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La Guerra alla droga. E il suo fallimento.

me16Questo è un Paese in cui il coraggio veramente progressista nell’affrontare i problemi arriva sempre con qualche decennio di ritardo: succede per i diritti civili, succede per le leggi finanziarie, succede per la lotta (vera) alla mafia e succede per la questione “droga”. Verrebbe da pensare che sia fondamentale “allarmare” per poi finalmente aprire un dibattito e (nel migliore dei casi) intervenire a livello legislativo. Eppure i numeri del proibizionismo della droga sono numeri che dovrebbero fare riflettere e che dovrebbero essere raccontati almeno per potere formulare un giudizio consapevole e, ci auguriamo tutti, una soluzione al passo con i tempi e con i fallimenti passati. Magari prima del Governo del 2030, verrebbe da dire:

La storia della Guerra alla droga inizia dunque nel giugno 1971, con la scelta di Nixon di impegnarsi in un conflitto più grande, e ancor più difficile e folle, di quello in Vietnam. La droga, dice l’allora presidente in un discorso, è il nemico pubblico numero uno degli Stati Uniti. Nonostante la politica anti-criminalizzazione di Jimmy Carter, che porta, nel 1979, la depenalizzazione in 10 stati, Ronald Reagan torna sui passi di Nixon, e torna con lui la tolleranza zero. Uno dei protagonisti di Breaking the taboo è Robert DuPont, ex responsabile della propaganda anti-droga della Casa Bianca dal 1973 al 1977, sotto i presidenti Nixon e Ford. Oggi, è uno dei principali oppositori alla guerra. Giustifica il suo passato, in parte, così: «Il governo era completamente impreparato all’esplosione del problema della droga. We totally misunderstood cocaine».

Nel 1989 negli Usa il presidente è George H. W. Bush (Senior), e Forbeselegge Pablo Escobar, 40 anni, settimo uomo più ricco del pianeta, con un patrimonio stimato in 25 miliardi di dollari. Escobar trasportava 15 tonnellate di cocaina al giorno nei soli Stati Uniti. Tra i protagonisti del doc c’è anche César Gaviria, presidente della Colombia dal 1990 al 1994, gli anni d’oro del più grande narcotrafficante del mondo. Inizialmente la Colombia era il paese dove si processava la droga, che veniva coltivata in Bolivia e Peru. Quando anche la produzione arrivò a Medellin, nacquero i grandi cartelli. «La gente» spiega Gaviria «aveva paura di Escobar». Forse. Ma fu proprio quando Stati Uniti e Colombia decisero di sfidare il potere del suo cartello che esplose una vera e propria guerra che portò 50.000 morti in due anni. Le immagini, a questo punto del documentario, mostrano piantagioni in fiamme e attacchi chimici su campi coltivati, da parte di aeroplani. La Colombia è l’unico paese al mondo in cui fu utilizzata questa tecnica, chiamata affumicazione aerea, che spesso colpiva e uccideva, però anche raccolti “innocenti” e circostanti. Facile, in queste situazioni, immaginare la spontaneità con cui le popolazioni locali simpatizzassero con i narcos. «Non puoi fare una guerra alla droga» aggiunge Ruth Dreifuss, ex presidente svizzera, «senza fare una guerra al popolo».

Dall’inizio del Plan Colombia nel 1999, l’iniziativa studiata dall’allora presidente sudamericano Pastrana e da Bill Clinton (un altro dei “pentiti”) per fermare la guerriglia colombiana e l’esportazione di cocaina, il numero dei paesi “coltivatori” passò da otto a ventotto. Oggi il traffico di droga mondiale ammonta a 320 miliardi di dollari l’anno, il più grande mercato clandestino del pianeta. Senza leggi a regolare questo traffico, come dice Morgan Freeman, armi e violenza sono i metodi di controllo più efficaci.

Andrade si sposta poi in Brasile, accompagnato da Fernando Cardozo, anche lui, manco a dirlo, ex entusiasta della Guerra alla droga. Le immagini parlano di sparatorie, ragazzi che si nascondono dietro macchine e riprendono il fuoco, pallottole che si sentono ma non si vedono, adulti e bambini che scappano nel panico. Si concludono con il pianto dei superstiti su alcune vittime, sdraiate in una strada e coperte da una plastica gialla trasparente, qualcosa che richiama, insieme, un imballaggio da banco frigo di un supermercato e una “panetta” di droga.

