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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

La bomba che non c’è: trent’anni di allarmi israeliani sull’Iran

Nel 1992, Shimon Peres dichiarava alla televisione francese che l’Iran avrebbe avuto la bomba atomica «entro il 1999». Benjamin Netanyahu, appena un anno dopo, rincarava la dose: «Teheran svilupperà la sua prima bomba nucleare entro il 1999». Era l’inizio di una narrazione destinata a diventare ciclica. Ogni governo israeliano, da allora, ha continuato ad annunciare che la Repubblica Islamica era a un passo dall’atomica. E ogni volta quella soglia non è mai stata raggiunta.

La svolta arriva nei primi anni ’90, dopo la Guerra del Golfo e il crollo dell’URSS. Israele, privo di un nemico convenzionale immediato, riorienta la propria dottrina di sicurezza e individua nell’Iran l’avversario strategico da opporre al proprio isolamento regionale. La minaccia atomica, più che un dato di intelligence, diventa uno strumento di diplomazia preventiva. Già nel 1992, oltre a Peres, anche Netanyahu parla in Parlamento di «tre-cinque anni» come orizzonte per la prima bomba iraniana. Scadenze che si sposteranno, costantemente, di anno in anno.

Uno schema ripetuto

Nel 1996 Peres aggiorna: l’Iran avrà l’arma nel 2000. Nel 1999, un alto ufficiale militare stima la scadenza al 2004. Nel 2001, il ministro della Difesa fissa il limite al 2005. Nel 2008 il generale Isaac Ben-Israel afferma che «gli iraniani sono a uno o due anni dalla bomba»; nel 2009 Yossi Baidatz parla di materiale fissile sufficiente «entro l’anno». Anche il discorso all’ONU di Netanyahu nel 2012 – con la celebre “bomba disegnata” – inserisce una nuova deadline: «meno di un anno al punto di non ritorno». Ma pochi mesi dopo, un rapporto del Mossad trapelato alla stampa lo smentisce: l’Iran non sta compiendo le attività necessarie alla produzione di un ordigno.

Intanto, gli obiettivi israeliani si consolidano: ottenere sanzioni, influenzare le decisioni strategiche statunitensi, rallentare i negoziati internazionali e legittimare operazioni militari. Il 2018 è emblematico: il Mossad trafuga l’archivio nucleare iraniano e Netanyahu lo presenta in televisione come «prova definitiva» della doppiezza di Teheran. In realtà, si tratta di documenti relativi a un programma sospeso nel 2003, già noto in parte agli ispettori IAEA. Ma tanto basta a Donald Trump per ritirarsi dal JCPOA.

Dal disegno alla bomba mai costruita

La strategia si aggiorna: l’unità di misura non è più “anni alla bomba”, ma “tempo di breakout”, ovvero le settimane teoriche necessarie all’Iran per produrre uranio arricchito sufficiente a costruire un’arma. Nel giugno 2025, all’indomani degli attacchi israeliani su impianti nucleari iraniani, fonti militari dichiarano che Teheran è «a poche settimane dalla bomba». Ma anche stavolta l’IAEA smentisce: l’Iran possiede sì materiale arricchito, ma non un programma attivo di militarizzazione. La soglia tra uso civile e militare resta da verificare.

Non è la prima volta. Il National Intelligence Estimate statunitense del 2007 aveva già concluso che il programma militare era stato interrotto nel 2003. Lo stesso Mossad, nel 2012, contraddiceva pubblicamente il proprio primo ministro. La discrepanza tra retorica e intelligence è diventata strutturale: il messaggio politico è funzionale, e spesso scollegato dalla realtà tecnica.

Una minaccia utile, ma non vera

Da trent’anni Israele presenta l’Iran come pericolo imminente. E ogni volta la soglia si allontana. Non è un errore di calcolo: è una strategia. Ha funzionato per ottenere pressioni diplomatiche, per legittimare guerre segrete, per trasformare un rischio in leva. Ma ha anche contribuito a costruire un clima di allarme permanente, che alimenta escalation e delegittima ogni soluzione diplomatica. Oggi come nel 1992, la bomba iraniana continua a non esistere. Ma serve, ancora, a giustificare chi la evoca.

