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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Per essere antipatici: una precisazione sugli spot antimafia di oggi

Come al solito senza peli sulla lingua Giovanna Maggiani Chelli, Presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, puntualizza qualcosa che conviene tenere a mente anche ai fidati consiglieri di Renzi che l’hanno convinto a pronunciare almeno la parola “mafia”:

Non abbiamo mai creduto agli spot antimafia sui beni confiscati a “cosa nostra“, perché poi abbiamo ben visto come è andata a finire, quando ci siamo presentati dopo una causa civile contro Salvatore Riina e Giuseppe Graviano, abbiamo trovato il Fondo 512 legge del 1999 per le vittime di mafia vuoto e ci sono voluti anni e abbiamo dovuto andare con gli striscioni di contestazione in via dei Georgofili, per sistemare la questione risarcitoria della nostra causa datata in via risolutiva ottobre 2007.
Peraltro oggi la situazione del Fondo 512/1999 legge apprezzata a livello mondiale, quale contrasto alle organizzazioni mafiose, non è poi così rosea come dovrebbe, perché ancora fatichiamo a far rientrare quelle insignificanti cifre che comunque spettano alle nostre vittime;
e inoltre il Fondo 512 è stato inglobato con altri fondi lacunosi che frenano irrimediabilmente i risarcimenti alle vittime di mafia che portano i criminali mafiosi prima in causa penale e poi in causa civile.
Quindi è con grande apprensione che ascoltiamo frasi ormai si può dire intrise di retorica per i beni confiscati alla mafia.
Temiamo ancora una volta la solita demagogia, il solito trionfalismo e soprattutto la solita ricerca affannosa attraverso spot e icone di confisca dei beni alla mafia per alimentare carriere politiche. Per non parlare poi di una voglia spasmodica che da anni sentiamo, quella di mettere le mani sui soldi che la mafia ha guadagnato illecitamente, non per fini di ritorno alle vittime di mafia, e ai territori depredati dalla mafia, bensì a chi dell’antimafia ha fatto un mestiere.

Una proposta concreta sul lavoro. Da SEL.

La proposta di SEL è scaricabile qui. 
Da Eddyburg un bel pezzo di commento:

Dall’opposizione Sinistra ecologia libertà prova a inserirsi in grande stile nel dibattito sulle prime misure economiche annunciate dal nuovo presidente del consiglio Matteo Renzi. Ieri Giorgio Airaudo ha presentato la proposta di legge per la «istituzione di un programma nazionale sperimentale di interventi pubblici denominato «Green New Deal italiano» contro la recessione e la disoccupazione», da attuare tramite l’istituzione di una Agenzia nazionale per gli anni 2014-2016.

Airaudo, presentando la proposta, ha ricordato i dati sconvolgenti pubblicati dall’Istat nell’ottobre 2013, quando i disoccupati erano arrivati a 3.189.000 e ha evidenziato che con queste cifre, anche «se il quadro economico mutasse e vi fosse un boom, occorrerebbero non meno di 15 anni per riportare l’occupazione a livelli che si possano considerare fisiologici e non si riuscirebbe comunque a tornare ai livelli precedenti (ad esempio al dato del 2005, che ha costituito l’anno migliore del nuovo secolo per l’occupazione nei Paesi Ue), tenendo presente che la maggior parte delle imprese stanno provvedendo a sostituire in misura e rapidità crescente il lavoro umano con varie forme di automazione».

Sel parte da una convinzione che è l’esatto contrario della ricetta neoliberista: «È l’occupazione che genera sviluppo, non il contrario. I dati relativi al tasso di disoccupazione nel nostro Paese mostrano un quadro di assoluta gravità che continua a peggiorare. Si tratta di una vera e propria emorragia di posti di lavoro, che colpisce gli under 30, ma non di meno tutte le altre fasce di età. Quello che più turba è l’enorme crescita di quanti si dicono “scoraggiati”, che hanno smesso di cercare lavoro perché ritengono di non trovarlo. La disoccupazione continua a crescere anche nell’ambito del lavoro precario, a riprova del fatto che la scelta di favorire contratti non a tempo indeterminato ha poco o scarso impatto sul problema occupazionale, mentre priva i lavoratori di molti diritti fondamentali».