Si passa al Messico, alle spese dell’ex presidente Calderon nella Guerra (un miliardo di dollari solo nel 2008), ai 400.000 omicidi legati alla droga registrati dal 2006 a oggi, un dato che è difficile da quantificare esattamente, di primo acchito. È necessario rifletterci per un attimo, e tentare di stabilire le esatte dimensioni di 400.000 esseri umani (mi ha ricordato l’interminabile elenco di morte di Roberto Bolaño in 2666, o la popolazione dell’intera città di Bologna). E dopo il Messico, il primo piano di Bush Senior, sibillino e minaccioso: «If you do drugs, you will be caught. And when you’re caught, you will be punished. Some think there won’t be room for them in jail. We’ll make room». Realista: la Guerra alla droga è anche e soprattutto domestica. Circa 2 milioni e mezzo sono i detenuti negli Stati Uniti, un numero più alto di quelli cinesi. Erano 330.000 nel 1970. a Baltimora, una delle città più “problematiche” della nazione, su 600.000 persone, nel 2007, ci furono 100.000 arresti. Si è calcolato che la popolazione che fa uso di droga nel mondo (anche saltuariamente) è di 230 milioni di persone; di queste, il 90% non è “problematic”. In Italia (paese europeo leader nel consumo di droghe leggere) il 20,9% della popolazione compresa tra i 15 e i 35 anni fa uso di marijuana; in Olanda è il 9,5%. Siamo il secondo mercato oppiaceo del continente, il terzo per quanto riguarda la cocaina, e il 31% degli arresti del 2011 sono legati alla droga (dati dell’International Narcotics Control Strategy Report, marzo 2012). Intanto, negli Stati Uniti, nel 2009 si registrarono 1,6 milioni di arresti legati alla droga; 1,3 per il solo possesso; 800.000 legati alla sola marijuana.

Si passerebbe, poi, all’Afghanistan, alle esportazioni di eroina che farebbero impallidire Escobar. Si passerebbe all’Olanda, al Portogallo, alla Svizzera, ai vantaggi della depenalizzazione e della legalizzazione (che rimangono, comunque, concetti estremamente diversi). Si passerebbe (si dovrebbe passare) ad altri articoli, altri dati, un’informazione più vasta: uno su tutti, il dato della spesa militare statunitense per la Guerra alla droga. Erano cento milioni di dollari la prima volta, nel 1971, sono quindici miliardi quelli del 2012. E poi c’è una ricorrenza importante, che dà ancora più senso al documentario e alla sua esistenza, gratuita e pubblica: quest’anno sarà l’ottantesimo anniversario dal 1933, l’inizio del proibizionismo americano. Non esattamente un bel ricordo per il mondo.

(da Rivista Studio)

Niente Coppi senza i Carrea

In morte di Andrea Carrea, detto Sandrino forse per affrontare con un diminutivo la solennità del suo corpaccione contaidno, 89 anni, nato a Gavi ma cresciuto a Cassano Spinola, si è ricordato l ultimo gregario storico di Fausto Coppi e quindi di un certo ciclismo. Il penultimo ad andarsene era stato, poco più di un anno fa, Ettore Milano, 86 anni, anche lui di quella provincia di Alessandria che ha dato allo sport italiano campioni enormi di ciclismo e calcio, con una concentrazione di talenti che forse meriterebbe un qualche studio serio: Girardengo, Coppi, Baloncieri, Giovani Ferrari, Rivera

Milano, erre “roulée” alla francese proprio come Rivera e come tanti di quella provincia (idem per Parma), era in corsa il paggio psicologo di Coppi, Carrea era il suo diesel da traino e spinta.

Scelti entrambi, per aiutare il Campionissimo, da Biagio Cavanna detto l orbo di Novi Ligure, il massaggiatore cieco che tastava i muscoli e indovinava le carriere (e a Milano diede pure la figlia in sposa).

I due non avevano vinto mai in prima persona, Fausto vinceva anche per loro che lavoravano per lui portandogli in corsa acqua,panini,conforti vari, tubolari, amicizia. Un giorno al Tour de France del1952 Carrera si trovò, ”a sua insaputa”come uno Scaiola del ciclismo, in maglia gialla.

Un gendarme lo pescò in albergo per portarlo alla vestizione. Carrrea si scusò con Coppi per eccesso di iniziativa, avendo fatto parte di un gruppetto, teoricamente innocuo, di fuggitivi non ripresi.