Leggi anche: La Cnn smonta la propaganda di Netanyahu “L’Iran non sta costruendo la bomba atomica”

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Non era tutto il possibile: era il minimo sindacale del controllo

Hanno passato giorni a dire che “il Copasir ha lavorato bene”. A destra, soprattutto, dalle parti del governo hanno vagato per giorni belli satolli dicendo che la vicenda del direttore di Fanpage, Francesco Cancellato, spiato con lo spyware Graphite dell’azienda israeliana Paragon Solutions, era “chiusa”.

Per giorni abbiamo dovuto sorbirci anche certi giornalisti scendiletto del governo che si complimentavano con il Copasir, diligentemente guidato dal dem Lorenzo Guerini, il quale aveva stilato una relazione superata dagli eventi poco dopo essere stata resa pubblica.

Ora si riapre tutto. La notizia del telefono intercettato anche al giornalista – sempre di Fanpage, guarda a volte il caso – Ciro Pellegrino, era l’elefante nella stanza e il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica è costretto a fare nuovi approfondimenti. Sul tavolo rimane anche la versione di Paragon che contraddice sostanzialmente la relazione precedente. Poi c’è il rapporto di Citizen Lab che mette nero su bianco che sia Cancellato, sia Pellegrino, sia un terzo (o forse due?) giornalista siano stati intercettati tutti dallo stesso soggetto.

Ben vengano nuove indagini. Se non sono stati i servizi a spiare i giornalisti, allora potrebbe trattarsi di un’agenzia privata (per conto di chi?) oppure di un Paese straniero, ipotesi molto più improbabile.

Una cosa è certa: sono in molti, in questa storia, a essere timidi nella ricerca della verità. Hanno passato giorni a ripetere che era stato fatto “tutto il possibile”. Non era vero.

Buon martedì.

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La reputazione di Netanyahu che brucia più dei civili

Il massacro di Gaza ha minato alle fondamenta la retorica dell’“unica democrazia del Medio Oriente”. Le immagini dei bambini affamati uccisi in fila per il cibo, degli ospedali devastati, delle fosse comuni hanno rotto il patto ipocrita tra Israele e le sue alleanze occidentali. Quando l’indignazione internazionale ha iniziato a farsi pericolosa, Benjamin Netanyahu ha spostato il mirino: non più Gaza, ma Teheran.

L’attacco all’Iran non è soltanto un’operazione militare. È una manovra mediatica. Serve a riscrivere la narrazione: da carnefice a vittima, da Stato assediante a Paese aggredito. Così, nel cuore di un’opinione pubblica ormai stanca della complicità, Israele tenta di riprendersi la scena invocando ancora una volta la minaccia esistenziale e il diritto alla difesa.

Ma questa volta non basta. La legittimità dell’attacco preventivo, motivato da informazioni di intelligence che nessuno può verificare, ricorda le falsità con cui fu giustificata la guerra in Iraq. Con una differenza: oggi, la credibilità degli Stati Uniti e di Israele è già logorata, e il loro doppio standard – per cui Teheran viola i trattati sul nucleare ma Tel Aviv nemmeno li firma – è diventato insostenibile.

Netanyahu non cerca sicurezza, ma consenso. Dentro Israele, ha bisogno di guerra per mantenere il potere. Fuori, ha bisogno di alimentare il caos per sembrare l’unico in grado di governarlo. Ma il Medio Oriente non è un laboratorio per ambizioni personali. È fatto di popoli che esistono, soffrono, reagiscono. E che pagano il prezzo delle guerre usate come propaganda. Come i bambini bombardati ieri nell’ospedale pediatrico di Teheran. 

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Povertà esclusa anche dal vocabolario

Cancellare la parola “povertà” dai discorsi ufficiali non cancella la povertà. Il governo Meloni, da due anni, sembra convinto del contrario. L’assenza di riferimenti alla condizione materiale di milioni di italiani è diventata una strategia politica: si sostituisce il dato con la percezione, il bisogno con la colpa, il problema con il silenzio. Ma i numeri restano lì, impietosi, a smentire la propaganda.

Nel 2024, secondo Caritas, 5,6 milioni di italiani vivevano in povertà assoluta. Il 23,5% di loro lavorava. Le retribuzioni reali sono crollate del 4,4% dal 2019. Più di 6 milioni di persone hanno rinunciato alle cure per motivi economici. Eppure, nella narrazione della maggioranza, la povertà è diventata un dato “residuo”, un fastidio da contenere più che da affrontare. L’Assegno di Inclusione, che ha sostituito il Reddito di Cittadinanza, ha escluso 850mila famiglie povere. Di queste, 620mila non hanno più ricevuto alcun sostegno. Il Supporto per la formazione e il lavoro è stato erogato a meno di 100mila persone: 350 euro al mese per chi accetta corsi di formazione, vincolati e insufficienti.