Airaudo, in una conferenza stampa con Luciano Gallino, vero ispiratore del Green New Deal, ha detto che l’obiettivo della proposta di legge è quello di «creare 1 milione e mezzo di posti di lavoro in tre anni, impegnando circa 17 miliardi, con lo Stato che diventa datore di lavoro di ultima istanza». Si tratta della trasposizione in proposta legislativa di quell’Agenzia per l’occupazione ipotizzata da tempo dal sociologo torinese, che ha descritto più di un anno fa anche sulle pagine di greenreport.it.

Gallino ha dunque sottolineato che «la priorità di questo Paese è il lavoro, che è una cosa molto concreta che richiede risposte precise. Se ci si affida al mercato e agli incentivi è impossibile risolvere il problema della disoccupazione». Per Gennaro Migliore, capogruppo di Sel alla Camera, il Green New Deal italiano sarebbe «uno choc positivo per l’economia che però dovrà avere effetti benefici anche sull’ambiente e non devastarlo. Anche la competitività delle imprese italiane non verrebbe intaccata dall’impegno pubblico. Non si può affidare al mercato quello che il mercato non vuole e non può fare».

Ma dove prendere i soldi? 17 miliardi di euro non sono così pochi, di questi tempi. Airaudo ha però puntualizzato subito che «la copertura dell’investimento triennale dovrebbe venire dall’uso dei fondi della Cassa depositi e prestiti, anche attraverso l’emissione di obbligazioni, e dai Fondi strutturali europei. Con una responsabilizzazione degli enti locali, attraverso l’allentamento del patto di stabilità interno. Ma attenzione, con una clausola sull’occupazione netta: chi vincesse a livello locale questi appalti dovrebbe non aver licenziato nei 24 mesi precedenti e impegnarsi a non licenziare nei 24 mesi successivi». Un punto controverso, questo. Se da una parte si tratta di una strategia per evitare escamotage da parte dei soliti furbi, dall’altra rischia di penalizzare anche quelle imprese che negli ultimi due anni hanno giocoforza dovuto affrontare licenziamenti per poter sopravvivere.

La moglie del boss querela il giornalista

Ricevo e condivido una lettera aperta sottoscritta da alcuni familiari di vittime della mafia indignati per l’ultima, teatrale esibizione di Cosa Nostra: la notizia che la signora Rosa Pace, vedova del noto boss Mariano Agate, ha querelato il giornalista Rino Giacalone.

