giudice Rodolfo Palermo sulle “scelte politico-amministrative dell’Arena” che “hanno reso fortemente permeabile un settore nevralgico come quello dei Lavori pubblici agli interessi della criminalità organizzata”. Dalla sentenza, infatti, emergono “forme di condizionamento tali da determinare un’alterazione del procedimento di volontà dell’ente”.

Il tribunale civile ha stabilito l’incandidabilità anche per gli ex assessori Pasquale Morisani (Lavori pubblici), Walter Curatola (Patrimonio edilizio) e Peppe Martorano (Protezione civile), l’ex presidente del Consiglio e poliziotto Sebastiano Vecchio (alcuni collaboratori di giustizia lo indicano come vicino alla cosca Serraino), per i consiglieri Giuseppe Eraclini e Giuseppe Plutino (quest’ultimo arrestato nell’operazione antimafia “San Giorgio”) e per l’ex assessore comunale Luigi Tuccio.

Quest’ultimo è l’ex coordinatore cittadino del Popolo della libertà entrato l’anno scorso in polemica con Roberto Benigni. Prendendo spunto, infatti, dallo show di Fiorello al quale aveva partecipato il comico toscano, Tuccio aveva commentato su facebook: “Abbiamo pagato Benigni per fargli fare l’ennesima filippica contro Berlusconi e la lode della merda! Comunista ebreo miliardario e senza contenuti!”. Ma non sono state le esternazioni fasciste di Tuccio ad aver spinto il tribunale civile di Reggio a decretare la sua incandidabilità. Il politico di centrodestra “a sua insaputa” si è ritrovato imparentato con esponenti della cosca Condello. L’ex assessore all’Urbanistica, infatti, solo il giorno dell’arresto della suocera (accusata di aver favorito un boss latitante) ha “scoperto” di essere cognato dell’ergastolano Pasquale Condello Junior, cugino e omonimo del mammasantissima conosciuto con il soprannome del “Supremo”.

“Soltanto oggi ho appreso, a seguito del fermo della signora Cotroneo Giuseppa Santa, questa triste vicenda” aveva affermato l’esponente del Popolo della libertà smentito poche settimane dopo dal decreto del ministro dell’Interno che ha disposto il 41 bis per il boss Nino Imerti, detenuto a Voghera assieme al cognato di Tuccio. Nella richiesta di sottoporre Imerti al carcere duro, il sostituto procuratore della Dda Giuseppe Lombardo aveva evidenziato l’intenzione del boss di coinvolgere soggetti esterni al circuito giudiziario per ottenere benefici detentivi. Il riferimento era a Luigi Tuccio per il quale il boss Imerti, intercettato in carcere, aveva raccomandato alla cognata: “Sa pure che i voti glieli date a… o non lo sa?».

Un altro assessore incandidabile è Pasquale Morisani che, pur non indagato dalla Procura di Reggio, ha ammesso i suoi rapporti con il boss di Pietrastorta Santo Crucitti. I due erano compagni di scuola e sono stati intercettati mentre discutevano di politica e di voti in occasione della campagna elettorale per le comunali del 2007. Una lunga conversazione, all’interno dell’ufficio di Crucitti, della quale i magistrati hanno chiesto conto al politico fedelissimo di Scopelliti. Interrogato, Morisani ha candidamente spiegato che conosce Santo Crucitti, poiché sono cresciuti assieme, ma non sapeva che è ritenuto un boss della ‘ndrangheta. E comunque, quando l’ha scoperto, non ha avuto alcun problema nel mantenere il rapporto di amicizia. Da anni è impegnato in politica a Reggio Calabria ma non aveva mai sentito parlare di cosche mafiose. Non sapeva neanche che nel suo quartiere, Pietrastorta, esisteva la ‘ndrangheta. Ancora meno che il boss fosse il suo compagno di scuola intercettato mentre gli rastrella i voti del quartiere.

E se le società miste del Comune sono state travolte dalle inchieste della Direzione distrettuale antimafia, il tribunale civile presta attenzione anche ai finanziamenti concessi dall’ente alle associazioni culturali e di volontariato. Stando alle indagini, infatti, – scrivono i giudici riprendendo il contenuto della relazione della commissione d’accesso – i clan hanno “usato la veste della associazioni senza scopo di lucro, intestandole a prestanomi, per introitare i finanziamenti da parte del Comune”.