Il taglio netto alla spesa per la povertà – 3,3 miliardi in meno rispetto al 2022 – è stato giustificato in nome dell’efficienza. Ma è servito solo a ridurre la platea, non il bisogno. Anzi: ha alimentato il disagio abitativo (33% degli assistiti Caritas), aggravato la povertà minorile, marginalizzato i lavoratori poveri.

Quando erano all’opposizione, Meloni, Salvini e Tajani deridevano il Reddito di Cittadinanza come “metadone di Stato”. Ora che governano, hanno costruito una povertà selettiva: quella “degna” (disabili, minori, over 60) può essere riconosciuta; quella che lavora, affitta, cerca cure, può essere ignorata. I poveri sono diventati “occupabili”, quindi invisibili. Ma i dati non si piegano alla retorica. Il rapporto Caritas 2025 lo certifica: la povertà non è scomparsa, è solo stata esclusa dal discorso pubblico. È questa la vera coerenza del governo Meloni: una guerra ai poveri mascherata da lotta alla povertà.

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Il mondo che marcisce nei magazzini: le ricadute umanitarie dei tagli USAID

C’è un campo profughi a Leopoli, in Ucraina, dove la fame ha ormai superato la paura delle bombe. Fino a poche settimane fa, mille pasti caldi al giorno sostenevano gli sfollati. Oggi ne restano trecento. Dal primo settembre, nemmeno quelli. È uno dei tanti effetti della decisione americana di tagliare, in un colpo solo, oltre il 90% dei finanziamenti all’USAID: sessanta miliardi di dollari evaporati in nome dell’“America First” e affidati a un ventottenne con trascorsi nel team di Elon Musk per smantellare l’agenzia. Una mano ideologica ha spento i frigoriferi nei centri nutrizionali, chiuso i rubinetti delle cliniche, lasciato marcire 66mila tonnellate di cibo in magazzini di Dubai, Djibouti e Houston.

Il cibo stoccato avrebbe potuto sfamare tutta Gaza per un mese e mezzo. Invece, sarà forse trasformato in mangime per animali. È il simbolo perfetto: una montagna di risorse accatastate e famiglie disperate dall’altra parte del mondo, divise da un abbandono voluto. I programmi nutrizionali finanziati da USAID coprivano circa metà del fabbisogno globale. Ora, in paesi come Nigeria, Bangladesh e Nepal, un milione di bambini non riceve più alimenti terapeutici. In almeno diciassette paesi, le scorte sono esaurite. Secondo l’UNICEF, 2,4 milioni di bambini gravemente malnutriti rischiano di morire entro fine anno.

HIV, farmaci finiti e morti programmate

Le cliniche chiudono. I medici restano soli. In Zambia, in una struttura che contava ventuno operatori sanitari, ne è rimasto uno: il dottor Oswell Sindaza. Serve 6.400 pazienti da solo. In Kenya, Sarah Thomas ha perso l’accesso agli antiretrovirali per sé e per i suoi figli. Kevin, undici anni, è morto di tubercolosi, una malattia facilmente curabile, se non fosse che la clinica ha chiuso. In Uganda, il piccolo Migande Andrew è morto a quattordici anni: i farmaci per l’HIV sono finiti. L’insegnante Mary, positiva anche lei, è deceduta poche settimane dopo.

Secondo l’OMS, otto paesi — tra cui Haiti, Kenya, Sud Sudan e Burkina Faso — esauriranno le scorte di farmaci salvavita entro l’estate. Lo stesso piano PEPFAR, che aveva salvato 26 milioni di vite dal 2003, è stato amputato. Il risultato, secondo il tracker dell’Università di Boston, potrebbe essere di 176.000 morti in più solo nel 2025, e fino a 16 milioni entro il 2040.

Donne incinte, bambini piccoli, nessuna assistenza

In Liberia, dove gli aiuti statunitensi costituivano oltre il 40% del bilancio sanitario, è stato sospeso un programma da oltre 100 milioni di dollari che garantiva cure gratuite per le donne incinte. In Etiopia, i centri medici nelle aree di conflitto hanno chiuso. In Afghanistan, dove l’OMS avverte che l’80% dei servizi sanitari potrebbe sparire, già a marzo erano stati chiusi 167 presidi.