2427_2013-10-10_125842Noi familiari di vittime della mafia manifestiamo stupore e indignazione per l’ultima paradossale esibizione di persone legate al mondo di Cosa Nostra. Ci riferiamo alla decisione della signora Rosa Pace, vedova del noto capomafia Mariano Agate, deceduto il 3 aprile 2013, la quale, querelando per diffamazione a mezzo stampa il giornalista Rino Giacalone, pretende di tutelare la buona reputazione del marito, un criminale condannato a vari ergastoli per i suoi truci delitti coinvolto in fatti di sangue disumani.
la querela si riferisce ad un articolo in cui il giornalista, dopo aver ricapitolato la carriera del boss, ha espresso con le parole colorite proprie del linguaggio comune il disprezzo che tutti noi proviamo per le sue imprese sanguinose.
Parte di Rino Giacalone incriminata è la seguente:
“le stragi dove furono uccisi Falcone, Borsellino, quelle di Roma, Milano e Firenze, portano la sua firma, così come le guerre di mafia più violente tra Trapani e Palermo. Oggi bisogna dire che la sua morte toglie alla Sicilia la presenza di ‘un gran bel pezzo di merda virgolette”.
La frase è forte, non è elegante, ma non può essere considerata offensiva, poiché esprime una opinione fondata sui dati di fatto e di diritto. Come può danneggiare la reputazione di un criminale riconosciuto colpevole di omicidi truci e di vere e proprie barbarie? Di un uomo al quale il vescovo di Mazara del Vallo Mons. Mogavero ha rifiutato i funerali religiosi, con ciò attirandosi da parte della stessa signora Rosa Pace l’accusa di “fare propaganda giustizialista”, di aver fatto dalla sua famiglia “carne da macello”?. Invece di offendersi, la signora Rosa Pace, dovrebbe mettersi nei nostri panni, nei panni dei familiari delle vittime. Queste famiglie, non la sua, hanno il diritto di lamentare di essere state trasformate ingiustamente in carne da macello, Come carne da macello sono stati uomini, donne e bambini strappati alla vita per responsabilità di quel capomafia, alcuni perché servivano fedelmente lo Stato, altri perché erano casualmente nei luoghi dove è stata seminata la violenza. 
La signora Pace abbia la dignità di prendere le distanze dalle imprese criminali del marito e ritiri questa querela che ci offende. Se non lo farà, la magistratura dimostri che esiste una giustizia giusta, pronta e incontaminata. Lo dimostri archiviando subito questa pretesa di difendere una buona reputazione inesistente, questo tentativo di abusare della giustizia per indirizzare messaggi intimidatori a Rino Giacalone, al quale esprimiamo solidarietà, e a tutti giornalisti che, come lui, di fronte all’indifferenza generale hanno il coraggio di di ricordare gli atroci crimini di cui si sono macchiate determinate persone, e di dire che i cosiddetti uomini d’onore, in realtà, non hanno nessun onore.



Margherita Asta, Francesco Bommarito, Anita Bonfiglio, 
Lucia Calì, Gabriella Carfora, Antonio Castelbuono
, Maria Irene Ciccio Montalto, Nando dalla Chiesa, Ferdinando Domè, 
Fabrizio Famà, Pino Fazio, Marisa Fiorani
, Chiara Frazzetto, Michele Giordano, Teresa Giordano, 
Franco La Torre, Salvatore La Porta, Teresa Lacovara
, Paolo Marcone, Viviana Matrangola, Angelo Mizzi, 
Matilde Montinaro, Filippo Palmeri, Michele Panunzio, 
Mariacarmela Rechichi, Liliana Riccobene, Carla Rostagno
, Alberto Spampinato, Alessandro Tedesco, Piera Tramuta, 

Salvatore Borsellino, Maddalena Rostagno
, Mario Catalano
, Flavia Famà, 
Mara Fonti
, Piero Invidia, 
Daniela Marcone, 
Federica Montalto, 
Annarita Rechichi

Che pena, Penati

Se qualcuno oggi ha voglia di perdere un minuto per chiedersi come sia possibile che Maroni sia governatore in Lombardia soprattutto dopo l’ultimo Formigoni decaduto anzitempo per indecenza etica oltre che politica, può leggere le ultime disgustose novità su Filippo Penati. E non conta solo che Penati abbia accolto la prescrizione a cui aveva promesso di rinunciare ma soprattutto conta il fatto che Penati (anche da onesto, se onesto) sia stato un mediocre politico diventato classe dirigente a livello nazionale del Partito Democratico e soprattutto vero rais dei democratici lombardi per lungo tempo.

E il fatto che oggi nessuno dei suoi ex allievi (ci sono anche neoministri, eh) si senta in dovere di dire una parola una la dice lunga sullo scollamento tra realtà e partito. Quello scollamento che rende tutto molto meno credibile.

Lo schifo intorno alle chiacchierate di Riina

Prendetevi un minuto per leggere Roberto Galullo. Ne vale la pena:

Il ministro (ex) della Giustizia Anna Maria Cancellieri, il 30 gennaio viene audita in Commissione parlamentare antimafia.

