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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Balle (ah, è nato Esse)

Schermata-11-2456603-alle-17.58.56Quindi, non c’è più la sinistra?

Balle, naturalmente. Se provate a buttare in giro alcuni temi limpidamente e geneticamente di sinistra, scoprirete che godono dell’appoggio di fette di cittadinanza che sfiorano e a volte superano la maggioranza assoluta dei consensi: reddito minimo per i precari e disoccupati, acqua pubblica, istruzione pubblica, sanità pubblica, tagli alle spese militari, tutela del suolo anziché grandi opere, biotestamento, uguali diritti per gli omosessuali, integrazione dei migranti, lotta all’economia speculativa, riduzione degli eccessi sperequativi dei redditi e così via.

Ma prendono sempre più piede, specie tra i nuovi adulti, anche modelli nuovi e più umanisti dell’esistere individuale e collettivo, che privilegiano la qualità della vita quotidiana rispetto al mantra di produzione e consumo a cui siamo stati educati come ‘senza alternative possibili’. In fondo, l’eredità più ingombrante che ci ha lasciato la Thatcher è proprio l’idea che il denaro sia il motore della politica, cioè del vivere insieme. Ecco, quella è la destra. Noi siamo il contrario.

Il commento tutto da condividere, sui cui riflettere e eventualmente condividerne anche le riflessioni è su Esse, la nuova avventura di Giuliano Garavini e Matteo Pucciarelli che ancora si ostinano (grazie a dio) a credere in quello in cui in tanti crediamo.

Come gli ebrei

Quando mancano le idee o come in questo caso le giustificazioni si finisce per appiccare il linguaggio. Fanno così gli attori che hanno poca tecnica e cercano di salvarsi con l’urlo qua e là, fanno così gli scrittori che invertono le parole dei luoghi comuni per sembrare rassicuranti e invece gli mancano le parole e fanno così anche i nostri politici quando hanno raschiato il fondo dei valori, dei princìpi e delle idee e quindi cadono nelle provocazioni linguistiche. L’iperbole è la difesa del colpevole, spesso spessissimo, soprattutto se usata mica con satira ma come tentativo di giustificarsi. Dietro la frase “i miei figli come gli ebrei sotto Hitler” c’è tutto il luogocomunismo di un pacchista che convince l’anziana al mercato e ha bisogno di toccare le corde più facili e banali per suonare la propria innocenza: roba da avanspettacolo, da libretto di qualche euro.

C’è una colpa in più, però, nelle parole del pessimo Berlusconi in questa frase: l’iperbole esce appuntita ma schiaccia le sensibilità e la storia come ha sempre fatto negli ultimi anni quando ha colpito la giustizia per affondare questo o quel magistrato, quando ha fomentato uno scontro di classe (e di razze) per raccattare qualche voto e quando ha minimizzato la mafia calpestandone le vittime per apparire rassicurante. Parlare di Hitler e ebrei con questa faciloneria riporta a qualche decennio fa cancellando quintali di confronti e discussioni sul tema dell’ecologia lessicale su un dolore così grande.

Ogni volta che Berlusconi si difende con un’iperbole un pezzo di pensiero muore in qualche angolo del mondo. Come i marinai con le candele, ma qui il sangue e i morti sono veri davvero.

Antimafia: dov’è la classe dirigente?