Sono usciti indenni dal procedimento di incandidabilità i consiglieri comunali Nicola Paris, Bruno Bagnato e il giovane Nicola Irto (del Partito democratico). Nei loro confronti, il tribunale ha accolto la tesi dell’avvocato Alfonso Mazzuca che, nella sua arringa in difesa di Irto, ha sottolineato, seppur imparentato con soggetti malavitosi, non ci sono elementi per poter sostenere che è stato condizionato dalla ‘ndrangheta. Come per dire, i parenti non si scelgono. Gli amici si.

Ecco la replica di Demetrio Arena, affidata all’agenzia Ansa. “Apprendo che il tribunale di Reggio Calabria ha dichiarato la mia incandidabilità limitatamente al primo turno elettorale successivo allo scioglimento del Comune di Reggio Calabria, che produrrà effetti solo se sarà confermata in appello e in Cassazione. Da una prima lettura emerge la disarmante acriticità con cui il Tribunale ha ritenuto di dovere recepire pedissequamente quanto riportato nella relazione ministeriale senza valutare sotto alcun profilo le argomentazioni difensive e la copiosa documentazione ritualmente riprodotta in giudizio”.

(via)

Non dire mai grazie

Stamattina mi sono alzato con la voglia di ringraziarvi. Non si usa, anzi si usa poco, di solito a fine serata per gli sponsor o qualcosa del genere ma quando questa mattina ho aperto gli occhi, nel letto, pensando a quanto sono riuscito a stare leggero (per niente a galla, ma con il timone saldo, direi, piuttosto) in questi giorni, ecco, ho pensato che di solito non mi prendo mai il tempo e il modo di ringraziare. È una deformazione professionale, forse, che mi fa rincorrere i “cattivi” e vorrebbe convincermi a sospettare anche di tutti i “buoni”. Ho sempre fatto fatica a togliermelo il vizio, del resto. Voglio ringraziare quelli che mi stanno scrivendo, voglio ringraziare amici che mi hanno sostenuto con preoccupazione e azione, soprattutto facendo quello che per ora si può fare aspettando i riscontri, la magistratura e tutto il resto. Voglio ringraziare le associazioni, i comitati e i politici (sì i politici, tu pensa, eh) che stanno interrogando le istituzioni e voglio ringraziare i ragazzi della mia scorta che dividono questa aria pesante che non si affetta ma purtroppo si moltiplica per le persone che la devono respirare in giro. Voglio ringraziare il mio lavoro (il palco e la penna) che sono il mio porto con le sponde sempre alte e voglio ringraziare chi mi sta vicino che mi divide (lei sì, senza moltiplicazioni) il peso. Ed è più facile.
Sarebbe bello che tornasse di moda la gratitudine, sarebbe un mondo terribilmente solidale, con meno isole, meno solitudini e molto più forte. Anche contro le mafie.

Hanno preso “‘u profissuri”

Domenico Rancadorelatitante da circa 19 anni, è stato arrestato a Londra dalla polizia inglese su indicazione della polizia italiana. Rancadore, detto “‘u profissuri” ed inserito nell’elenco dei latitanti pericolosi, è ritenuto responsabile di associazione mafiosa ed estorsione.

Esponente di spicco di “Cosa nostra”, Rancadore è un pluripregiudicato palermitano di 64 anni, e deve scontare 7 anni di reclusione per i reati di associazione di tipo mafioso, estorsione ed altri gravi delitti. L’operazione è avvenuta attraverso precisi dati investigativi forniti dal Servizio Centrale Operativo e dalla Squadra Mobile di Potenza che hanno consentito agli investigatori inglesi, grazie alla collaborazione del Servizio per la Cooperazione Internazionale di Polizia, di localizzare il luogo dove il ricercato trascorreva la latitanza. Rancadore è stato arrestato ieri sera mentre faceva rientro nella sua abitazione dove viveva con la moglie di origine inglese. Nella circostanza ha tentato la fuga ma è stato immediatamente bloccato. Rancadore era ricercato dal 1994 e per la sua caratura criminale era inserito nell’elenco dei latitanti pericolosi del Ministero dell’Interno. Dal 1998, le sue ricerche sono state estese in campo internazionale. Nella capitale inglese gestiva una agenzia di viaggi e conduceva una vita agiata. Numerosi collaboratori di giustizia lo hanno indicato come esponente di spicco della “famiglia” mafiosa palermitana, con funzioni di vertice nel “mandamento” di Caccamo. In particolare negli anni ’90, egli ha rivestito il ruolo di capo di “cosa nostra” in Trabia. L’operazione è il frutto di un importante rapporto di cooperazione internazionale di polizia assicurata attraverso Interpol.