In quella seduta si parla di tante cose. Tra le tante, anche degli ormai famosissimi colloqui registrati e videoregistrati nel carcere milanese di Opera (Milano) tra il capo di Cosa nostra (formalmente ancora lo è) Totò Riina e l’aspirante dama di compagnia e passeggio Alberto Lorusso.

La seduta si snoda in modo molto interessante fino a che…

Fino a che non si scivola sul ruolo del giornalismo e della libertà di stampa (e di cronaca).

Sapete quante volte ne ho scritto e quanto avverta sulla mia pelle, nella mia anima, intimamente, ogni vulnus, ogni ferita che viene inferta alla libertà di stampa. Quel che mi sconcerta, ogni volta e che ogni volta mi distrugge, è il tono con il quale i vertici dello Stato, in ogni sede, disquisiscono del giornalismo, quasi fosse ormai un residuato bellico e non un presidio di democrazia.

Ciò che mi ferisce profondamente è che ciascuno – dai più alti livelli fino a quelli più bassi – ritiene di voler e dover spiegare al mondo il giornalismo e la libertà di stampa: cosa può e cosa non può fare, cosa deve e non deve pubblicare, chi sentire e chi no, dove, come e quando, dove e come può spingersi alla ricerca di una notizia. La libertà di stampa e la stampa diventano bisogni personali e non diritti fondamentali e costituzionalmente garantiti per la vita stessa della collettività.

E’ mortale dover ascoltare stimatissimi Servitori dello Stato ai più alti livelli impartire lezioni su quali notizie debbano essere date, quando e perché senza invece pensare che nessun Giornalista degno di questo nome può e deve domandarsi quando, perché e soprattutto “se” dare una notizia.

La notizia si pubblica nel momento in cui un giornalista (sempre degno di questo nome) ne entra in possesso. Punto. Come facevano negli anni Settanta/Ottanta i cronisti di giudiziaria a Milano e Roma negli anni di piombo. Ogno notizia si pubblicava – pur quando le pressioni esterne a “selezionare” le notizie erano spesso forti – nel rispetto di un bene superiore: l’informazione al cittadino.

Quando una notizia è certa, verificata e degna di interesse generale qualunque Giornalista degno di questo nome deve (ripeto: deve) darla senza curarsi delle conseguenze della stessa. E’ come se un pm si dovesse interrogare sull’opportunità di emettere (o meno) un avviso di garanzia perché lo stesso potrebbe nuocere, più o meno gravemente, sulla salute dei parenti, dello stesso indagato o, salendo, alla tenuta politica di un Paese.

Vi ricorda nulla l’avviso di garanzia giunto all’allora premier Silvio Berlusconi nel 1994 durante il G8 e finito sulle prime pagine di tutto il mondo? Ebbene: se la magistratura ritenne che quello era il momento per farlo giungere e non altro, lo fece perché ne era convinta e (a meno che non si voglia credere a teorie politico/complottarde alle quali personalmente non credo e alle quali, viceversa, non dovrebbero credere le Istituzioni quando di mezzo ci sono i giornalisti) non si curò do-ve-ro-sa-men-te e le-git-ti-ma-men-te delle conseguenze internazionali che avrebbe avuto quel gesto.

Il tradimento più alto nei confronti di se stesso e nei confronti dei lettori che un Giornalista può commettere è non pubblicare una notizia vera, certa, verificata e di interesse generale.

Insomma cari lettori, mettetevi in testa che ogni svilimento (anche il più piccolo e anche non voluto) alla libertà di stampa è un atto di arretramento nella libertà di un popolo.

Queste riflessioni mi girano per la testa quando leggo quel che di seguito leggerete. Tutto legittimo per carità ma opinabile e criticabile. Le opinioni, così come le critiche, sono il sale della democrazia.