Le urgenze cambiano e si spostano con il passare della vita. Funziona così: ciò che oggi ti sembra gravissimo e impellente domani probabilmente scade nel diventare qualcosa di cui occuparsi semplicemente prima che finisca la giornata. Succede nell’agenda della politica e della responsabilità collettiva, per il tema antimafia ad esempio e succede nella nostra agenda personale delle paure, delle preoccupazioni e delle cose da fare. Ogni tanto mi prende il dubbio, per fortuna molto raramente, che la vita sia una dei migliori alleati della mafia, per dire. Così oggi che è ottobre mi sembra già archeologia provare a ritessere il filo che parte dalle dichiarazioni sul del collaboratore di giustizia (ex boss della più potente famiglia di ‘ndrangheta di Crotone) Luigi Bonaventura che ha raccontato di come avrei dovuto morire e tutto il polverone conseguente: polvere insana, a grani grossi, con un gelo di diffidenza che ha sfiorato la diffamazioni anche da parte di presunti istituzionali professoroni che riescono a ridurre ciò che succede agli altri in una stretta formula algebrica, spesso anche con un risultato stupido e sbagliato. Poi si è posata la povere ed è successa una cosa peggiore che abbiamo deciso di tenere sotto silenzio, eh sì, pensa te, che la cosa peggiore non l’abbiamo nemmeno raccontata eppure sarebbe stata fortissima nel marketing delle notizie eppure allora probabilmente siamo pessimi esibizionisti, pure: un altro collaboratore di giustizia ex ‘ndranghetista questa volta al nord (oltre a Bonaventura, eh, pensa te) ha confermato i dettagli delle parole di Bonaventura ed è sceso più a fondo nei particolari. Ma dai, non lo sapevo, ma dai. Questo parlava e intanto noi stavamo ancora parando gli spifferi dell’altro: un bel safari tra pentiti convergenti mentre fuori qualcuno cerca la luce giusta per la foto ricordo. Una cosa così. Fino al ritrovamento di un’arma carica sotto la siepe di casa su cui sta indagando la magistratura. Che arrivi perfino a sperare di essere indagato per procurato allarme, io e i due pentiti e per fare le cose bene se serve anche la pistola, così almeno possiamo uscire a festeggiare tra amici, che è stato tutto un incredibile gioco di coincidenze che non possono e non devono fare paura.

Io non so quale sia la giusta definizione di antimafia, non mi interessa nemmeno quale sia il bon ton sociologico del perfetto antimafioso che non piace ma non dispiace e che naviga nel mare lesso della mediazione al ribasso come forma mentis, non so nemmeno cosa dovrei fare di diverso (attenzione, diverso perché so che potrei fare di più e meglio, ovviamente) dallo scassare la minchia che mi viene così naturale e non so se troveremo mai le parole giuste per descrivere quanto facciano più danno e più terrore i pavidi che si credono buoni rispetto ai cattivi che fanno i cattivi. Pensa, mi sono detto questa mattina prima di cominciare a scrivere e facevo colazione, pensa che mi chiedono di scrivere un editoriale su di me che invece vorrei così tanto essere un fatto, cronaca cruda, nomi, responsabili, responsabilità senza tutte quelle opinioni che sbrodolano intorno e invece sono qui che scrivo un editoriale, su di me. Da pazzi, eh.

Se posso scrivere e dire scrivo e dico che comunque metterci il dito, in tutto quello che tutti ti dicono di sapere sicuramente com’è, mettere il dito tra le pieghe delle certezze solidissime e insindacabili e armarsi di curiosità, fragilità, dubbi e perché no anche delle paure è un viaggio comunque sempre bellissimo. Forse davvero per cambiare il mondo dobbiamo essere disposti a farci cambiare dal mondo. Sono quasi sicuro che sarei così qualsiasi lavoro mi sarei ritrovato a fare e sono quasi sicuro che avrei comunque gli stessi nemici, così come dovrebbero averne tutti e per questo ho dubbi su coloro che sono amici di tutti. Sapere da che parte stare (lo ripeto e lo sento ripetere da anni) significa essere con qualcuno e essere contro qualcuno. Se ne ricordano, lì su, dove stanno quelli con la targhetta “classe dirigente”? Ecco, questo volevo scrivere e domandare: lo sanno, se ne ricordano?

(scritto per Milanosud)

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Siamo alle bombe

'Ndrangheta:attentato con bomba mano a cognato pentita PesceUna bomba, una granata: Giuseppina Pesce, la trentaquattrenne collaboratrice di giustizia che sta svelando i meccanismi della cosca Pesce a Rosarno, spaventa la ‘ndrangheta che risponde con una bomba che avrebbe dovuto uccidere il fratello del suo nuovo compagno. La credibilità di uno Stato si misura anche dalla protezione che è in grado di dare, questo è ovvio, e dalla forza con cui reagisce alle recrudescenze più violente. Per questo Giuseppina Pesce (che ha parlato, fatto nomi, portato ad arresti) è un capitale antimafioso che va protetto anche dalla società civile tutta. Perché se siamo alle bombe significa che funziona e che bisogna disinnescare le vendette, in tutti i sensi possibili. Parlandone, parlandone, parlandone.