Il giorno dopo il suo capitano gli prese, come da copione, la maglia gialla scalando l Alped Huez e arrivò da dominatore a Parigi. Un cantante ciclofilo, Donatello, che ha fatto anche Sanremo, ha composto una canzone splendida che è un sogno di bambino e dice: “Un giorno, per un giorno, vorrei essere Carrea”.

Il gregario nel ciclismo non c è più, almeno nel senso classico: libertà di rifornimento continuo dalle ammiraglie, licenza per ogni assistenza tecnica in corsa, severità della giuria quando, specialmente in salita, ci sono troppe spinte per i capisquadra, che facevano chilometri senza dare una pedalata, hanno procurato dignità aduna collaborazione che non è più umiliante e servile, e che consiste soprattutto nel pedalare con accelerazioni giuste al momento giusto, nell aiutare, aprendogli un tunnel nell aria, il capitano quando è il momento di tirare per rimediare aduna sua défaillance o rafforzare una sua iniziativa. Nello sport tutto i gregari sono di tipo nuovo.

Diceva Platini genio del calcio: “Importante non è che io non fumi, è che non fumi Bonini”. Il quale Bonini gli gocava dietro, riempiva il campo del suo gran correre, cercava palloni per servirglieli. Adesso i grandi gregari del calcio, alla Gattuso, guadagnano bene, sono stimati, cercati. Coppi lasciava comunque ai gregari tutti i suoi premi, e così li ha fatti ricchi.

Chi è adesso il gregario? Nell automobilismo il pilota che esegue gli ordini di scuderia, lascia passare il compagno che ha bisogno di punti, fa da “tappo” mettendosi davanti a chi lo insegue, e al limite “criminoso” sbatte fuoripista il concorrente pericoloso.

Nel ciclismo è ormai quello che sa propiziare il sonno al campione nelle dure prove a tappe, sa dargli allegrie o comunque distensione in corsa. Nel mondo dell atletica il gregario si chiama lepre, ed è pagato, nelle corse lunghe,per tenere alto il ritmo nella prima parte, sfiancando gli avversari e propiziando un tempo di finale di eccellenza: poi può ritirarsi. Sta sul mercato, è ingaggiabile anche al momento, per una corsa sola.

Nella scherma magari è quello che tiene per il campione il conteggio delle vittorie regalate in tornei di ridotta importanza o comunque prospettanti al campione stesso una eliminazione ormai sicura, gli fa il calcolo dei crediti e dei debiti così messi insieme nel rapporto con avversari importanti, gli dice quando è tempo di “passar vittoria”.

Il gregario nuovo può anche arrivare a sperimentare su se stesso il prodotto dopante o il prodotto coprente, correndo dei rischi. Ma la sua funzione diventa sempre meno materiale. E si deve ricordare che il prototipo altamente psicologico del gregario che dà serenità, oltre a procurare una buona compagnia negli allenamenti, tiene quattro gambe anzi zampe. E un cavallo: si chiamava Magistris, era un quasi brocco, ma senza di lui vicino, in pista come nella stalla,il favoloso Ribot era nervoso, tirava calci e nitriva di rabbiosa tristezza.

Focalizzare la campagna elettorale (e l’avversario giusto)

campagna-elettorale-2013La campagna elettorale è partita con un profilo basso e con un confronto sostanzialmente limitato al problema degli schieramenti e delle alleanze. I veri temi politici sono limitati, finora, ad uno solo: le tasse, soprattutto l’IMU.
Confrontarsi con un populismo cinico e bugiardo è obiettivamente difficile per tutti. L’eterno ritorno di Berlusconi mina ogni residua possibilità di parlare di politica in modo più civile. Nel centrosinistra però sarebbe bene ricordare che gli avversari, almeno fino al voto, sono tutti gli estranei alla coalizione progressista ma il nemico (della democrazia e della costituzione) è purtroppo ancora lui e non il riformismo moderato che, del resto, era corteggiato quando era impersonato da figure non più affidabili di Monti, Oliviero, Riccardi.
Bersani è sincero quando dice di pensare prima al bene dell’Italia, poi del centrosinistra, poi del PD, e dunque di tutto ciò tenga conto. Non dia l’impressione, quasi per un inconsapevole riflesso di casta, di considerare non Berlusconi ma Monti estraneo alla dialettica democratica. E non usi verso Monti toni duri e sprezzanti che non userebbe verso Casini o Fini.
Consideri invece i danni che un’altra becera campagna elettorale di Berlusconi può causare a questo già disgraziatissimo paese. E a questo pericolo reagisca.
Perché in nessun paese civile al mondo sarebbe potuto accadere che un personaggio simile dopo i fallimenti politici, il disastro economico, la caduta di ogni illusione e promessa, il discredito personale e politico che lo circonda all’estero, i processi in corso e la condanna in primo grado, la conclamata abitudine all’imbroglio e alla simulazione, potesse ancora presentarsi alle elezioni politiche e oltretutto sperare, e con qualche fondamento, di ribaltare o comunque condizionare l’esito del voto con due mesi di recitazione della solita, logora commedia.
Bersani e tutto il centrosinistra devono domandarsi: come è possibile che questo accada? Come siamo arrivati a questo punto? Cosa è accaduto a questo paese?
Questo è tema politico per eccellenza, perché la politica non è solo amministrazione della cosa pubblica ma anzitutto guida dei processi sociali e della cultura civica del paese.

