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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Migranti, Villa: “Con Meloni toccato l’apice”

Matteo Villa, responsabile DataLab di Ispi e studioso delle migrazioni, ieri era il secondo giorno di click day del decreto flussi che quest’anno prevede 136mila ingressi per il 2023. Questo governo non vuole i migranti ma poi li cerca
“In realtà Confindustria diceva che ne servirebbero 300mila all’anno per 3 anni, quindi circa 900mila personae in tutto. Questo ci dà l’idea di quanti davvero ci servano e quanti ne dovremmo regolarizzare. Ci dice anche quanto lo Stato italiano stia perdendo soldi poiché se mai li regolarizzano mai quelli pagheranno le tasse. Incredibilmente la destra sta programmando come gli altri non hanno mai fatto, alzando moltissimo le quote. Erano 30mila tra il 2014 e il 2020, un numero incredibilmente basso non alzato né dai governi di centrosinistra né dai governi tecnici. Con Draghi siamo arrivati a 80mila. Già all’insediamento del governo Meloni si sono accorti che 80mila non sarebbero bastati. Già l’anno scorso hanno aggiunto 40mila ingressi. Alla fine il governo Meloni ha preso atto e ha negoziato un altro numero, che sono 450mila persone in tre anni oltre a quei 40 mila”.

Mezzo milione di persone fatte entrare da chi aveva promesso di “chiudere i porti”…
“Capisci subito: 490mila, un pelo sotto mezzo milione. Come per i prezzi degli abiti a 19,99. Saltano agli occhi due elementi. Primo: i decreti flussi più alti li fa il centrodestra. Secondo: se hai raccontato in campagna elettorale che non li vuoi ora è un bel problema perché in questo momento si dovrebbe annunciare che esistono le alternative per venire legalmente in Italia”.

È abbastanza
“No ma la direzione è giusta. Potresti fare emergere 600mila persone già qui che avrebbero l’opportunità di pagare le tasse. Dall’altra parte se il tuo obiettivo è scoraggiare i flussi irregolari di sicuro non lo puoi raggiungere se il decreto flussi lo annunci un venerdì di luglio dopo le 17, lo approvi in Cdm come una cosa tra tante e poi non ne parli perché nel momento in cui è stato annunciato trovi le polemiche della tua base che ti accusa di tradimento, di politica immigrazionistica e di sostituzione etnica. Accade così. Se tu soffi per anni su quel fuoco quando ti rendi conto che devi cambiare la narrazione ti ritrovi contro un muro”.

E allora perché non ne parla l’opposizione?
“Le migrazioni sono un argomento tossico e non si è ancora capito come fare a raccontarla creando consenso politico.Lo dico da osservatore esterno: tutti quelli che ci hanno trovato hanno fallito. Il Pd in questo momento potrebbe avere un afflato di cambiamento e riconoscere che il governo ha preso una decisione giusta ma non lo fa per estrema paura che questa cosa gli esploda in mano. Si vede bene anche nei sondaggi, quando chiedi quale sia la minaccia o la preoccupazione l’immigrazione è tra le prime risposte anche se non corrisponde nei numeri. La paura è esplosa nel 2015-16 ed è rimasta altissima nel 2019 quando erano crollati gli sbarchi. La paura passa solo perché il governo ne parla meno. In Europa non esiste una forza politica progressista che sia riuscita a guadagnare consenso parlando di immigrazione”.

Oggi dovrebbe essere presentato in Cdm un disegno di legge per esternalizzare il trattenimento in Albania. Cosa ne pensa
“Mossa inutile e costosa. Non sappiamo quello che succederà ed è ovvio che se davvero le persone in quel centro saranno 4mila (neanche in Italia esistono centro così grandi) sarà a tutti gli effetti un carcere. Il governo vorrebbe fare passar da lì 39mila persone, significa sostituire gli ospiti ogni 4 settimane. Sarà già difficilissimo trovare personale per gestire la richiesta d’asilo in tempi così impossibili. Oggi siamo la gestione di una richiesta di protezione richiede oltre un anno e se la vuoi accelerare devi garantire comunque un giusto processo per non incappare in un ricorso. Io mi aspetto che sarà già tanto se ne andranno lì in 10mila”.