Le stime sono drammatiche: 7,9 milioni di morti infantili e oltre mezzo milione di decessi materni aggiuntivi entro il 2040. A essere colpiti non sono settori “ideologici”, come ha provato a far credere la retorica ufficiale, ma le strutture fondamentali della sopravvivenza.

Istruzione cancellata, futuro bruciato

L’Afghanistan è l’esempio più brutale. I programmi scolastici comunitari gestiti da ONG e finanziati dagli Stati Uniti sono stati chiusi, lasciando fuori dalla scuola 300.000 bambini, molte delle quali ragazze già escluse dal sistema pubblico. In Nepal, una ragazza rischia ora un matrimonio precoce perché è stato sospeso il programma che la aiutava a superare gli esami. In Etiopia, la chiusura di un asilo ha costretto una madre single a rinunciare al lavoro.

I tagli hanno colpito i programmi a più alto rendimento: educazione, diritti delle donne, assistenza all’infanzia. Non sono tagli neutri. Sono un investimento nella miseria futura. Economicamente disastrosi, moralmente catastrofici.

Una strategia di disgregazione

I responsabili americani parlano di deroghe umanitarie “temporanee”, ma la realtà è fatta di magazzini pieni di cibo che marcisce mentre milioni soffrono la fame, e pazienti costretti a interrompere cure salvavita. Le organizzazioni sul campo parlano di “abbandono totale”. L’OMS ha definito la situazione un “bagno di sangue” per la sanità globale.

Le conseguenze non sono solo umanitarie. Il vuoto lasciato dagli Stati Uniti è già oggetto di conquista da parte di altre potenze. L’epidemia globale di carestie, malattie e instabilità non è l’effetto di un virus. È il frutto deliberato di un ordine esecutivo.

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Salvini vuole poliziotti al di sopra della legge, ma la sua proposta danneggia persino le forze dell’ordine

C’è un’ossessione ricorrente nella propaganda di Matteo Salvini: raccontare la legge come un fastidio, un ostacolo, un inciampo. Lo ha fatto di nuovo il 16 giugno, quando ha dichiarato che l’indagine a carico di due poliziotti – colpevoli, secondo lui, solo di aver ucciso un assassino – rappresenta un disincentivo per chi ogni giorno rischia la vita. E quindi? E quindi la Lega sta lavorando per evitare che, in casi simili, scatti l’iscrizione nel registro degli indagati. Un dettaglio tecnico solo all’apparenza. In realtà, è un terremoto giuridico.

Perché quel registro, l’articolo 335 del codice di procedura penale, non è un tribunale. Non è una gogna. Non è una condanna. È il meccanismo che attiva il diritto alla difesa, permette la nomina di un avvocato, garantisce che un’autopsia o una perizia balistica avvengano con la presenza dei consulenti di parte. Toglierlo vuol dire trasformare un poliziotto in un testimone muto, senza tutele, senza strumenti, senza possibilità di parola. Salvini lo presenta come uno scudo, ma è un bavaglio.

Il diritto penale non è un’opzione

È una proposta che, nel merito, ignora tutto. Ignora che l’azione penale in Italia è obbligatoria, e non discrezionale, come garanzia di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Ignora che non si può stabilire a priori che un colpo di pistola sia legittimo: lo decide un giudice, sulla base dei fatti, non un ministro sulla base del tifo. Ignora che l’iscrizione nel registro degli indagati, nella stragrande maggioranza dei casi, finisce con un’archiviazione, proprio perché è uno strumento di verifica, non di condanna.

E ignora – e forse qui non si tratta di ignoranza, ma di calcolo – che senza quell’iscrizione non si possono raccogliere prove, non si può contestare nulla, non si può proteggere nessuno. Non l’agente che ha agito correttamente, né la vittima di un eccesso, né lo Stato che dovrebbe garantirci giustizia. Il risultato è un buco nero legale in cui un omicidio – anche quando è giustificato – diventa un fatto amministrativo, privo di rilievo penale, sottratto al controllo della magistratura.