Sono risalito subito a cavallo

BRF4iu5CIAEqXtkCome quel proverbio che si ripete dopo la caduta. E allora ieri sera sono risalito immediatamente sul meraviglioso palco del Festival dei Tacchi degli amici di Cada Die Teatro. E mi ci sono sentito benissimo perché è la mia casa, il posto dove voglio stare, la parola in cui mi riconosco e mentre ascoltavo il religioso silenzio del pubblico che sorrideva delle bassezze, delle brutture e degli ebetismi di questa mafia che sarebbe così patetica se fosse isolata mi sono sentito bene.

Non mi lascio schiacciare dal fastidio, non accetto di imbruttirmi in questa cattiveria che mi continua a bussare offrendosi di difendermi.

(la foto è di Michela Murgia)

‘Ecco come mi uccideranno’: il mio pezzo per L’Espresso

da L’ESPRESSO

All’inizio arriva lo straniamento. E’ questione di qualche secondo. Sentirsi estraneo al resto del mondo, apolide, anaffettivo per difesa, come per ingoiare tutto senza lasciare briciole che possano ferire quelli che ti stanno vicino. Poi aspetti che si posi la povere. E arriva tutto il resto: cerchi che si chiudono, densi come lava.

Sono anni che so che qualcuno mi vuole male, anzi, sono anni che so bene che qualcuno mi vedrebbe volentieri morto. Lo so io, lo sanno quelli che mi accompagnano con la pistola in tasca e non avrebbero mai pensato di farlo in un impolverato camerino teatrale e lo sanno quelli che ci vivono, bene o male, con me.

Ma le parole del pentito Bonaventura hanno uno scatto in più: scrivono la sceneggiatura di ciò che sospettavi, fissano i luoghi, i dialoghi, i tempi e i modi; come se da anni sapessi di fare parte dello spettacolo, e in ritardo solo ieri mi è arrivato il copione e la sceneggiatura non mi piace per niente.

Delegittimato prima che ucciso: questo è il comandamento laico che dovremmo tenere a mente. Totò Riina ai suoi diceva che “quello lì deve finire mascariato” quando si doveva togliere di mezzo un nemico scomodo.

Mascariato, delegittimato, isolato, sospettato per essere lasciato senza le difese delle relazioni oltre che delle scorte, è il metodo che in questa italietta sempre più prepotente si usa nell’antimafia ma anche nel lavoro, nella politica e nelle relazioni sociali.

Un’esibizione di prepotenza scambiata per potere che funziona grazie al mito della durezza e alle convergenze inconsapevoli degli utili idioti: così diventa facile essere intolleranti con le fragilità e al servizio del signorotto di turno.

Non mi sembra solo questione di mafia, qua, no, per niente: è il federalismo delle responsabilità che ha voluto insegnarci che la solidarietà è un vezzo troppo democratico che non possiamo permetterci per non mettere in pericolo le nostre posizioni di rendita e il futuro dei nostri figli.

Dietro la delegittimazione che avrebbe dovuto ammazzarmi prima di ammazzarmi c’è un vizio sociale, mica solo mafioso, e per questo alle mafie funziona perfettamente. L’ho vissuta in tutti questi miei ultimi anni, la delegittimazione, ogni mattina, che ti arriva insieme alla colazione, nel ruolo del minacciato: esposto al cannibalismo perché dovrebbe fare parte dei giochi, mi dicono.