Il laboratorio Basilicata

In Basilicata tra poco si vota per le regionali dopo la sfortunata decadenza dell’ultima Giunta. Sono elezioni che possono essere significative non solo per la Basilicata ma per leggere quello che succede e che succederà in un panorama che sembra avvitarsi su se stesso.

Vale la pena leggere le parole di Giuseppe Morelli, esponente locale di Sel e candidato al consiglio regionale all’interno del listino della Murante:

La dirigenza nazionale di sel ha condiviso la scelta di rompere con i democratici?

Ha preso atto. Ad alcune nostre riunioni hanno partecipato anche alcuni dirigenti del nazionale come Ciccio Ferrara, abbiamo spiegato loro le nostre motivazioni e abbiamo ricevuto il loro sostegno. Sinistra ecologia libertà non è nata per fare la stampella al Pd ma per  imprimere un nuovo volto al centro-sinistra; in Basilicata non ci sono le condizioni politiche per farlo quindi meglio portare avanti le nostre battaglie dove c’è la possibilità per farlo.
Quali sono queste battaglie?
Prima di tutto una moratoria sulle perforazioni petrolifere: non possono continuare con questa intensità e in ogni caso non è giusto che i ricavati di questa attività non siano redistribuiti alla collettività. Per questo chiediamo anche di aumentare le tasse sui profitti da petrolio per finanziare una legge regionale sul reddito minimo garantito, una misura assolutamente essenziale in una regione in cui il lavoro non c’è più e i distretti industriali, penso ad esempio a quello del mobile di Matera, stanno chiudendo.
La vostra scelta di creare un polo autonomo delle sinistre sarà il preludio di una nuova strategia politica nazionale?
Se guardiamo al successo che hanno avuto le manifestazioni del 12 e del 19 ottobre direi che uno spazio politico per chi, da sinistra, non si riconosce nella politiche delle larghe intese c’è. Si tratta di vedere da chi e come sarà ocupato.

Cancellieri: due domande e una risposta

Può un Ministro della Repubblica “attivarsi” per un parente, amico, conoscente, amico dell’amico? No, non può, in nessun caso.

Può un Ministro della Repubblica occuparsi di segnalazioni di casi particolarmente gravi ed urgenti agli uffici competenti? No, non può. Il Ministro ha altro di cui occuparsi: se la struttura organizzativa di segnalazione e presa in carico di simili problemi non funziona si dovrebbe occupare di migliorarla, non di sostituirsi ad essa.

La risposta alla prima domanda è condizione sufficiente per le dimissioni di Cancellieri. La risposta alla seconda è l’ammissione spicciola della propria inadeguatezza di Ministro.

Massimo Mantellini prova a fare sintesi senza banalizzare.

Ti racconterò tutte le storie che potrò

ti-raccontero-tutte-le-storie-che-potroIn quei giorni ero contesa da prefetti, generali e alti esponenti delle istituzioni. Mi invitavano e mi sussurravano tante domande. Su Paolo, sulle sue indagini, su ciò che aveva fatto dopo la morte di Giovanni Falcone, sulle persone di cui si fidava. Mi sussurravano domande dentro quei saloni bellissimi pieni di gente importante. E mentre mi chiedevano mi sembrava come se mi stessero osservando, anche se facevano altro: mangiavano una tartina, sorseggiavano un prosecco, ascoltavano il discorso dell’autorità di turno, o magari danzavano.
Ora so. Ora so perché mi facevano tutte quelle domande. Volevano capire se io sapevo, se mi aveva confidato qualcosa nei giorni che precedettero la sua morte. E allora tante parole di mio marito mi sono apparse chiare, chiarissime. Ho cominciato a guardare fra i suoi appunti. Ho riaperto i cassetti dello studio. Ho sfogliato i suoi libri. Ho vagato per casa, pensando a ogni angolo dove lui si rifugiava, come per ricordare una sua parola ancora.

