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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Nostra Signora della Stabilità

Ne continua a parlare Letta, continua a reclamarla Napolitano ed è invocata come una pioggia salvifica: la stabilità. Nessuno tocchi la stabilità, nessuno osi discutere la stabilità, nessuno provi a mettere in difficoltà la stabilità.

Eppure è da incorniciare il commento di Barbara Spinelli oggi su Repubblica che racconta lo sconforto che ci prende quando si ascolta questa litania:

Nella Fattoria degli animali, la casta trionfatrice dei maiali narrata da Orwell annuncia a un certo punto che tutti gli animali sono eguali, ma ce ne sono di più eguali degli altri. Nelle grandi coalizioni accade qualcosa di analogo. Anch’esse secernono una casta, pur di sfuggire ai partiti sottoscrittori delle intese, e i governanti assumono una postura singolare: si fanno prede di leggi deterministe, è come non possedessero il libero arbitrio e di conseguenza non fossero imputabili. Il leone che sbrana la gazzella agisce così: mosso dalla necessità della sopravvivenza, non deve render conto a nessuno, tribunale o popolo elettore.

Le unioni nazionali funzionano sempre male, ma se funzionano è perché ciascuno riconosce e rispetta i limiti che il partner non può valicare senza rinnegarsi. La grande coalizione di Weimar naufragò perché Hindenburg l’aveva suscitata col preciso intento di consumare i socialdemocratici. La morte della democrazia parlamentare era programmata dall’inizio; il governo presidenziale di Brüning, ultimo Cancelliere della Repubblica, era già da tempo concordato tra Centro cattolico e destre popolari.

I guai succedono quando l’abitudine alla non-responsabilità diventa tassello principale della stabilità, o governabilità. Enorme è il chiasso, ma ogni cosa stagna: è la stasi. Nessuno si avventuri a staccare spine, ammonisce Napolitano. Tantomeno si provi a irritare i mercati e le banche d’affari, che già l’hanno fatto sapere: non si fidano di Stati con Costituzioni nate nella Resistenza (rapporto di JP Morgan del 28-5-13). Per questo è interessante sapere quel che intenda la Banca d’Italia, quando nell’instabilità vede un freno alla crescita. Quale stabilità?

Ci sono momenti in cui si ha l’impressione che l’Italia abbia vissuto nel Regno della Necessità quasi sempre, tranne nel momento magico del Comitato di liberazione nazionale, della Costituzione repubblicana. I governanti che sono venuti dopo sono stati potenti stabilizzatori, più che responsabili. Quando parla al popolo, lo stabilizzatore gli dà poco rispettosamente del tu e d’istinto cade nel frasario del gangster: “Ti faccio un’offerta che non potrai rifiutare”.

Esultare un po’ meno per il nuovo 416 ter contro il voto di scambio mafioso

Sento tutto intorno un certo fremito vittorioso per il nuovo testo sul voto di scambio politico mafioso. E’ vero che in questi anni tutti abbiamo contestato la vecchia norma del 1992 che prevedeva lo scambio di denaro per configurare il reato; consapevoli che difficilmente un politico offre denaro liquido per acquistare pacchetti di voti dalla criminalità organizzata quanto piuttosto una serie di regalìe attraverso appalti e consulenze (rimane la storica prestazione dell’Assessore della Regione Lombardia Zambetti che invece stabilì un prezzo per ogni voto, incapace com’era anche di fare il paramafioso oltre che il buon politico).

Il superamento del solo elemento del denaro (in cambio dell’erogazione di denaro o di altra utilità, nel nuovo articolo di legge) è sicuramente un grande passo avanti ma lascerei perdere, per ora, le grandi manifestazioni di giubilo.

Hanno ragione i magistrati che si soffermano sull’avverbio “consapevolmente”:

Il perché è presto detto. Quel “consapevolmente” comporta che l’inchiesta giudiziaria debba dimostrare l’effettiva “consapevolezza” dello scambio. La parola “procacciare” sostituisce l’originaria “promessa” che rendeva assai meglio il momento iniziale dello scambio. Critico anche il riferimento alle modalità del 416-bis perché ciò comporta un’azione violenta che potrebbe non esserci. Infine la pena, quei 10 anni anziché i 12 del 416-bis, col rischio che processi in corso per reati associativi – come Cosentino, Ferraro e Fabozzi a Napoli – vedano gli avvocati chiedere la riqualificazione del reato con un ricasco negativo sulla prescrizione.