Ma forse varrebbe la pena, forse, al di là del film che in questi giorni mi hanno cucito addosso, riflettere sul metodo che prende piede solo perché intanto stiamo perdendo la capacità della critica, di costruire una chiave di lettura collettiva, di darci da fare per un’alfabetizzazione sociale sulle mafie che non stanno più al sud o lì dove ce le hanno sempre raccontate e non hanno i capi che ci propinano in tivvù ma sono nello scontrino del nostro caffè al bar sotto casa che continua a cambiare gestione, sono nella verdura degli ipermercati così vicini che non hanno abbastanza clienti eppure stanno in piedi lo stesso, stanno nel miracolo dei rifiuti che hanno trasformato la merda in oro e sono il banchetto più ricercato, stanno nelle case incessantemente costruite e desolatamente invendute che trasformano le periferie in cimiteri senza elefanti, stanno in un mercato in cui qualcuno vince sempre perché non ha bisogno di guadagnare soldi ma spenderne per ripulirli.

E così intanto a perdere sono il talento, lo studio, la meritocrazia e tutte quelle altre cose che giocano con le regole che non reggono più.

Poi c’è l’omicidio travestito da incidente. E anche a questo siamo abituati, no? Al Paese dei morti che sono stati suicidati e subito alla svelta tutti a chiudere il caso: come si impacchettano le verità qui da noi, nemmeno al ristorante con il pesce. L’omicidio è una conferma. Conferma dolorosa, sì, ma stava nell’aria.

Dicono i De Stefano, i Papalia e i Tegano che sono uno “scassaminchia”, pensa, succede che basti raccontare per scassare la minchia, così poco, sono talmente smutandati senza il loro solito silenzio tutto intorno per favorirne l’immersione che una parola dietro un sipario li rende subito stupidi e nervosi.

Uno scassaminchia, sarebbe da scrivere sulla carta d’identità come professione. Professione nel senso più antico e decoroso: prefessare ideali nel proprio lavoro e nella propria cittadinanza, lì nei doveri dove su certi temi non esistono contratti a progetto o precariato, anche se l’hanno capito ancora in troppo pochi.

Ti vogliono ammazzare, Giulio. Mi arrivano i messaggi e la solidarietà. Le preoccupazioni, i rodimenti e gli auguri (che non si dovrebbero fare ad un attore). Hai paura? No, non rispondo, gli arlecchini non devono mai prendersi troppo sul serio. Mi investiranno? Impossibile: tutta questa gente intorno è la mia isola pedonale. Mi screditeranno? Possibile, ci divertiremo un sacco a sgretolare tutto questo onore che è solo una metastasi della paura.

E quindi? Quindi c’è un articolo della Costituzione (messa così male, ultimamente) che è l’articolo 4 e dice: Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Insomma non essere scassaminchia è anticostituzionale, eh.

Il federalismo delle responsabilità

Ho parlato forse anche troppo spesso del federalismo, del federalismo della responsabilità che morde questo tempo e credo che lo farò ancora a lungo; questo stato sociale e culturale che vorrebbe essere una comunità ma non ne ha più gli strumenti mi spaventa più della voce alta di qualche prepotente. Credo (e anche questo l’ho ripetuto allo sfinimento) che soprattutto il nord abbia colpe gravissime nello sgretolamento di una solidarietà etica e buona che è stata vista per anni come una debolezza insopportabile. Un Paese disunito difficilmente supera un collasso se non riesce a costruire collettività. E per costruire una collettività bisognerebbe individuare i bisogni comuni. E per trovare bisogni comuni bisognerebbe coltivare una capacità di critica accessibile a tutti. Quindi uguaglianza direi.

Insomma il tema sembra sofisticato ma doveroso, penso. Ne parla Vittorio Andreoli intervistato su HP:

“L’individualismo spietato. E badi che ci tengo a questo aggettivo. Perché un certo individualismo è normale, uno deve avere la sua identità a cui si attacca la stima. Ma quando diventa spietato…”.

Cattivo.
“Sì, ma spietato è ancora di più. Immagini dieci persone su una scialuppa, col mare agitato e il rischio di andare sotto. Ecco, invece di dire “cosa possiamo fare insieme noi dieci per salvarci?”, scatta l’io. Io faccio così, io posso nuotare, io me la cavo in questo modo… individualismo spietato, che al massimo si estende a un piccolissimo clan. Magari alla ragazza che sta insieme a te sulla scialuppa. All’amante più che alla moglie, forse a un amico. Quindi, quando parliamo di gruppo, in realtà parliamo di individualismo allargato”.

E’ interessante provare a ripartire da qui.