LE COLPE DEI GIORNALISTI

Riferendosi ai video trasmessi dalle tv che ritraggono il boss Riina e Lorusso, il commissario parlamentare antimafia Enrico Buemi (Psi) porge una domanda a mio avviso sconcertante fuori microfono: «Il video, signor ministro. Abbiamo giornalisti così bravi?».

Ora io sfido qualunque persona al mondo di buon senso a non ritenere degno di interesse collettivo e generale il fatto che un macellaio di Cosa nostra lanci messaggi criminali e di morte contro un magistrato come Nino Di Matteo e il pool che con lui lavora a partire da Vittorio Teresi (e poi vedrete che su quest’ ultimo tornerò in coda a questo articolo).

E’ o non è una notizia? Ovvio che lo è e sul come, quando e perché un Giornalista è entrato in possesso di quella notizia è dato e fatto che non solo non deve interessare a Buemi ma non deve interessare nessuno. La difesa di una fonte per un Giornalista è sacra. Chi ha pubblicato i video (Servizio pubblico della tv La7 e poi recentemente anche www.corrieredellacalabria.it con alcuni interessanti stralci sui dialoghi interenti la ‘ndrangheta) può averli ricevuti per grazia e virtù dello Spirito Santo, da Sua Santità, da Sua Eminenza, dai servizi segreti deviati, dalle famiglie di Corleone, dalle Carmelitane Scalze o da Topo Gigio ma le domande che si sarà posto chi li ha ricevuti sono: i video sono autentici? Sono intatti e non manipolati? Sono, fatte queste verifiche, di straordinario interesse per la collettività: Sì? E allora visto si stampi (in questo caso si mandi in onda).

La risposta di Cancellieri è netta: «Parliamo di video, possiamo parlare di tutto. È gravissimo». Non so se ci rendiamo conto: è gravissimo il fatto che la stampa abbia fatto il proprio mestiere!

Figuriamoci, Buemi va a nozze, sempre fuori microfono come testimonia la stessa fedele trascrizione della Commissione parlamentare antimafia: «C’è il problema delle trascrizioni… Signor ministro, queste problematiche hanno due risvolti. Uno è di carattere giornalistico, è evidente. Su questo non credo che ci debba essere un dubbio, ma bisogna sempre porsi il problema del perché e a chi interessa far uscire determinate informazioni e con quale modalità. Questo denota anche il fatto che noi abbiamo un sistema, quello del 41-bis, che continua a rimanere un colabrodo. Questo è il punto. Dopodiché, io introduco l’elemento dell’affidabilità delle trascrizioni degli interrogatori, che vedo collegato a questa problematica. Mi premurerò di presentare un’interrogazione specifica sull’argomento, perché è questione che deve essere affrontata a livello normativo, in modo tale da regolamentare meglio i fornitori del servizio. Non vado oltre».

Buemi non va oltre ma per lui c’è un risvolto giornalistico chiaro ed evidente. E la Fnsi e il sindacato dei giornalisti hanno nulla da dire a questo proposito?

Qualcosa da dire lo ha il presidente della Commissione Rosy Bindi: «Va bene. Sappiamo che dell’argomento si è interessato anche il Garante della privacy. È un argomento sul quale magari la Commissione avrà modo di ritornare».
Buemi, ancor più rafforzato nella propria convinzione: «Chiedo scusa, mi è sfuggito. Come ultima considerazione, io credo che sia un elemento da considerare sotto molteplici aspetti – ovviamente ci sono anche quelli relativi alla magistratura inquirente – ma le sembra logico che un filmato proveniente dal 41-bis possa finire sulle televisioni italiane?».