Da Salvini una trappola anche per chi indossa la divisa

La cosa più paradossale, però, è che Salvini presenta tutto questo come una misura a difesa delle forze dell’ordine. E invece è il contrario. Perché oggi, proprio grazie a quella iscrizione, un agente può partecipare agli atti, difendersi, far valere le proprie ragioni. Senza, viene trattato come un funzionario qualunque, un elemento secondario del caso. Non ha diritto a un legale, non può nominare periti, rischia addirittura che le sue dichiarazioni vengano invalidate perché rese senza le necessarie garanzie. È un assist perfetto per chi vuole impugnare il procedimento e screditare l’intervento.

Ma naturalmente a Salvini non interessa il merito, interessa il messaggio. E il messaggio è semplice, brutale, da talk show: i poliziotti devono sparare senza doverne rispondere. Il problema, però, è che in uno Stato democratico tutti rispondono dei propri atti. Anche quando sono legittimi. Anche quando sono doverosi. Anche quando sono difficili. È il principio della responsabilità penale personale, ed è scritto nero su bianco nella Costituzione. Violare quel principio significa dire che alcuni cittadini sono “più cittadini” degli altri. Che un colpo esploso da una divisa vale di più di un corpo a terra.

Un’anomalia che ci allontana dall’Europa

Non esiste nessun Paese democratico che abbia adottato una norma del genere. Non esiste in Francia, dove le indagini sugli agenti sono affidate all’IGPN. Non esiste in Inghilterra, dove interviene un organismo indipendente. Non esiste negli Stati Uniti, dove pure la “qualified immunity” viene usata (e criticata) per schermare gli agenti da richieste civili, non certo da inchieste penali. Salvini propone qualcosa che neanche le democrazie malate si permettono. Qualcosa che l’Italia ha già pagato con condanne a Strasburgo, come nei casi Giuliani, Alikaj, Cucchi.

Salvini e l’idea che sospende la democrazia

Il punto è che questa proposta non nasce per difendere la legge, ma per sospenderla. Per dire che in nome della sicurezza si può disattivare il diritto. Per trasformare ogni indagine in un atto di lesa maestà, ogni controllo in un attacco, ogni cittadino che pretende giustizia in un nemico. È la criminalizzazione della magistratura, la politicizzazione dell’uso della forza, l’ennesima forzatura di un partito che confonde lo Stato con l’ordine pubblico e il potere con l’impunità.

Il problema non è solo giuridico. È politico. Se passa l’idea che la legge può essere adattata alle categorie, ai ruoli, alle convenienze del momento, allora niente è più garantito. Perché oggi è il poliziotto, domani sarà il politico, dopodomani sarà il cittadino “perbene”. È sempre così che cominciano le eccezioni, che diventano precedenti, che diventano abitudini. È sempre così che le democrazie si addormentano. Sotto una coperta di slogan, con i codici in tasca, e le mani sul grilletto.

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Il caso Natoli, lo specchio screpolato del Csm

C’è voluto quasi un anno perché Rosanna Natoli lasciasse formalmente il Consiglio Superiore della Magistratura. Non per senso delle istituzioni, non per rispetto del ruolo, ma – come lei stessa scrive – perché “costretta”. Una parola che pesa, soprattutto detta da chi è indagata per rivelazione di segreto d’ufficio, per avere incontrato in privato una giudice sotto procedimento disciplinare e averle suggerito come difendersi, rivelando gli “umori” della camera di consiglio. A registrare tutto, un audio consegnato alla sezione disciplinare. A inchiodare la scena, l’imbarazzo della complicità.

La consigliera in quota Fratelli d’Italia, sostenuta fino all’ultimo da Ignazio La Russa e difesa malvolentieri da Giorgia Meloni, si è aggrappata alla scomparsa dell’abuso d’ufficio – cancellato dalla riforma Nordio – come se questo bastasse a lavare tutto. Intanto il Csm l’aveva già sospesa da incarico e stipendio. Lei, però, restava lì. A Palazzo Bachelet. Perché? Perché no.

Solo quando la speranza di un’archiviazione rapida si è spenta, Natoli ha scelto di scrivere la lettera di dimissioni, dicendo di non poter più lavorare e di essere danneggiata “psicologicamente e economicamente”. Nessuna parola sull’istituzione ferita, sull’etica pubblica, sulla credibilità del Consiglio. Solo vittimismo.