Era il 1968. Una mattina, mentre andavo all’università, vidi Paolo che attraversava la strada e mi veniva incontro. «Ciao Agnese», mi sussurrò. «Come stai? Ti posso accompagnare? Gradisci?». Gli feci un grande sorriso. Quando parlava, il suo volto si muoveva tutto. La bocca, gli occhi, la fronte. Aveva una mimica davvero particolare.
Quella mattina in riva al mare mi innamorai di Paolo. E lui di me. Era come se ci fossimo innamorati per la prima volta, anche se avevamo già la nostra età. Lui ventott’anni, io venticinque. Io gli raccontavo dei miei sogni. Lui mi raccontava le sue storie. Mi ricordo, era vestito con degli abiti semplici, quasi umili direi. Un pantalone e una maglietta,  niente altro. Non è mai cambiato in questo. Il giorno che è morto gli hanno trovato le scarpe bucate. Una sua collega mi sussurrò: «Prendi le scarpe del matrimonio, mettiamo quelle». Lui le aveva conservate con cura in una scatola. Ma sono servite a poco, perché Paolo non aveva più le gambe, e neanche le braccia, il suo corpo era stato dilaniato dall’esplosione.
Pochi giorni dopo la passeggiata al Foro Italico decidemmo di sposarci. E pure in fretta. Quella scelta scatenò però un terremoto. Tutti ci presero per matti. “Forse ci fu cosa?”.
Ovvero, forse Agnese aspetta un bambino e quello è un matrimonio riparatore? Naturalmente, allo scoccare dei nove mesi, tutti dovettero ricredersi. E in paese dissero: “Allora, vero colpo di fulmine fu”.
* * * Amore mio, ogni giorno scendeva da casa alle 4 del mattino, si faceva un bel po’ di strada a piedi e andava fino alla stazione Lolli per prendere il treno diretto a Mazara del Vallo. Alle 8 era già nella sua aula di pretore. Qualche volta, mentre era sul treno di ritorno verso Palermo, telefonavano a casa perché c’era stata un’emergenza a Mazara. Era la prima cosa che gli dicevo al suo rientro, dopo averlo abbracciato. Lui non batteva ciglio, non si lamentava. Beveva un bicchiere d’acqua senza neanche togliersi la giacca. Mi dava un bacio e mi sussurrava rammaricato: «Ci vediamo domani». E tornava alla stazione Lolli, di corsa, per prendere l’ultimo treno del pomeriggio.
Un giorno fummo invitati a casa del senatore La Loggia. Gli amici chiacchieravano e si vantavano: «Mio padre, il senatore»; «Mio padre, il principe»; «Mio padre, il professore di università».
Vedevo che Paolo era insofferente, era chiaro che non ne poteva più. Dopo un attimo di silenzio, disse: «Mio padre era carrettiere, trasportava il fieno». E fece il verso del cavallo. Fui l’unica ad accennare a un sorriso alla battuta di Paolo. «Perché l’hai fatto?” gli chiesi. «Li conosco quei ragazzi, molti sono stati miei colleghi di università». Erano quegli stessi che l’avevano disprezzato perché magari aveva il cappotto rotto o le scarpe bucate.
Alle feste, guardavamo gli altri ballare. Lui rideva come un matto, io protestavo. «Agnese, ma tu perché stai con me? Io non ti do niente di tutto questo. Non sono il tipo di marito che torna a casa sempre allo stesso orario, si mette le pantofole, si siede davanti al telegiornale e poi nel pomeriggio porta la moglie in giro per una passeggiata. Lo sai perché stai con me? Perché io ti racconto la lieta novella». La prima volta che me lo disse, rimasi spiazzata. Mi misi a piangere. «Io ti sollecito, ti stuzzico, ti racconto la lieta novella che sta dentro tante storie di ogni giorno. Ti racconterò tutte le storie che potrò. Così il nostro sarà un romanzo che non finirà mai, sino a quando io vivrò. La lieta novella manterrà sempre fresco il nostro amore. Perché l’amore ha bisogno di mantenersi fresco».
* * * Paolo era sempre il primo ad arrivare in ufficio, di buon mattino, e prendeva una delle adorate papere della collezione di Falcone. Poi aspettava che Giovanni se ne accorgesse. Magari, Paolo si divertiva pure a fargli sorgere il dubbio: «Ma ci sono proprio tutte le tue paperelle? Ne sei sicuro?». Quegli scherzi erano un modo per allentare la tensione. A un certo punto, Paolo lasciava di nascosto un biglietto nella stanza di Giovanni: “Se vuoi riavere la tua papera cinquemila lire mi devi portare”.
* * * Ricordo le parole di Paolo: «Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare». Anche questa era una buona novella che mio marito mi annunciava ogni giorno. Perché a differenza di tante altre persone lui credeva nell’uomo, anche il più terribile all’apparenza, come appunto è il mafioso. Ecco cosa diceva Paolo ai suoi imputati, persino agli uomini d’onore: «Voi siete come me, avete un’anima, come ce l’ho io. E oltre l’anima cosa avete? I sentimenti». Loro gli rispondevano: «Signor giudice, si sbaglia, noi siamo delle bestie». Un giorno, mio marito convocò Leoluca Bagarella, il cognato di Salvatore Riina, che in quell’occasione si trovava fuori dalla gabbia. Il capomafia era particolarmente nervoso, fece anche il gesto di sputare. La guardia carceraria intervenne subito, prendendo le manette. «Questo è oltraggio a pubblico ufficiale». Ma Paolo intervenne: «Aspetti». E rivolgendosi al capomafia disse: «Ma tu uomo d’onore sei?». E l’uomo d’onore si inghiottì la saliva. Paolo lo lasciò fuori dalla gabbia, senza le manette. Era un messaggio chiaro: non ho paura di te, e addirittura posso anche avere fiducia in te. Credo che in quell’occasione Bagarella, stizzito, ebbe a dire: «Il borsello è viscido».
* * *L’ultima occasione in cui ho visto veramente sorridere Paolo è stato il Capodanno 1991, ad Andalo. Era particolarmente felice perché ci aveva raggiunto suo fratello Salvatore con la moglie e i figli. Fu una festa, l’ultima per la nostra famiglia. In quelle piacevoli serate, Paolo non si limitava a intrattenere la sua famiglia, ogni tanto si allontanava per una sigaretta. E scompariva. Poi, dopo mezz’ora, lo trovavamo in mezzo a una comitiva di giovani sciatori mentre raccontava di Palermo e delle gesta del pool antimafia.
* * * Mi ricordo come fosse oggi quando il primo luglio tornò da Roma e mi disse: «Ho respirato aria di morte». Il pomeriggio era stato al Viminale, per l’insediamento del nuovo ministro dell’Interno Nicola Mancino. Quel giorno aveva anche ascoltato il nuovo pentito Gaspare Mutolo, che gli aveva parlato dei rapporti intrattenuti da alcuni uomini  delle istituzioni con Cosa nostra. Sapeva che dopo Giovanni Falcone sarebbe toccato a lui. L’aveva capito. Al punto da non voler essere baciato né da me, né dai suoi figli. Ci stava preparando al distacco. Due giorni prima di morire, mio marito aveva un desiderio. Mi disse: «Andiamo a Villagrazia, da soli, senza scorta». Non era un marinaio esperto, ma nuotava benissimo, perché solo nel mare si sentiva libero. Incontrammo un amico, che ci offrì una birra. Poi Paolo volle fare una passeggiata in riva al mare. E non c’erano sorrisi sul volto di Paolo, solo tanta amarezza. «Per me è finita. Agnese, non facciamo programmi. Viviamo alla giornata». Mi disse che non sarebbe stata la mafia a decidere la sua uccisione, ma sarebbero stati alcuni suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere.
Amore mio, eri rassegnato. Qualche giorno prima, avevi chiamato al palazzo di giustizia padre Cesare Rattoballi, per confessarti. Poi, sabato, hai baciato uno a uno i colleghi a te più cari. Domenica, alle cinque, non c’eri più.