Il senatore Salvatore Tito Di Maggio (Sc) si accoda: «Svolgo una premessa, chiedendole se mi può rispondere prima che alle altre domande. Lo chiedo semplicemente perché io credevo di non doverle fare alcuna domanda, in quanto l’avevano già fatto i miei colleghi, ma non mi ha soddisfatto la risposta che lei ha fornito rispetto alle questioni del filmato che è apparso sulle televisioni e a Riina. Trattiamo di una questione estremamente delicata. Io credo che lei non ci possa dire soltanto che è gravissima, per una serie di motivi.
Innanzitutto, io credo che lei ci debba dire se ha attivato delle azioni ispettive, visto che è anche la titolare dell’azione disciplinare e che anche il Dap gerarchicamente dipende da lei.
Approfittando di questo e, quindi, trattando delle azioni disciplinari, io non sono a conoscenza – chiedo se ce ne vuole dare notizia – se lei abbia intrapreso un’azione disciplinare nei confronti del procuratore della Repubblica aggiunto di Palermo dottorTeresi, il quale non so che cos’altro debba fare dopo le dichiarazioni che ha rilasciato rispetto alla sentenza emessa nei confronti del procedimento Mori
».

Bingo! Non soltanto si chiede un’azione ispettiva e magari disciplinare contro chi ha fornito i filmati ai giornalisti (identificando il soggetto, con certezza, bontà di Buemi, nel Dap) ma già che ci siamo, per analogia, Di Maggio chiede se Vittorio Teresi(procuratore aggiunto di Palermo e pm del processo sulla trattativa Stato-mafia ndr) è sottoposto a procedimento disciplinare.

Cancellieri risponde così: «Per quanto riguarda azioni disciplinari verso il magistratoTeresi, non ne sono state disposte.
Per quanto riguarda gli accertamenti sulle foto, all’interno del dipartimento sono stati fatti tutti gli approfondimenti possibili. Non abbiamo elementi per poter procedere nei confronti di nessuno, perché naturalmente su queste questioni è ben difficile individuare l’autore
».

A quando il prossimo svilimento della libertà di stampa e, già che ci siamo, la richiesta di un’azione disciplinare, (l’ennesima) contro la magistratura?

RadioMafiopoli19. Antonio Nicaso: “La regola del magistrato in servizio usata per Gratteri ma non per Mancuso, perché?”

La nuova puntata di RadioMafiopoli è un gioiello a cui tengo moltissimo. Antonio Nicaso è probabilmente lo studioso di ‘ndrangheta che più di tutti mi ha insegnato attraverso i suoi scritti e (soprattutto) attraverso la sua splendente etica e umanità (ah, averne di grandi professori che non siano piccoli uomini…). Abbiamo parlato di ‘ndrangheta internazionale, di cultura, leggi e ovviamente di Nicola Gratteri. Ovviamente perché Antonio Nicaso è grande amico e da anni coautore del magistrato calabrese. L’intervista andrebbe sbobinata per diventare materiale di studio:

Vittorio Mangano: “Era un soldato di Cosa nostra addetto alla sicurezza della famiglia Berlusconi”

“Vittorio Mangano? Altro che stalliere di Arcore! Era un soldato di Cosa nostra addetto alla sicurezza della famiglia Berlusconi“, ha rivelato Di Carlo ai giudici che indagano sulla presunta trattativa tra le istituzioni dello Stato e la criminalità organizzata. 

Francesco Di Carlo ha raccontato ai giudici di un incontro a Milano, nel 1974, tra lui, Marcello Dell’Utri (tra gli imputati del processo), Silvio Berlusconi e i boss Mimmo Teresi e Stefano Bontade. Durante la riunione si sarebbe discusso dei timori di Berlusconi per la sicurezza dei suoi figli. L’imprenditore temeva che potessero essere sequestrati e avrebbe chiesto aiuto ai mafiosi.

Secondo le dichiarazioni del pentito, i boss gli avrebbero garantito la loro protezione. L’incontro, già oggetto del processo per concorso in associazione mafiosa in cui Dell’Utri è stato condannato a 7 anni di reclusione, avrebbe dato il via ai rapporti tra l’ex premier e Cosa nostra. Bontade e Teresi avrebbero anche chiesto a Berlusconi di costruire a Palermo, ma lui avrebbe declinato l’invito.