L’ennesima dimostrazione che nel nostro sistema il problema non è solo chi sbaglia, ma chi si rifiuta di rispondere al proprio errore. E chi intorno fa finta che non sia successo nulla.

Buon lunedì.

In foto Palazzo Bachelet, foto wikipedia commons

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Colpire Teheran per zittire Gaza

Le bombe israeliane su Teheran hanno già ottenuto il loro obiettivo: non militare, ma mediatico. Gaza è sparita. La strage di civili, i corpi tra le macerie, il buio dell’assedio, tutto evaporato dai titoli e dai vertici diplomatici. L’offensiva “Rising Lion” contro l’Iran è entrata nel ciclo globale delle notizie come emergenza assoluta, mentre a Gaza l’unico blackout che continua è quello dell’informazione.

Lo ha detto l’esercito israeliano: “Gaza è un fronte secondario”. Tradotto: ciò che accade lì, compresi i 55.000 morti stimati e l’accusa di genocidio da parte di agenzie ONU, non merita più attenzione. La guerra è stata spostata dove fa comodo. Il governo Netanyahu ha scelto il nemico più spendibile — l’Iran — per ripulire la propria immagine, ricompattare l’opinione pubblica interna, bloccare le pressioni per un cessate il fuoco. E il mondo, obbediente, ha cambiato canale.

Gli analisti lo chiamano “diversione strategica”. Un’operazione militare pianificata non solo per colpire, ma per distrarre. Per spegnere Gaza senza spegnere le bombe. Per deviare la condanna internazionale su un nuovo scenario e riscrivere il racconto della guerra. Netanyahu, processato per corruzione e in crollo nei sondaggi, ha bisogno del caos per restare in piedi. E il caos adesso parla persiano.

Nel frattempo a Gaza si muore senza testimoni. L’internet è spento, i droni continuano a colpire, i soccorsi non entrano. È la guerra nel buio, mentre fuori la luce delle telecamere illumina altri orrori. Tutti scelti, mai casuali.

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Le aziende italiane e la grande bugia dell’inclusione sul lavoro -Lettera43

Nelle imprese si parla tanto di empatia, merito, di strategie DE&I. Eppure secondo una ricerca di Tack TMI Italy, il 28 per cento dei lavoratori dichiara di aver subito discriminazioni. Per l’etnia, per l’orientamento sessuale, l’aspetto fisico, la disabilità. È il diversity washing. E non è solo ipocrisia, è un danno.

Le aziende italiane e la grande bugia dell’inclusione sul lavoro

L’Italia delle imprese si dichiara moderna, empatica, orientata alla diversità. Nei codici etici si parla di rispetto, nei convegni si celebra l’inclusione, nelle brochure si sorride in tutte le lingue e tutti i colori. Ma basta scorrere i dati per svelare la messa in scena. Una ricerca condotta da Tack TMI Italy su un campione di 1.500 lavoratori ha rivelato che il 90 per cento degli intervistati percepisce ancora discriminazioni nei luoghi di lavoro. Il 28 per cento dichiara di averle subite personalmente. E l’80 per cento non ha mai ricevuto una formazione sulla diversità.

I pregiudizi sul lavoro sono la regola, dall’etnia all’orientamento sessuale fino al genere e l’età

Le aziende italiane, insomma, sono molto brave a raccontarsi. Molto meno a fare i conti con ciò che sono. Il 64 per cento dei lavoratori afferma che «tante aziende parlano di programmi di diversità e inclusione, ma non fanno niente per i lavoratori come me». Solo il 37 per cento dichiara che esistano strumenti concreti per affrontare il problema, una quota che scende al 30 nelle piccole imprese. I pregiudizi non sono un inciampo, ma una regola. L’etnia è il primo fattore di discriminazione osservato (62 per cento), seguita da orientamento sessuale (49 per cento) e disabilità (48 per cento). Sul piano dell’esperienza diretta, i dati indicano che le principali discriminazioni subite sono legate al genere e all’età (entrambe al 14 per cento), seguite dall’aspetto fisico (10 per cento). Le donne e gli under 35 sono i più penalizzati. I lavoratori stranieri o nati all’estero riferiscono discriminazioni nel 75 per cento dei casi.

Le aziende italiane e la grande bugia dell'inclusione sul lavoro
Secondo la ricerca di Tack TMI Italy, l’etnia è il primo fattore di discriminazione osservato (62 per cento).