E perché?
“Ho due dubbi. Primo: il costo di questa operazione è di 100 milioni di euro. Se tu avessi voluto fare una politica restrittiva, 100 milioni di euro potevi darli a Saied. C’è un altro aspetto: qualsiasi sia l’esito, queste persone dovranno tornare in Italia e quasi nessuna sarà rimpatriata. Quindi hai un procedura più costosa per avere meno diritti con molti più costi. E uno dice, perché?”.

Lei che risposta si è dato?
“Quei 10mila torneranno in Italia per essere trattenuti nei Cpr e rimpatriati, ma sappiamo che il tasso di rimpatrio è sotto il 10%. Resteranno illegali in Italia. Hai solo evitato che si veda che sbarchino. Inoltre c’è un altro rischio”.

E quale sarebbe?
“Quando tu li devi portare le persone in Albania devi bloccare le barche in mezzo al mare, avere una persona sulla barca che decida quali di queste persone debba essere mandata in Albania. Possono andarci solo i maggiorenni o donne non gravide o persone non vulnerabili. Si può solo immaginare quanta gente alzerà la mano per dire che è minorenne”.

Risultato?
“Quell’ufficiale che sale sulla barca e decide tra chi è e chi non è minorenne, su una barca in mezzo al mare? E poi: trasbordi 80 persone su 100 in Sicilia, ne tieni 20 sulle barche? Dovrai prendere una nave a noleggio da crociera, come le navi quarantena, metteranno i primi 20 e aspetteranno i prossimi finché non si riempie. Logisticamente è un delirio”.

 

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Regeni e il senso di giustizia

Era il 3 febbraio del 2016 e oggi è il 5 dicembre del 2023. Quanto dolore attivo serve per cercare giustizia attraverso due continenti, svariati governi e sette anni e mezzo in cui “tutto il male del mondo” che stava sul viso di Giulio Regeni è rimasto sotterrato dall’inezia (se non la complicità) di un’Italia bravissima a celebrare i morti e vigliacca nel restituire giustizia ai vivi. 

I quattro agenti dei servizi segreti egiziani accusati dell’omicidio di Giulio Regeni sono stati rinviati a giudizio dal giudice per l’udienza preliminare di Roma. Eccola la svolta nell’inchiesta sulla morte del ricercatore italiano ucciso il 3 febbraio 2016 dopo esser stato sequestrato il 25 gennaio: a processo andranno Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abedal Sharif, accusati a vario titolo di concorso in lesioni personali aggravate, omicidio aggravato e sequestro di persona aggravato. 

Il rinvio a giudizio dei quattro agenti dei servizi è stato possibile grazie alla sentenza della Corte Costituzionale emessa il 27 settembre scorso che consentiva il processo pur con gli imputati irreperibili, circostanza che la legge italiana invece impedisce perché senza la notifica degli atti processuali agli imputati non si può tenere alcun processo.

Quando la giustizia supera gli aspetti formali (che sono sostanziali) per perseguire la verità lo Stato appare immediatamente alleato e vicino. La riforma che serve, a cui dovrebbe pensare il ministro Nordio sta qua: fare il possibile, all’interno delle leggi, perché i rapporti di qualsiasi tipo (politici, economici, famigliari) non diventino un ostacolo. 

Buon martedì. 

Nella foto: la campagna di Amnesty Verità e giustizia per Giulio Regeni

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Numeri a caso e Fake news. Il Ponte di Salvini è una farsa

Sono molti e diversi gli elementi da tenere in considerazione per valutare la credibilità di un esponente politico e la serietà dei progetti che propone. Uno di questi è sicuramente la coerenza dei numeri, fattore essenziale per valutare la bontà e la fattibilità di una riforma, di un’opera o di una promessa. Sul progetto del Ponte di Messina i numeri sono campo di battaglia di diverse visioni.

Sul progetto del Ponte di Messina i numeri sono campo di battaglia di diverse visioni

Il ministro alle Infrastrutture nonché leader della Lega Matteo Salvini ha usato e usa i numeri dell’occupazione prevista per indorare la pillola di un’infrastruttura dibattuta da anni. Il messaggio è chiaro: se porta lavoro vale la pena compiere un sacrificio economico e ambientale. È il mantra del capitalismo ogni volta che deve giustificare la stonata imponenza dei suoi affari. Il problema è che Salvini – come ha notato il sito Pagella Politica – con i numeri si è ingarbugliato parecchio.