Per garantire l’imprenditore Cosa nostra avrebbe mandato nella sua villa di Arcore Mangano. In cambio i capimafia avrebbero avuto da Berlusconi 100 milioni di vecchie lire. Il pentito ha anche parlato di investimenti di mafiosi in una società milanese. Bontade avrebbe raccolto quote dagli uomini d’onore per circa 10 miliardi di lire.

Processo Crimine: pene confermate in appello

Anche in Appello è stata riconosciuta la natura unitaria della ‘ndrangheta. Si è concluso nel tardo pomeriggio, in aula bunker a Reggio Calabria, il processo “Crimine” che vedeva alla sbarra 124 imputati arrestati nella maxi-operazione scattata nel luglio 2010 quando i carabinieri hanno stroncato i vertici delle famiglie mafiose della provincia reggina. Un’inchiesta legata all’indagine milanese “Infinito” che ha aperto uno squarcio sugli interessi della ‘ndrangheta in Lombardia.

Complessivamente il Tribunale di Reggio Calabria, presieduto dal giudice Rosalia Gaeta, ha inflitto96 condanne e 28 assoluzioni. È stato condannato a 10 anni di carcere anche l’anziano boss Domenico Oppedisano, 84 anni, ritenuto il “Capo crimine”. Soddisfatto, al termine della lettura del dispositivo di sentenza, il procuratore Federico Cafiero De Raho secondo il quale “questo è il procedimento che ha affermato l’unitarietà della ‘ndrangheta e ha tenuto sia in primo che in secondo grado. Si tratta di un’impostazione che in passato non è stata unanimemente condivisa, ma a partire da oggi si può dire che esiste una base giurisdizionale da cui partire, per cui non possiamo che definirla un successo”. “In Appello – ha aggiunto il procuratore – mantenere pene della stessa consistenza e in qualche caso riuscire anche ad aumentarle vuol dire che esistevano reali motivi di doglianza nei confronti della sentenza di primo grado”.

Con l’inchiesta Crimine il procuratore aggiunto Gratteri e i sostituti Antonio De Bernardo e Giovanni Musarò hanno svelato l’assetto della ‘ndrangheta. Certamente diverso da quello di Cosa Nostra siciliana ma ugualmente articolato. Pur mantenendo una struttura orizzontale, non ci sono più un insieme di cosche, famiglie o ‘ndrine scoordinate e scollegate tra di loro, ma un’organizzazione di “tipo mafioso, segreta, fortemente strutturata su base territoriale, articolata su più livelli e provvista di organismi di vertice”.

Il vertice è rappresentato dalla “Provincia” o “Crimine”, del quale facevano parte le famiglie mafiose dei tre mandamenti (tirrenica, jonica e Reggio Calabria città) all’interno dei quali si muovono i “locali”. Infine, c’è il quarto mandamento, quello della “Lombardia”, che raggruppa tutti i “locali” che operano nella ricca regione del Nord Italia ma che dipendono comunque dalla Calabria dove la ‘ndrangheta è nata e dove si continuano a prendere le decisioni importanti come quella di reprimere nel sangue ogni tentativo autonomista dalla “casa madre”. Proprio come è stato per l’omicidio del boss Nunzio Novella, ucciso per le sue velleità separatiste.

Ritornando a don Mico Oppedisano, l’anziano non era certamente un capo assoluto della ‘ndrangheta. Era stato nominato “capo-crimine” nel settembre del 2009, in occasione della festa di Polsi, ma non poteva prendere decisioni autonome. Piuttosto era una figura “super partes” individuata anche in base all’età e all’esperienza. A lui, in sostanza, sarebbe spettato il compito di dirimere i contrasti che potevano sorgere tra le cosche mafiose. Mantenere quell’equilibrio labile che ha portato la ‘ndrangheta ad essere l’organizzazione mafiosa più pericolosa al mondo, leader del narcotraffico internazionale.

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