L’esclusione sistemica abbassa la produttività e spinge i talenti a scappare

Questa esclusione sistemica non è neutra. Produce un ambiente di lavoro diseguale, mina la fiducia, limita la produttività e spinge i talenti a guardare altrove. Il nodo si stringe al momento dell’assunzione. Il candidato ideale resta, nella percezione dei recruiter, “uomo, adulto, bianco”. I test proiettivi confermano: il top manager è immaginato come un maschio caucasico di mezza età, il magazziniere come un giovane straniero, la segretaria come una donna giovane. Una suddivisione gerarchica dell’identità, in cui l’inclusione resta fuori dalla porta. Il problema non è solo culturale: è metodologico. I bias inconsci guidano i processi di selezione. Il similarity bias spinge a scegliere chi ci somiglia. L’effetto alone fa sì che un tratto superficiale – l’università, l’accento, l’aspetto – determini il giudizio complessivo. Il bias di conferma cerca negli altri conferme delle proprie convinzioni. E il risultato è che si continua a premiare lo specchio.

Le aziende italiane e la grande bugia dell'inclusione sul lavoro
Immagine realizzata con l’Ia.

L’Italia è all’85esimo posti su 125 Paesi per meritocrazia nelle assunzioni

In questo contesto, la parola “merito” diventa un feticcio. Un alibi. Le imprese la usano per mascherare l’omologazione. Ma la meritocrazia vera richiede di rimuovere gli ostacoli strutturali. In Italia, invece, il “merito” serve spesso a legittimare privilegi, consolidare la gerarchia, mantenere le distanze. Non a premiare il talento. Secondo un’indagine del World Economic Forum ripresa da The Guardian, l’Italia si collocava all’85esimo posto su 125 Paesi per meritocrazia nelle assunzioni. Nella percezione comune, trovare lavoro senza “conoscenze” sembra impossibile. E chi appartiene a minoranze – donne, giovani, stranieri – resta ai margini di queste reti informali. La distanza tra retorica e pratica è certificata anche dalle cifre sulla formazione e sulle strategie. Il 77-80 per cento dei lavoratori non ha mai ricevuto formazione sulla diversità. Solo il 41 per cento delle aziende dichiara di avere una strategia specifica di DE&I (Diversity, Equity, and Inclusion) e appena il 22 per cento ha stanziato un budget dedicato. In un’azienda su tre, le iniziative DE&I sono percepite come fumo negli occhi dai lavoratori stessi che ne denunciano l’impatto negativo sul clima interno.

Le aziende italiane e la grande bugia dell'inclusione sul lavoro
Secondo un’indagine del World Economic Forum l’Italia si collocava 85esima su 125 Paesi per meritocrazia nelle assunzioni.

Il diversity washing va oltre all’ipocrisia: è un danno

È il diversity washing: raccontarsi inclusivi senza esserlo. E non è solo ipocrisia. È un danno. Perché chi si sente escluso lavora meno, crede meno, resta meno. E chi guarda da fuori sceglie di non entrare. Nel mercato del lavoro italiano, la diversità è ancora vista come un problema da gestire, non come una risorsa da coltivare. Le aziende che parlano di equità ma selezionano secondo stereotipi stanno costruendo muri, non ponti. E chi parla tanto di merito spesso si limita a premiare chi gli somiglia. La grande bugia dell’inclusione aziendale non è solo uno scarto tra parola e azione. È una questione di giustizia. E finché resterà impunita, continuerà a rendere il lavoro italiano un luogo meno libero, meno equo, meno umano. E continuerà a renderci sempre più imbarazzanti. Forse conviene concentrarsi un po’ meno sugli spot e di più nelle azioni. L’equità va usata, non lasciata esposta in vetrina.

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Da Hitler e Mussolini al salario sovietico: tutti gli scivoloni “storici” del ministro Tajani

Nel parlare di Antonio Tajani e del suo rapporto con la storia, più che un’analisi servirebbe un ripasso. Il ministro degli Esteri e leader di Forza Italia, già presidente del Parlamento europeo, ha negli anni inanellato una sequenza di scivoloni storici, a volte così grossolani da sembrare più operazioni propagandistiche che semplici distrazioni. L’ultimo, in ordine di tempo, è arrivato l’11 giugno 2025, quando per giustificare il suo no al terzo mandato per i presidenti di Regione, ha dichiarato: “Anche Hitler e Mussolini sono andati al potere vincendo le elezioni“. Una frase così sgangherata che ha costretto gli storici a fare gli straordinari.