Ha ragione Roberto Saviano quando dice:

I boss non fanno mai (tranne in rarissimi casi) campagna elettorale in prima persona, ed è quasi impossibile dimostrare che un elettore si è venduto il voto o ha votato sotto pressione. I clan sanno benissimo che dimostrare un voto comprato, condizionato, scambiato è impresa quasi impossibile per gli inquirenti, i quali invece, grazie alle intercettazioni e alle dichiarazioni dei pentiti, spesso riescono a provare che un patto è stato realmente stipulato tra boss e politico. E questo è il punto attorno a cui deve fondarsi una norma antimafia sullo scambio dei voti.

E trovo giusta la speranza (o l’ammonimento, forse) di Raffaele Cantone:

Siccome si è  atteso oltre vent’anni per modificare la norma – ed è difficile che una legge approvata possa poi essere di nuovo a breve modificata – quello che tutti auspichiamo è che non un qualsiasi nuovo testo dell’art. 416 ter sia varato ma che quello che sarà scelto sia davvero in grado di bloccare il turpe mercato del voto mafioso.

Io esulterei un po’ meno, in modo più composto per un’opportunità che andrebbe colta. Mica moderata.

Art. 121 E’ vietato il mestiere di ciarlatano.

Attenzione: non è un divieto assoluto.
Uno può fare il ciarlatano per hobby, ma non di mestiere. Non ne deve ricavare, cioè, un vantaggio economico o professionale.

Ecco quindi che improvvisamente il mondo come lo conosciamo, se venisse applicata questa norma, cambierebbe radicalmente: la Natura si riprenderebbe il proprio posto in Parlamento e avremmo alberi che crescono a Montecitorio e cerbiatti che corrono liberi per Palazzo Madama; i ricavi di Google Adsense scenderebbero per carenza di blog d’opinione sponsorizzati; la televisione non avrebbe più pubblicità, né trasmissioni; il 99% di quelli che si auto-proclamano scrittori e/o artisti dovrebbero inventarsi un’altra definizione; nessuno si proclamerebbe portavoce di nessun altro né di alcun Dio; ci sarebbe molto più silenzio, molta più pace.

L’articolo 121 del “Testo Unico per le Leggi di Pubblica Sicurezza” scovato da Francesco qui.

Il bluff di Governo

Insomma alla fine noi Angelino Alfano ce lo dobbiamo tenere perché altrimenti cade il Governo. Ha detto, così, più o meno nel fondo del significato del suo discorso al Senato, Enrico Letta mentre, da Presidente del Consiglio, proclamava l’inettitudine da sopportare di un Ministro dell’Interno che ha espulso illegittimamente Alma Shalabayeva accompagnata dalla figlia di sei anni Alua. Abbiamo sbagliato, Alfano ha colpe, ma lasciateci fare cose più importanti: il senso politico nelle parole del Presidente del Consiglio è questa orrida cosa qui.

Un bluff, come scrivono bene su Il Post.

Ora, in fondo, è anche il caso di dirsi che in nome della “responsabilità” la politica ha officiato le macellazioni sociali e etiche peggiori in tutti questi ultimi vent’anni ma quello che non si riesce a cogliere nella diaconale sicumera del mai giovane Letta è cosa ci sia davvero importante nell’agenda di un Governo che ha deliberato solo slittamenti nei prossimi mesi su tutte le questioni più delicate e urgenti di questo Paese e si incarta facilmente ogni volta che rischia di incarnire un’unghia di Silvio Berlusconi.

Ci vuole una bella faccia tosta per parlare di “urgenze” e “cose importanti” ai cittadini stritolati in una morsa di crisi etica, dei diritti e dei servizi, oltre che economica, che assistono alla saga di un esecutivo che somma i voti dati per altri scopi e crede di essere davvero maggioranza.