All’inizio erano 120 mila, poi sono scesi a 100 mila, ora sono 50 mila “mal contati”, sulla base di uno studio che però ne stima 33 mila. In poco più di un anno il ministro Salvini ha dimezzato il numero dei posti di lavoro che sarebbero creati dalla costruzione del ponte. Qualche giorno fa la trasmissione Report ha raccontato che i numeri sul risparmio di CO2 che il ministro riferiva allo studio di un’università (che non esiste) arrivavano invece da Giovanni Mollica, che da sempre promuove la costruzione del ponte e che inoltre ha collaborato con il consorzio incaricato alla sua costruzione. La domanda è scontata: vi fidereste di un ponte che attraversa lo Stretto piantato da un ministro così?

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Cop28 sveglia Meloni

È una politica stretta, infeltrita e provincialissima quella che Giorgia Meloni ha portato in borsa alla Cop28 di Dubai, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Partiamo dall’inizio.

È una politica stretta, infeltrita e provincialissima quella che la premier Meloni ha portato in borsa alla Cop28 di Dubai

Tra qualche anno racconteremo che nel 2023 il più delicato incontro internazionale sui cambiamenti climatici organizzato mentre la terra bolliva come mai nella sua storia è stato presieduto dall’amministratore dell’Abu Dhabi National Oil Company (Adnoc), società petrolifera di stato degli Emirati arabi uniti che è prima al mondo nella poco invidiabile classifica delle aziende i cui piani di espansione sono incompatibili con il rispetto degli obiettivi climatici. Chissà i nostri figli cosa penseranno di noi che da giornalisti stiamo raccontando la cronaca in diretta di un assassinio con gli onori che si riservano alla diplomazia.

In questo quadro nefasto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha dedicato i suoi due giorni di permanenza a Dubai rilasciando dichiarazioni in difesa del suo fedele sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, attaccando i magistrati per difendere il suo ministro Nordio, commentando le parole di Gianni Letta e vaneggiando sulla sua riforma costituzionale. Questa loquacità che sopravviene quando non ci sono giornalista italiani si chiama patriofobia. Non male per una patriota.

Inevitabile che la sacerdotessa del provincialismo e delle beghe si diluisse parlando di clima e temi globali. In una conferenza per salvare il clima Meloni ha attaccato gli attivisti climatici e ha rilanciato la “neutralità energetica” che è omeopatia politica nella lotta ai cambiamenti climatici. E poi si è fatta le foto da mettere sul suo profilo Instagram. A posto così.

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Giulia, «mia»

«Non accettavo che lei non fosse più mia». Altro che i biscotti, altro che il padre in tivù per lamentarsi che suo figlio venga diffamato perché indicato come assassino reo confesso com’è, altro che le lacrime, altro che gli articoli per sapere che libri vorrebbe in cella, altro che i rabdomanti di sangue sui marciapiedi, altro che la piscomagia del raptus: se c’è una frase su cui dibattere dell’interrogatorio di Filippo Turetta che ha ammazzato Giulia Cecchettin è questa: «non accettavo che lei non fosse più mia»

«Mia» come lo sono le cose che teniamo nel cassetto porta oggetti dell’auto. «Mia» perché possesso. «Mia» perché l’autonomia delle donne è un tradimento all’atavico patto che le donne debbano stare al loro posto, che spesso non è loro ma di qualche uomo che glielo concede. 

Quali siano gli strascichi giudiziari del processo sul femminicidio di Giulia Cecchettin, a quanto ammonterà la condanna e che forma avrà la strategia difensiva è una piega della vicenda che ha poco a che vedere con quello che dovrebbe interessarci sui femminicidi come danni collaterali del patriarcato legittimato.

La discussione politica (già sopita come accade agli emendamenti di una legge di Bilancio) e la discussione culturale (egemonia di maschi impauriti) dovrebbe convergere su quel «mia» esalato dalla bocca di quasi tutti i femminicidi. Ma è una riflessione che non accadrà perché smentisce le radici delle scemenze ascoltate in queste settimane. Ogni femminicidio è premeditato perché sedimentato da una cultura che opprime e sopprime anche quando non uccide. Altro che biscotti. 

Buon lunedì. 

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Un Paese in declino: il Censis smonta la narrazione di Meloni

No, l’Italia non ha cambiato passo e non ha una faccia nuova. La propaganda con cui la presidente del Consiglio Giorgia Meloni condisce ogni sua dichiarazione è stata smentita ieri dall’ultimo rapporto Censis che sovverte di fatto la rappresentazione del Paese che si legge sulla stampa e che sta nei discorsi in Parlamento della maggioranza. Nonostante Renato Brunetta, ora presidente del Cnel, dica di voler vedere “il bicchiere mezzo pieno” e di vedere “un Paese più forte e coeso” i numeri non mentono.