Ha ragione Sergio Materia: il tema è questo. E sarebbe ora di muoversi.

Ecco, sarebbe da imparare anche dalle nostre parti

Leggevo (lo so, è inaspettato da parte di un consigliere regionale in Lombardia) e pensavo allo snobismo che sta prendendo piede qui in tutti questi anni e (ci interessa di più) nella Lombardia milanocentrica di un pezzo del centrocentrosinistra. E ho trovato questo, che sarebbe da tenere a mente prima di lanciarsi in spericolati civismi partecipati e partecipativi nella forma e diversamente nei contenuti:

[…] Un’altra cosa contribuì ad offendermi: il modo arrogante, tipico dell’alta società, col quale invece di rispondere alla mia domanda e fingendo anzi di non averla sentita, l’aveva interrotta con un’altra, come per farmi notare che m’ero spinto troppo in là, mi ero preso troppa confidenza osando rivolgergli simili domande. Per questa tattica dell’alta società nutrivo un’avversione che rasentava l’odio.

Fëdor Dostoevskij, Umiliati e offesi (Einaudi tascabili, pagina 224)

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No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere.

Nei miei tanti incontri con i ragazzi delle scuole non tralascio mai di ricordare loro il monito di un giovane martire della Resistenza modenese, Giacomo Ulivi, studente diciannovenne, fucilato dai fascisti nel novembre del 1944. Prima dell’esecuzione nella sua lettera agli amici scrive: «No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto ciò è successo perché non ne avete più voluto sapere». Esortazione a tutti coloro che, ancora oggi, non ne vogliono più sapere e, sfiduciati, si ritraggono dalla lotta per quel mondo diverso che noi resistenti sognavamo.

[Germano Nicolini con Massimo Storchi, Noi sognavamo un mondo diverso, Reggio Emilia, Imprimatur 2012, pp. 89-90]

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Non hai visto Silvio?

img1024-700_dettaglio2_big_Berlusconi-Santoro-2Me lo chiedono in molti: essersi persi il duello Berlusconi – Santoro evidentemente è una colpa da espiare con dolore per una settimana buona.

Però ho letto Giorgio stamattina sul suo blog e concordo con lui quando dice: credo che il fenomeno di cui parli non abbia evoluzioni significative: credo anzi si ripeta in una modalità sempre identica. Forse, invece, dovremmo domandarci perché lo spirito critico di chi vi assiste non è maturato. E spesso si accontenta della critica sotto forma di un tweet sarcastico, o dello spettacolo stesso cui ha partecipato Berlusconi – uno spettacolo ben impostato, ma che obbediva alle regole stesse del suo sistema.

E già mi ero annotato le sue parole di marzo quando scriveva a proposito del berlusconismo e dell’approccio di questo Paese al berlusconismo:

La domanda è ora se siamo finalmente immuni da questo germe. Io non credo. Che il suo aspetto più ridicolo e grottesco sia sopito non è una buona ragione per ritenere la guarigione avvenuta. Meglio procedere con maggiore cautela.

Quello che sembra ragionevole dire, invece, è che ci troviamo di fronte a un abisso narrativo. La dialettica berlusconismo/antiberlusconismo ad ogni costo è stata svuotata: il palcoscenico appare deserto. Questa è un’ottima notizia: le modalità di lettura del reale saranno costrette a uscire da una gabbia che ci ha inchiodati per anni. Eppure, una nuova strada per raccontare l’Italia del presente è ancora tutta da trovare.