Tratto da: “Ti racconterò tutte le storie che potrò”
Agnese Borsellino con Salvo Palazzolo
(Editore Feltrinelli, € 18.00, pagine 224, IN USCITA IL 6 NOVEMBRE 2013)

(da Campania su web) «In ogni era ci sarà un’Innocenza di Giulio». Cavalli al NTS

Da campaniasuweb.it

Avrei potuto aspettare come tutti gli altri. Avrei potuto mettermi in fila, stringere i denti, tirare le labbra in un sorriso e aspettare. Uguale e preciso a tutti gli altri. E invece non l’ho fatto. Me ne sono andato subito, praticamente due minuti dopo la fine dello spettacolo. E non perché non mi fossero piaciuti Giulio Cavalli e la sua “Innocenza di Giulio”. Anzi, al contrario: mi sono piaciuti talmente tanto che mi sono detto che conoscere l’interprete, la voce sciorinante e sciorinata, la mano dietro i gesti, il sorriso dietro le imitazioni di Andreotti mi avrebbe spezzato. Nel fisico come nell’animo. E allora via: dalla Sanità, dal NTS, a casa: viaggio diretto senza fermate. In testa solo una cosa: la voce di Giulio Cavalli. Una voce che ti coinvolge e che – assurdamente – ti parla. Che si fa ascoltare.