La fotografia del Censis

Il 57esimo Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2023 fotografa un’Italia dalle mille meraviglie, se ammirato dall’alto delle lussuose terrazze cittadine o degli strapiombi sul mare, ma invischiato in tutte le sue arretratezze, se vissuto dal basso. Il Rapporto mette in evidenza le difficoltà di un’Italia dove prevale quello che viene definito “l’arrangiamento istintivo” rispetto a un “disegno razionale”, dove ormai quel “meccanismo di promozione e mobilità sociale si è usurato”.

In poche parole, sostiene il Censis, “tra vitalità disperse e un confronto pubblico giocato su emozioni di brevissima durata, la società italiana trascina i piedi”. Dal Report emerge una società che non riesce ad avviare un nuovo ciclo e che cerca di sostituire “il modello di sviluppo costruito a partire dagli anni ‘60 nel quale si rivendicava il lasciar fare” o “il riconoscimento delle identità e dei diritti collettivi” con un nuovo modello “confuso”. Quale? Il Censis sostiene che oggi si punta più al “lasciar essere, l’autonoma possibilità – specie per le giovani generazioni – di interpretare lavoro, investimenti, coesione sociale, senza vincoli collettivi”.

Declino e fobie

Per l’80% degli italiani l’Italia è un Paese “in declino”, non in grado di difendersi militarmente (50%) nel caso in cui scoppiasse un nuovo conflitto mondiale (temuto dal 60% degli italiani) e il 48,5% teme invece di vedere i propri risparmi diminuire rispetto al 2022. Secondo il Rapporto Censis esiste “una direzione” ma “pochi traguardi”. “Nelle tensioni e negli affanni di questi ultimi anni – si legge nel report – la società italiana inizia a intravedere, con progressiva chiarezza, i contorni della difficile congiuntura e i possibili punti di arrivo dei cambiamenti in corso, ma elude attentamente stimoli e investimenti utili a tradurre l’intenzione in traiettorie concrete”.

E “il ripiegamento in piccole patrie e piccole rivendicazioni e la scarsità di traguardi condivisi mettono a basso regime, quasi a riposo, i motori delle grandi invarianti collettive. La pandemia – prosegue il testo – la crisi energetica e ambientale, le guerre ai bordi dell’Europa, l’inflazione, i flussi migratori, l’affermarsi di modelli di sviluppo diversi da quello occidentale, l’aggravarsi dei rischi demografici e dei nuovi bisogni di tutela sociale hanno però messo definitivamente a nudo i bisogni di medio periodo del nostro Paese”.

La propaganda si sbriciola di fronte alla realtà. Le “famiglie tradizionali” vagheggiate dal governo sono il 52,4% delle 25,3 milioni di famiglie. Il 42% degli anziani deve supportare economicamente figli e nipoti nonostante temano per la propria pensione. Per il 72,8% degli italiani gli stranieri sono “una risorsa per il lavoro” e “necessari”. Il 74% dei cittadini è favorevole all’eutanasia che il governo ostacola. Il 75,4% dei giovani pensa di avere di fronte una vita peggiore di quella dei propri genitori. L’ansia climatica, ovvero la paura per il cambiamento climatico (così vituperata dalla maggioranza) colpisce l’84% degli italiani mentre il 68% di loro teme seriamente per un futuro di siccità. E la popolazione italiana (che qualcuno vorrebbe rinchiudere per preservare) sia avvia a diminuire di 4,5 milioni nel 2050. Il Paese là fuori è l’opposto di quello raccontato dal governo. Le soluzioni facili e brevi – lo dice il Censis – non serviranno a nulla. Ma per ora tengono alto il consenso della Meloni.

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Sulle toghe abbiamo scherzato, Crosetto batte in ritirata

Colpa degli altri, lui è stato frainteso. Il ministro alla Difesa Guido Crosetto si dice “profondamente colpito dal tentativo di mistificazione delle mie parole. Non ho detto che a me raccontano di incontri segreti, di cospirazioni“.

Ieri alla Camera il ministro ha negato di avere mai parlato di complotti giudiziari contro il governo. “A me raccontano di riunioni di una corrente della magistratura in cui si parla di come fare a fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni”, aveva detto in un’intervista al Corriere della Sera.