Perché una tossina del berlusconismo particolarmente complessa da smaltire è proprio questa: il disinteresse per la verità. La naturalezza con cui le dimensioni più importanti del discorso pubblico — argomentazione, approfondimento, dialogo — vengono sepolte da tutt’altro: la facile reazione di pancia, l’enfasi ad ogni costo, la legittimazione strisciante dell’egoismo. Tutto questo non è scomparso con il novembre 2011. È ancora lì. Non ci siamo trasformati di colpo in un popolo responsabile, cosciente e pronto a mettere il bene comune di fronte a quello privato.

Abitiamo un Paese che ha alle spalle un’autentica catastrofe dell’immaginario. Il modesto consiglio che si può offrire è quello di non pensare di averla già superata, ma di adoperarsi fino in fondo per superarla realmente.

Gaber diceva di non temere “Berlusconi in sé, ma il Berlusconi in me”. A costo di essere un po’ pessimista, io temo la facile e improvvisa scomparsa di questo “Berlusconi in me” dal palcoscenico delle nostre anime. Essersi sbarazzati di lui politicamente — ah, ma sarà davvero così? — non corrisponde affatto a una liberazione simbolica. Gli ultimi mesi non sono una forma assolutoria per ciò che il berlusconismo — un affare ben più ampio e complesso del singolo individuo — ha determinato.

Per combattere un virus linguistico e morale come questo ci vuole un grosso sforzo. Limitarsi a darlo per morto significa reiterare la solita mancanza d’intransigenza di cui l’Italia ha dato prova nel corso della propria storia: dimenticare rapidamente un passato difficile, invece di farne i conti fino in fondo. Per quanto complesso o doloroso possa essere.

Allora vale la pena rileggersi il libro di Giorgio Fontana “La velocità del buio” e studiare il senso del narcisismo e delle sue infezioni.

 

E quella che era una visione è un modo di vivere. Il mio modo. Adesso.

Ci sono vite passate sott’acqua. Anni nell’acquario a nuotare tra le bollicine artefatte sparate un tot al minuto. Come una vita passata con gli occhialini appannati sotto il livello del mare.
Poi emergi. Nelle cose vere. Nella vita vera veramente.
E poi ami, amo, sei amato, sono amato.
Ed è un minuto in cui si scioglie tutta una vita. E quella che era una visione è un modo di vivere. Il mio modo. Adesso.

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L’ultima volta. Giuro.

roberto-formigoni-770x513Perché ho deciso da tempo di non dare retta a ciò che dice quell’egocentrico millantatore che è Roberto Formigoni, degno delfino dell’impunito visto ieri sera mentre trasformava la politica in paradosso per di più divertendosi pure.

Ma Formigoni che non ha nemmeno lo spessore per rivendicare una sana incazzatura (che in fondo gli spetterebbe) contro la Lega e recita la parte della pecorella ravveduta nei confronti della Lega rende bene l’idea dello spessore politico di un governatore forte delle proprie mura ventennali piuttosto che delle proprie pratiche di governo. Forse perché la Lombardia dovrebbe essere l’Ohio e invece sembra sempre un quartierino simile a quelli di lodigiana memoria (memento Fiorani, semper) dove l’aggregazione (ance nelle sue forme criminali) conta più del consenso.

“Lavorerò con il Pdl per Maroni” ha dichiarato oggi Formigoni in conferenza stampa mettendo il timbro (non che ce ne fosse bisogno) ad un’allegra brigata che vorrebbe avere la faccia pulita del candidato ex Ministro dell’Interno e invece ha lo stesso odore di sempre. Di sempre. Solo con 17 anni alle spalle  e qualche arrestato in più di un anno fa.

Carcere e diritti umani: chi ce lo fa fare?

penitenziario_progetto_Maria Fux_danzaterapia_danza_Valentina_Vano_Milano_riabilitazione_sociale_arti terapie_carcereUna riflessione del Comandante della Casa Circondariale di Chieti Valentino Di Bartolomeo che in carcere ci lavora e che vive la quotidianità di una situazione che ha bisogno di condanne europee per fare notizia una volta all’anno. Eppure in questi due anni eravamo proprio in pochi a visitare con insistenze le carceri lombarde (approdo facile, tra l’altro, di troppi nostri colleghi consiglieri regionali) e ogni volta è un dolore per un dramma che non riesce a soffiare all’esterno tra le sbarre. Una Lombardia più attenta e etica per il futuro non può non passare da un Garante che lo sia davvero e una commissione che costringa il Governo ad intervenire, almeno a dare una risposta. Una risposta diversa da un “eh, sì ci dispiace” recitato una volta all’anno.