Ecco, io non so se vale la pena sperare che Civati o qualcuno che possa rendere potabile questo PD al prossimo congresso (o almeno non ricattabile, per dire) o forse non sarebbe il caso di organizzarsi fuori dai tempi dei congressi degli altri provando ad andare sopra (o sotto, che è anche più umile) dai tempi delle larghe intese tornando fuori da quel Paese a cui è stato venduto un “pacco”.

Ci vuole una bella faccia. Certo.

 

Recitare a schiena dritta. Intervista per Infooggi.

MILANO, 23 LUGLIO 2013 – Giulio Cavalli è attore ed è sotto scorta dal 2008. La ‘Ndrangheta non gradisce gli attacchi che lancia dal palco, le verità che racconta al pubblico di quel Nord dove per molti ancora vale il ritornello: «qui la mafia non esiste». I suoi spettacoli si ispirano a fatti realmente accaduti, al presente civile, sociale e politico dell’Italia. Da Linate 8 ottobre 2001: la strage (2007) sull’incidente aereo, a Bambini a dondolo (2007), sul turismo sessuale infantile, a Primo L. 174517 (2008), uno spettacolo ispirato al romanzo Se questo è un uomo di Primo Levi, agli spettacoli sul tema della mafia: Do ut Des, spettacolo teatrale su riti e conviti mafiosi (2008), A cento Passi dal Duomo (2009), Nomi, cognomi e infami (2009) e L’innocenza di Giulio – Andreotti non è stato assolto (2011). Nell’aprile 2010 all’impegno teatrale ha affiancato quello politico, ed è stato eletto come consigliere regionale indipendente nella lista dell’Italia dei Valori in Lombardia; successivamente ha aderito al gruppo di Sinistra Ecologia e Libertà, che oggi rappresenta nel consiglio regionale lombardo.

Nasce come artista di teatro. I suoi spettacoli si ispirano a fatti realmente accaduti, al presente civile, sociale e politico dell’Italia. Ha affermato che il teatro deve essere un «mezzo per mantenere vive pagine importanti della nostra storia». Deve avere l’obbligo morale di prendere una posizione netta in merito agli avvenimenti che accadono, un teatro di controinformazione. Crede che il teatro possa avere la capacità di influire sulla coscienza civile di un Paese?

Certo. Non lo dico io ma lo dice la storia del teatro. Attraverso la parola si costruisce il pensiero e, nel migliore dei casi, si coltiva la capacità di analisi collettiva. Il teatro poi, a differenza di un libro e soprattutto della televisione, richiede anche allo spettatore una “costrizione” fisica che non può esimersi da una partecipazione attiva: in teatro devi scegliere di andare, scegliere di vedere proprio quello spettacolo e difficilmente si riesce a liquidare l’esperienza in pochi minuti uscendone. In più in teatro ci si mette la faccia e il corpo ed è molto più facile capire se il portatore delle parole sia intellettualmente onesto. É una visione tattile, direi.

Diversi suoi spettacoli nascono da sentenze giudiziarie. In che modo avviene il processo di trasformazione di una sentenza in un’opera teatrale?

Cercando di cogliere all’interno delle carte giudiziarie la storia profondamente umana e il paradigma sociale. All’interno di molti processi si sono scritte verità che esulano dall’ambito giudiziario e descrivono comportamenti di questo tempo. Spesso gli atteggiamenti non sanzionabili per legge (ma comunque inopportuni) sono più significativi delle sentenze. L’umanizzazione delle carte giudiziarie è una scultura che è già disegnata nel cubo, basta farla venire alla luce. E’ un lavoro che ha bisogno di una buona arte di togliere e di una buona umiltà nel non aggiungere.

Dal 2010 è passato anche all’impegno diretto in politica; si è candidato alle elezioni regionali della Lombardia come indipendente nella lista dell’Idv. Come mai ha deciso di affrontare anche questo tipo di impegno? L’approccio culturale non era sufficiente a cambiare le cose? Una volta eletto ha aderito al gruppo di Sel, perché?