Sulle toghe la retromarcia di Crosetto

Ora la sua versione cambia. Gli incontri riferiti sarebbero, secondo quanto detto dal ministro, “riunioni di una corrente della magistratura in cui si parla di come fare a fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni”.

Solo che nel suo intervento di fronte ai deputati si lascia prendere la mano e alla fine non riesce a ricadere nella teoria del complotto che avrebbe voluto allontanare: “Do lettura di alcuni interventi pubblici che io reputo gravissimi sulla questione giustizia. Io ho totale fiducia nella magistratura ma so discernere, mi riferisco ad alcune cose pubbliche che ho sentito in cui qualcuno ha parlato di una magistratura che deve avere ‘una fisiologica funzione antimaggioritaria a tutela dei diritti’…”, ha detto ieri.

E non manca, ovviamente, un po’ di vittimismo. Il ministro ha parlato di “un plotone di esecuzione contro il sottoscritto”. Così la risposta all’interpellanza di Benedetto Della Vedova, deputato di +Europa, alla fine non fa altro che rintuzzare le critiche.

“C’è un tentativo di mistificazione delle mie parole: le rileggo in italiano – spiega Crosetto – come lo saprebbe interpretare un qualunque bambino delle elementari: ‘a me raccontano di riunioni di una corrente della magistratura in cui si parla di come fare a fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni’. Ho detto che a me raccontano di incontri segreti, di cospirazioni? No“, ha esordito il ministro della Difesa.

“In questi giorni è stato messo su un plotone di esecuzione contro il sottoscritto, con insulti, interpretazioni malevole delle mie parole. La mia era una riflessione molto più alta. Tornando indietro non la farei perché avevo altro da fare, mi occupo di altro. Mentre scoppiava questo dibattito io ero all’Onu a parlare con Guterres di Medio Oriente, di pace e stabilità”, ha aggiunto.

“Apro un tema di cui dobbiamo discutere prima o poi: questo scontro tra politica e magistratura dovrà finire. Io ho trovato alcuni magistrati – ho sentito esponenti di Area – che vedono nel governo un attacco alla magistratura, quasi che non voglia farla lavorare. C’è chi ha detto che il ruolo della magistratura deve essere quello di riequilibrare la volontà popolare. Ma chi ha responsabilità deve essere terzo: pensate se questa frase la avesse pronunciata un generale o un prefetto”, ha detto Crosetto.

Solito copione

“Dal ministro abbiamo sentito solo complottismi e vittimismi“, ha replicato Giuseppe Conte, parlando fuori da Montecitorio. Il leader del M5s ha aggiunto: “Ha lamentato un plotone di esecuzione ad personam dopo aver rilasciato quell’intervista” sulla giustizia “ma qui ad personam sono solo le fermate dei treni per i ministri e i privilegi di una classe politica che sembra riportarci indietro nel passato”.

Nell’aula della Camera erano presenti soltanto trenta deputati, dell’interpellanza al ministro si è saputo soltanto giovedì sera, alla Camera non c’erano votazioni. C’erano però la segretaria del Pd Elly Schlein e il leader del Movimento Cinque Stelle Conte.

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Svolta Ue sulle liti temerarie. Mentre l’Italia accelera sul nuovo bavaglio alla stampa

Il Consiglio e il Parlamento europeo hanno trovato l’accordo in trilogo (tra Parlamento europeo, Consiglio dell’Unione europea e Commissione europea) sulla direttiva contro le cosiddette liti temerarie, le cause pretestuose intentate contro giornalisti, media e altri soggetti al solo scopo di intimidirli (Anti-Slapp, Strategic Lawsuit Against Public Participation, nel gergo bruxellese). Le nuove norme mirano a garantire la protezione a livello dell’Ue di giornalisti, media, attivisti, accademici, artisti e ricercatori contro procedimenti legali infondati e abusivi. La nuova legge, spiega il Parlamento, si applicherà nei casi transfrontalieri e proteggerà le persone e le organizzazioni attive in settori come i diritti fondamentali, l’ambiente, la lotta alla disinformazione e le indagini sulla corruzione da procedimenti giudiziari abusivi, mirati a intimidire e molestare.