MAFIA: UN STORIA LUNGA 100 ANNI – Chiudo gli occhi e lo vedo. Lui, Giulio, seduto su una sedia di legno, di quelle vecchie che a Napoli si trovano ancora, schienale dritto, spalliera ricurva e niente braccioli, laccata e lucida. Lì, seduto, che parla. Racconta una storia, quella della Mafia. Una storia vecchia di 100 anni, ammuffita ed appesantita dai ricordi. Una storia, però, attuale. I volti, le immagini, le musiche: un mix incredibile, un viaggio onirico a occhi aperti. A me, francamente, è piaciuto. Ho visto un uomo, Giulio, affrontare un mostro, una leggenda, una macchia senza nome e senza età: l’altro Giulio. E ho capito – ho pensato di aver capito – tante, tantissime cose. Le apparenze sono solo apparenze, non sono quello che sembrano: «Non è tutto oro quello che luccica». La Mafia c’è, esiste ed è sempre presente. Ovunque, anche dove meno te l’aspetti. Questo ho sentito nelle parole di Cavalli: la presenza costante, l’ombra senza forma e senza peso della Mafia. Un’ombra marcia, fetente, terribile. Da vomito. «In ogni era c’era e in ogni era ci sarà un’Innocenza di Giulio». «Siamo un paese di opportunità». Secco, lapidare, profetico.

UN OCEANO DI STORIE – Ne “L’Innocenza di Giulio” non c’è solo l’Andreotti politico; c’è pure un po’ di quell’Andreotti furbo e furbacchione, di quella mano che tocca e che palpa; di quella storia, sentita e risentita, che si chiama “omertà all’italiana”. Morti ammazzati: ce ne sono ovunque nel monologo di Cavalli. Coincidenze, fatti, incontri e scontri. Una catena infinita. Una catena che inizia e che non finisce. Andreotti che non sa, Andreotti che non conosce: né i cugini Salvo né i boss di Cosa Nostra. C’è una sentenza – una sentenza che non dichiara l’innocenza, ma che ne convalida, al contrario, l’inesistenza. E c’è un uomo: camicia, bretelle calate, pantaloni, mani che non stanno ferme un attimo, che racconta. Vomita parole, si ripete, si rinnova. Spiega. Un fiume, un fiume in piena; un oceano di storie. Mafia contro mafia, politica contro politica. Mafia e politica a braccetto.

DA ANDREOTTI A BERLUSCONI – Lo spettacolo di Cavalli è frenetico, febbricitante, vissuto sulla pelle e raccontato con voce roca, a tratti modulata (all’Andreotti) e a tratti irriconoscibile. Un’ora e mezza passata a sentire, a capire, a ricordare. Un bis che bis non è e che riprende la storia di un Andreotti 2, meno furbo ma ugualmente promettente: Silvio Berlusconi. Poi c’è Dell’Ultri, di cui bisogna parlare leggendo – «perché m’ha denunciato, e contrariamente a Giulio ha ancora qualche decennio». E c’è Mangnao e c’è Cinà, «la brava persona». C’è la Mafia al nord negli anni ’80 con la storia di Bruno Caccia e c’è la gente per bene con i cento passi cantati in sottofondo.

UNO SPETTACOLO DE VEDERE – A noi – come ha detto Cavalli – piace raccontare le storie dalla fine. E l’ho fatto anche io, con la mia premessa. Me ne sono andato prima da teatro, pur potendo parlare con il protagonista. Avevo questa sensazione dentro, come se conoscessi Giulio Cavalli da anni, lui che non è mio coetaneo, lui che è attore e scrittore civile. A me il suo racconto è piaciuto. E vi consiglio di andare a vederlo. Perché una storia raccontata così è una storia che vale la pena di essere ascoltata. È una storia bella, ma di quella bellezza terribile, non da film contemporaneo o da fiaba, ma da monologo. Bella come solo l’onestà, certe volte, sa essere.