Perché il mio teatro è profondamente politico. Ed è politica tutto ciò che decide di non accettare le verità precostituite o semplicemente andare a fondo delle situazioni. Non credo nel “teatro civile” che si illude di fare cronaca o memoria. Si può essere apartitici, certo, ma una posizione politica sta in ogni narrazione che si rivolga alla coscienza civile di un Paese. L’attività all’interno delle istituzioni quindi non ha nulla di innaturale rispetto ad uno spettacolo, un articolo o un libro. L’appartenenza a questo o quel partito è semplicemente un mezzo. Che trovo poco interessante. In Italia la coerenza rispetto ad un’idea spesso è più ferma dei programmi o delle dinamiche di partito.

Dopo aver passato anni a negarne l’esistenza, si può dire che oggi la presenza della mafia al nord Italia è riconosciuta? Qual è la situazione attuale in Lombardia?

Certo è più sentita. Ma siamo ancora a livello di sterile litigio politico o semplice allarme. Manca il percorso di responsabilizzazione e di studio. Oggi il nord ha l’occasione di prepararsi alle mafie facendo tesoro del sud migliore ma è ostaggio di un federalismo che è più un embargo di esperienze positive che altro.

È autore del volume “Nomi, Cognomi e Infami”, racconta quale sia lo stato e le collusioni della criminalità organizzata nel settentrione, perché mettere in scena una realtà cruda come quella delle mafie?

Perché mentre chiedevamo di non avere paura siamo finiti sotto minaccia. Ed era inevitabile accettare la sfida.

Le mafie hanno uno o più lati disonorevoli?

Moltissimi. Spesso le mafie sono l’associazione organizzata dei vizi della malapolitica, dell’imprenditoria spericolata e della cittadinanza incostituzionale. E infatti sono i suoi compagni preferiti.

Per lo spettacolo “Do ut Des”, nel 2008, hai subìto delle intimidazioni mafiose. Da quel momento le è stata assegnata la scorta. Immaginava che il suo spettacolo potesse provocare un simile effetto? 

Non parlo di minacce. Mi annoia questa epoca di minacciati fascinosi come bomboniere della legalità. Sono stato minacciato come è minacciata più in concreto la bellezza e la moralità in Italia.

Cos’è la libertà e cosa rappresenta per lei?

Riconoscermi in tutto quello che faccio.

Se potesse tornare indietro, rifarebbe tutto?

Certo. Altrimenti sarei stato un omertoso, no?

Giulia Farneti (da qui)

La fiducia, Bernardo Provenzano e l’utilizzo della sua famiglia

A proposito di “studio”, approfondimenti e tutte quelle altre cose che converrebbero ad un’attività terribilmente presa sul serio, è uscito un articolo di Patrick Illinger per sueddeutsche.de sulla ‘forma mentis’ mafiosa.

Per 30 anni, un certo Bernardo Provenzano, più conosciuto dalla gente del posto come “u tratturi” – il trattore – , ha vissuto lontano dalla vita pubblica. Ma nel 1992, è successo qualcosa di sorprendente. La famiglia del mafioso siciliano, successivamente divenuto capo di Cosa Nostra, è uscita dalla clandestinità trasferendosi, sotto gli occhi di tutti, nella città natale di Provenzano, Corleone, dove ha iniziato una vita apparentemente normale. Che cosa era accaduto? I familiari di Provenzano avevano rinunciato a tutti i legami con la mafia, per godere finalmente di una pacifica esistenza? O la famiglia ha perso la testa consegnandosi completamente indifesa nelle mani dei clan rivali?