Il Consiglio e il Parlamento europeo hanno trovato l’accordo in trilogo sulla direttiva contro le cosiddette liti temerarie

Gli eurodeputati hanno fatto in modo che i casi vengano considerati transfrontalieri, a meno che entrambe le parti non siano domiciliate nello stesso Paese del Tribunale e il caso non riguardi solo uno Stato membro. In base alle nuove norme, gli imputati potranno chiedere il rigetto anticipato delle pretese manifestamente infondate: in questo caso, i promotori della causa dovranno dimostrare la fondatezza delle loro ragioni. Per prevenire azioni legali abusive, i Tribunali potranno imporre sanzioni dissuasive ai ricorrenti, solitamente rappresentati da gruppi di pressione, aziende o politici. I giudici possono obbligare il ricorrente a pagare tutte le spese del procedimento, comprese le spese legali della controparte. Ove la legislazione nazionale non consenta che questi costi siano interamente pagati dal ricorrente, i governi dell’Ue dovranno garantire che siano coperti, a meno che non siano eccessivi.

A Bruxelles da anni si discute di liti temerarie e di libertà dell’informazione. Come spiega l’eurodeputato Tiemo Wölken (S&D, Germania), l’accordo sulla direttiva costituisce “un passo verso la fine della pratica diffusa di azioni legali abusive volte a mettere a tacere giornalisti, Ong e società civile. Ora la legge deve essere approvata in plenaria e dagli Stati membri per poi essere pubblicata nella Gazzetta Ufficiale.

Il disegno di legge targato FdI prevede sanzioni fino a 50mila euro. Per i giornalisti è peggio della galera

In Italia la maggioranza spinge in direzione contraria. Il disegno di legge sulla diffamazione incardinato in Commissione Giustizia al Senato non convince l’Ordine dei giornalisti e la Federazione nazionale della stampa (Fnsi) che lamentano punti critici del testo, che abolisce il carcere per i giornalisti, come chiesto dalla Corte costituzionale e dagli organismi internazionali, come le sanzioni fino a 50mila euro, ritenute assolutamente sproporzionate rispetto alla media retributiva di collaboratori e lavoratori autonomi; la rettifica automatica senza alcun commento da parte del direttore di testata o del singolo giornalista; il fatto che il giornalista non possa difendersi nel foro di registrazione della testata, ma debba farlo in quello del querelante “costringendo – è stato spiegato – colleghe e colleghi che sono ai margini della professione a una sorta di costoso ‘turismo giudiziario’…”.

Per questo la Fnsi ha deciso di convocare per giovedì 14 dicembre alle 10 nella piazza romana di Santi Apostoli una riunione straordinaria del Consiglio nazionale alla quale sono invitati a partecipare, insieme a colleghe e colleghi, i rappresentanti degli organismi della categoria, parlamentari, magistrati. Le modifiche richieste al disegno di legge non sono arrivate “nonostante gli emendamenti presentati da parlamentari di diversi schieramenti politici”, osserva la Fnsi.

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Il discusso lascito di Kissinger. Lo stratega senza scrupoli

Com’era prevedibile in questo inizio di dicembre la stampa in coro canta l’epicedio in onore di Henry Kissinger, morto all’età di 100 anni nella sua casa in Connecticut. L’operazione è piuttosto semplice: Kissinger è stato consigliere per la sicurezza nazionale di Richard Nixon e segretario di stato sotto Gerald Ford ed è, nel bene e nel male, il più importante funzionario di politica estera nella storia americana moderna. La politica estera sotto due presidenti americani rifletteva direttamente la sua visione del mondo.

Com’era prevedibile in questo inizio di dicembre la stampa in coro canta l’epicedio in onore di Henry Kissinger

Prima di entrare entrare nelle stanze che contano, nel 1968, Kissinger era professore di relazioni internazionali ad Harvard. Ha sviluppato una visione del mondo molto chiara incentrata sull’idea di realpolitik: gli Stati Uniti dovrebbero perseguire i propri interessi sondando tutto ciò che è politicamente possibile. Le considerazioni morali e ideologiche, per Kissinger, erano meno importanti delle fredde e dure valutazioni di ciò che avrebbe potuto far avanzare la posizione strategica degli Usa Non è un caso che tra i messaggi di cordoglio ieri sia arrivato anche quello di Vladimir Putin.