Già mesi addietro avevo espresso le mie perplessità circa l’uso del termine sovraffollamento riferito al contesto carcerario italiano, perché a mio giudizio evoca la spontaneità dell’afflusso di persone verso luoghi di festa e quindi con l’espressione “sovraffollamento” si riesce ad edulcorare la situazione amara dei luoghi di pena della Penisola (le isole le hanno sconsideratamente chiuse da anni). Nel caso del carcere faremmo meglio ad esprimerci con il termine di “ammucchiamento”, perché i detenuti così stanno, “ammucchiati”. E’ infatti condivisibile la teoria secondo la quale le carceri scoppiano di gente solo perché la società “inventa” reati ed attua così il controllo sociale.

Oggi, 8 gennaio 2013, mentre da solo a casa consumavo un panino, il telegiornale mi ha informato, in prima notizia, che l’Europa ha condannato ancora l’Italia per violazione dei diritti umani nelle nostre prigioni, ove gli spazi sono angusti, le condizioni minime di dignità non sono garantite, i detenuti convivono ammucchiati. Non solo per una questione di metri quadri a disposizione, quanto per le carenze di attività, per quello che nel gergo carcerario si definisce “ozio forzato”. Gli addetti ai lavori ed i detenuti lo sapevano e lo sanno che nelle carceri si vive male.

Ascoltando il telegiornale però ho scoperto che anche il Ministro si aspettava che l’Europa ci condannasse, anche il Ministro condivide lo stigma verso le condizioni di detenzione, anche il Ministro si è messo nella posizione di coloro che hanno condannato le condizioni di vita in cui vengono costretti i detenuti.

Eppure mi hanno insegnato che il Governo, l’Amministrazione, i mega dirigenti, sono bravi se riescono a gestire bene con le risorse che hanno: economiche, umane, strutturali, normative. L’acqua usata da Pilato per lavarsi le mani, oggi è stata sostituita da una espressione semplice ed abusata: “Io lo avevo detto, io lo avevo previsto”. Quanto ci piacerebbe sentire: “Con il poco che ho, questo è quello che ho fatto”; facendo seguire all’incipit l’elenco del quanto fatto.

Io sono un addetto ai lavori. Sento solo slogan e frasi coniate: sorveglianza dinamica, regime aperto, riperimetrazione degli spazi. Nessuno che spieghi, con parole semplici, quale articolo dei Decreti abbia fatto modificare o proposto di modificare, quale circolare abbia elaborato, quale filosofia della pena condivida (se ancora esiste una filosofia della pena).

Ed anche: se la Corte di Strasburgo ci ha concesso un anno di tempo per adeguare il trattamento riservato ai detenuti agli standard europei di dignità, il Ministro e l’Amministrazione hanno un progetto o vorranno ancora lamentarsi di una presunta inerzia del Senato? E gli oltre 500 ricorsi già incardinati avanti la Corte europea dei diritti dell’uomo?

Non sono pervenute circolari a firma del Ministro, nemmeno del Sottosegretario. Non dico che avrebbero risolto il problema ma almeno lo avrebbero definito compiutamente, analizzato, fornito di legittimazione politica nelle proposte di soluzione. Macchè! La politica, anche questa politica dei tecnici, mi pare si tenga ben lontana dai problemi del carcere e del cosiddetto “sovraffollamento”. Si tiene lontana dalla dignità dell’uomo.

Ma, soprattutto, la governance, (come si fa chiamare oggi per non essere identificata), sconosce anche le buone prassi di chi veramente lavora e non le utilizza per evitarci le condanne dell’Europa. Ed allora, a lavorare bene senza che ci venga almeno riconosciuto, chi ce lo fa fare?

ma che poi chi lo sa chi eravamo


Gli facevo questo sorriso in questo vetro, che dietro si vedeva la strada con quelli che passavano e poi più indietro dall’altra parte della strada, nello scuro del parco Tiburtino, s’incominciavano pure a vedere questi articoli dietro la rete della serranda abbassata, che parevano pure qui tutte tazze, bicchieri, altri pezzi che non si capiva, e in mezzo a questi che pareva che eravamo noi che stavamo a guardare, ma che poi chi lo sa chi eravamo, e tutto quanto che era.

Franco Lucentini, Notizie degli scavi

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