Mussolini e Hitler: la verità oltre la propaganda

La realtà storica, confermata da numerosi studiosi e ricostruita da Pagella Politica e dalle principali testate storiche italiane, è opposta a quanto sostenuto da Tajani. Benito Mussolini non ha mai vinto elezioni. Nel 1921 fu eletto in Parlamento all’interno dei “Blocchi nazionali“, ma il suo partito ottenne solo 35 seggi, a fronte di una netta maggioranza socialista e popolare. Il potere lo conquistò con la Marcia su Roma del 1922, definita da storici come Paolo Pombeni e Marco Fioravanti un colpo di Stato vero e proprio. Le elezioni del 1924, vinte dopo l’introduzione della legge truffa Acerbo, furono segnate da violenze e intimidazioni, e quelle del 1929 furono un plebiscito sotto regime a partito unico.

Anche Adolf Hitler non salì al potere attraverso un mandato popolare. Le elezioni del 1932 non gli diedero la maggioranza, e fu solo nel gennaio 1933 che il presidente Hindenburg lo nominò cancelliere, in seguito a trattative di palazzo con la destra conservatrice. Le elezioni successive del marzo 1933 si svolsero sotto intimidazione, con i comunisti banditi e gli oppositori perseguitati, e già in novembre si votava con una lista unica in pieno regime nazista.

Insomma: né l’uno né l’altro ottennero il potere con un mandato elettorale limpido. La narrazione di Tajani distorce i fatti, offrendo una rappresentazione semplificata e falsa che banalizza l’avvento di due dittature. Peggio: li assolve implicitamente, rendendoli quasi dei legittimi esiti del voto democratico.

Revisionismo da salotto: “Le cose buone” di Mussolini

Non è la prima volta che Tajani inciampa nella storia. Nel 2019, intervistato da Radio 24, dichiarò che Mussolini “fece anche cose positive“, citando strade, ponti e impianti sportivi. Una retorica che appartiene al vocabolario del revisionismo soft, quello che cerca di separare la brutalità del fascismo dalle sue presunte opere pubbliche. Ma le date smentiscono questa narrazione. Giacomo Matteotti fu assassinato nel 1924, le libertà democratiche soppresse dal 1925, i crimini coloniali in Etiopia iniziarono già nel 1935. Le leggi razziali del 1938 arrivano dopo un regime già totalitario, e non prima della sua deriva, come vorrebbero i nostalgici in doppiopetto.

Quella dichiarazione costò a Tajani una figuraccia internazionale: cartelli con scritto “Mai più fascismo” sventolati al Parlamento europeo, indignazione bipartisan, e infine un goffo dietrofront in cui si definì “da sempre antifascista”.

Il salario minimo “sovietico” e l’anticomunismo d’accatto

Nel luglio 2023, Tajani aggiunge un altro capitolo al suo curriculum ideologico dichiarando che il salario minimo porterebbe “stipendi tutti uguali, come nell’Unione Sovietica“. Anche in questo caso, la realtà storica lo smentisce: in Urss non esisteva alcuno “salario unico”, ma un sistema fortemente gerarchizzato e segmentato. Equiparare il salario minimo legale – adottato in quasi tutta Europa – a un modello economico totalitario è una forzatura priva di fondamento. Come ha osservato Pagella Politica, si tratta di “una delle dichiarazioni più scorrette del 2023”.

Non è un lapsus, è un modello comunicativo. L’anticomunismo viscerale viene evocato per screditare ogni intervento sociale dello Stato, con lo scopo di compattare l’elettorato conservatore. La verità storica è solo un danno collaterale.

Il passato piegato, il futuro ignorato

Che Tajani usi la storia come clava politica è ormai evidente. Ma l’ultimo esempio dimostra che le sue difficoltà non si fermano al passato. Ieri commentando il rischio di un’escalation tra Israele e Iran, Tajani affermava: “La notizia di un attacco imminente è da ritenere infondata. Ci risulta che la situazione sia sotto controllo”. Poche ore dopo, l’attacco israeliano era una realtà. Una cantonata diplomatica grave, figlia dello stesso schema: parlare e dichiarare per posizionarsi, e piegare la realtà ai fini della propria narrazione.

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