(Intervista, da LA REPUBBLICA) Teatro sotto scorta per Giulio Cavalli Impegno civile al rione Sanità

da La Repubblica

Schermata 2013-11-03 alle 11.08.40“Smettiamola con questi voyeurismi paratelevisivi sui personaggi minacciati: interroghiamoci invece su che razza di paese è quello che costringere sotto scorta i suoi cittadini”. Giulio Cavalli, sotto scorta dal 2009 per il suo impegno antimafia a teatro, si esibirà all’Nts -Nuovo Teatro Sanità stasera alle 21 e domani alle 18 con “L’innocenza di Giulio  –  Andreotti non è stato assolto” (ingresso 10 euro). Lo spettacolo, che doveva andare in scena il 5 ottobre, è slittato a causa delle nuove minacce ricevute da Cavalli: l’attore ha ritrovato nel giardino della sua casa romana una pistola carica.

Dopo l’allarme e il trasferimento in una nuova località protetta con la sua compagna Miriana Trevisan, Cavalli è riuscito a fare una breve tappa a Napoli il 15 ottobre per guidare la Mehari di Giancarlo Siani. L’attore ha scelto di portare il monologo sul “Divo Giulio” solo al rione Sanità: “Altrove  –  spiega  –  nei teatri da avanspettacolo, non sareiandato”. E proprio una storia di camorra è al centro del suo romanzo in uscita a gennaio per Rizzoli: è la vicenda di Michele Landa, il metronotte ucciso a Mondragone. Si intitola “Mio padre in una scatola di scarpe”, ispirato alla vittima innocente che sorvegliava i ripetitori telefonici rubati dalla camorra.

Cavalli, come si vive sotto scorta?
“Non vivo peggio di chi non ha i soldi per arrivare a fine mese o di chi vive in territorio sotto ricatto delle mafie. Non voglio diventare, però, l’oggetto scenico dei miei spettacoli, quindi smetterei di parlare della scorta, e parlerei invece di che razza di Paese è quello che costringe sotto scorta i suoi cittadini”.

È stato consigliere regionale in Lombardia nelle fila dell’Idv, il suo teatro civile si occupa di mafia: cosa pensa della desecretazione tardiva dei verbali del 1997 nel quale il pentito Schiavone ammetteva che in vent’anni la popolazione della Terra dei fuochi sarebbe morta di cancro?
“Credo sia una magra consolazione per il movimento della Terra dei fuochi: la vera vittoria ci sarà quando avremo una classe dirigente capace di portare in Parlamento le tematiche centrali per il bene dei cittadini, e non solo dopo una manifestazione o la dichiarazione di un pentito”.

In questi giorni i residenti del rione Sanità denunciano la recrudescenza criminale, anche se ilquartiere riesce ancora ad essere meta dei turisti. Perché ha scelto di andare in scena nel neonato teatro Nts, e non in uno più blasonato?
“Nei templi dell’avanspettacolo non avrei messo piede. È meritevole il lavoro portato avanti del direttore artistico Mario Gelardi in un quartiere complesso, e va sostenuto. Ma, intendiamoci, questo paese non ha bisogno di altri eroi, anche perché l’Italia, dove devi essere morto per essere credibile, non si cambia certo solo con ilteatro e la cultura…”

A proposito, sul Forum delle culture, che è sempre sul punto di saltare, quali consigli dà al suo amico Luigi de Magistris?
“Luigi ha tante grane da sbrigare, mi sembra di capire. La questione però è che a Napoli e nel resto del Paese la cultura è derubricata a faccenda minoritaria, quando sento il ministro Bray elencare i suoi propositi mi ricorda la solitudine de “Il deserto dei tartari”.

Lo spettacolo su Andreotti nasce dalla collaborazione con il procuratore di Torino Giancarlo Caselli e lo scrittore Carlo Lucarelli, musiche di Cisco dei Modena City Ramblers. Quando ha capito che aveva trovato un taglio originale per una storia arcinota?

“Semplice: quando Andreotti si è arrabbiato. La sua storia è stata sempre raccontata in maniera edulcorata, il mio spettacolo invece è rissoso, maleducato: conoscere il processo Andreotti significa riconoscere la politica che tenta di legittimare l’illegalità. Il pentito di ‘ndrangheta che ha rivelato il piano per farmi fuori diceva che ero uno “scassaminchia”: beh, forse è vero…”