Così mentre la politica italiana celebra Kissinger foderata dagli editoriali addolorati tocca spulciare tra la stampa internazionale per ripristinare almeno la verità storica. Kissinger fu ideatore dell’apertura verso l’Unione Sovietica per abbassare le tensioni tra le due superpotenze dotate di armi nucleari, è vero anche che fu lui a pianificare negli anni ’70 il ripristino delle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Cina. Questi due risultati lo proiettarono di fatto tra i più venerati strateghi americani. “Kissinger cattura l’immaginazione – scrisse il suo biografo Robert Schulzinger – perché ha progettato la svolta più significativa nella politica estera degli Stati Uniti dall’inizio della guerra fredda”.

Ma quanto è costato tutto questo? “Per coloro che credono che la politica americana dovrebbe essere qualcosa di più del puro perseguimento dell’interesse personale, la continua venerazione di Kissinger a Washington è spaventosa”, scrisse già nel 2016, in occasione di una premiazione a Kissinger a cui partecipò anche il presidente Obama. L’episodio più noto è che fu Kissinger a ideare il piano dell’era Nixon per bombardare a tappeto la Cambogia. Ufficialmente il bombardamento – che colpì indiscriminatamente obiettivi in aree popolate da civili – avrebbe dovuto distruggere le basi del Vietnam del Nord e dei Viet Cong.

Morto a 100 anni il più importante funzionario americano. I suoi “meriti” pagati con fiumi di sangue

In realtà, era stato concepito per migliorare la posizione strategica dell’America prima di un ritiro negoziato. Durante la prima fase dei bombardamenti, dal 1969 al 1970, Kissinger approvò personalmente tutti i 3.875 bombardamenti, secondo un rapporto del Pentagono. Nel 1971 il governo pakistano intraprese una campagna di genocidio per sopprimere il movimento indipendentista in quello che sarebbe diventato il Bangladesh. Yahya Khan del Pakistan, uno degli artefici del genocidio, fu prezioso per le ambizioni di Nixon di ripristinare le relazioni diplomatiche con la Cina. Quindi gli Stati Uniti hanno lasciato che le forze di Khan violentassero e uccidessero almeno 300mila persone, qualcuno dice siano tre milioni.

“Non possiamo permettere che un amico nostro e della Cina venga coinvolto in un conflitto con un amico dell’India”, disse Nixon citando Kissinger. Nel 2014, documenti declassificati suggerivano che negli anni ‘70 Kissinger segnalò ai leader militari della destra argentini che gli Stati Uniti non si sarebbero opposti ai suoi piani di lanciare una repressione del dissenso nel 1976 che divenne nota come Guerra Sporca. Morirono circa 30mila persone. “Henry Kissinger, il criminale di guerra amato dalla classe dirigente americana, finalmente muore”, titolava ieri il periodico Usa RollingStone. Notate le differenza qui da noi.

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Che la riforma costituzionale fa schifo lo dice perfino Gianni Letta

La retorica e la propaganda intorno alla desiderata riforma costituzionale per il premierato gli deve essere risultata insopportabile e così ieri anche Gianni Letta, storico sottosegretario di Silvio Berlusconi e anima del centrodestra italiano per qualche decennio, ha sbottato. Letta, parlando a un’iniziativa dell’associazione Progetto Città di Firenze, spiega che il rischio di riduzione del capo dello Stato – in caso di approvazione delle riforme volute dalla premier Giorgia Meloni – sarebbe dovuto al fatto “che la forza che ti deriva dalla investitura popolare è certamente maggiore di quella che deriva dal Parlamento: non sta scritto, ma è ovvio che poi nella dialettica chi è investito ha più forza”.

“Secondo me – ha detto Letta intervenendo a un’iniziativa dell’associazione Progetto Città di Firenze – la figura del presidente della Repubblica così com’è disegnata, e l’interpretazione così come è stata data dai singoli presidenti nel rispetto della Costituzione, come tutti i costituzionalisti oggi riconoscono, sta bene così: non l’attenuerei, non la ridisegnerei, non toglierei nessuna delle prerogative così come attualmente sono state esercitate”.

A poco servono gli infervorati comunicati stampa del coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani. La riforma su cui questa maggioranza rischia di schiantarsi svilisce il Presidente della Repubblica a una mera figura cerimoniale utile per tagliare nastri e servire prosecco e pasticcini. Non c’è nulla di nuovo: governanti che vogliono più spazi per governare perché sono incapaci di farlo. 

Buon venerdì 

 

foto da Quirinale.it, Attribution, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4732658

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