Né l’uno né l’altro, dice il sociologo italiano Diego Gambetta, che da anni studia le relazioni tra i criminali. Secondo lui la famiglia di Provenzano è servita come una sorta di garanzia: ecco qui, amici mafiosi, Bernie il trattore non vi tradirà. A garanzia avete la famiglia, dato che ora sapete dove vive. Secondo Gambetta questa mossa per creare fiducia fu tanto infida quanto efficace. La fiducia tra menti criminali, un argomento complesso sul quale Gambetta, attualmente ricercatore universitario a Oxford, ha riferito lunedì sera alla Fondazione Carl Friedrich von Siemens di Monaco di Baviera. Con fascino italiano e humor britannico Gambetta ha guidato il pubblico in un viaggio attraverso la sociologia del crimine. L’argomento è stato già affrontato da Socrate secondo cui, anche in una banda di rapinatori e ladri, ci deve essere una sorta di giustizia che tenga uniti i membri nello svolgimento delle attività comuni. “Come fanno i criminali a fidarsi gli uni degli altri, quali strategie adottano?” chiede Gambetta. Dopo tutto, si tratta di un bene non tangibile, soprattutto se coloro che sono coinvolti sono criminali e non è possibile rivolgersi alla polizia per risolvere le proprie controversie. La risposta ci conduce innanzitutto nell’ambito della materia del comportamento in cui gli scienziati sondano quei meccanismi che provocano la collaborazione, quel fenomeno per il quale le persone rinunciano a vantaggi nell’immediato per conseguire, per mezzo di un agire comune, un  beneficio finale maggiore. In molti esperimenti di laboratorio è stato dimostrato che questo è difficile persino tra persone normali.

Ma senza cooperazione, che si basa di nuovo sulla fiducia, non può funzionare nemmeno nel mondo della malavita, pensa Gambetta: i trafficanti di droga hanno bisogno di produttori e acquirenti, i ladri hanno bisogno di ricettatori, e persino i terroristi hanno bisogno di una rete di conoscenze. Si può imporre con la violenza o con le intimidazioni, come si è visto in innumerevoli film di gangster. Qui la sociologia del crimine diventa una sorta di meccanica newtoniana: una pressione produce una controspinta, una specie di equilibrio del terrore. Ma se la violenza è legata a costi e spese, anche il rischio di un’escalation di vendette è grande, come dimostrato in maniera grottesca nelle guerre per la droga che avvengono in Messico. Pertanto i criminali di successo preferiscono, a meno che non si tratti di psicopatici, meccanismi più efficaci. Così nel parallelogramma delle forze della sociologia del crimine gli ostaggi hanno un ruolo, proprio come nel tardo Medioevo, in cui erano in cui erano addittura usati come oggetto di scambio tra Stati. Se la collaborazione tra i cartelli colombiani della droga e la mafia dovesse consolidarsi intere famiglie emigrerebbero dall’Italia a Medellin, afferma Gambetta. In generale, la frequenza dei conflitti violenti fra i criminali viene sopravvalutata, avverte: in Sicilia, il tasso complessivo di omicidi è inferiore rispetto a molte altre regioni. Il successo della mafia siciliana risiede tra l’altro nella sua  capacità di agire come una sorta di protogoverno che vigila sulle trasgressioni nel rapporto di fiducia, punendole.

Gambetta è in grado di riferire fatti sorprendenti sulla mentalità dei mafiosi avendo egli stesso condotto ricerche per un anno in Palermo. Molti boss sono apparentemente persone modeste, che vanno in giro vestite come contadini col vestito della domenica, consapevoli dei propri limiti di conoscenze, ad esempio in termini di moderna economia aziendale. Anche le biforcazioni nelle attività, conseguenza ad esempio di appalti pubblici pilotati,  sarebbero meno elevate di quel che spesso si ritiene, normalmente dal 3 al 5 per cento del totale delle commesse. Ma nel momento in cui vedono messo in forse il loro potenziale di minaccia, lorsignori non stanno più allo scherzo. Gambetta racconta di un collega canadese al quale furono messi in macchina gli abiti freschi di lavanderia con su un biglietto che riportava la scritta “buon viaggio”. Un messaggio del tutto inequivocabile. Talvolta scaturiscono forme stabili di cooperazione criminale, anche come sistema che si autoprotegge. Questo è in particolare il caso di opportunità di mercato a lungo termine in cui a tutti i complici è chiaro che anche una sola deroga alla consuetudine significherebbe la disgregazione dell’intero modello affaristico. E così in Bangladesh esiste, racconta Gambetta, una rete di 10.000 ladri e scassinatori i cui informatori  partecipano ai saccheggi percependo laute percentuali.

Soggiorno in carcere come referenze

Una lotteria illegale organizzata dalla Camorra è strutturata allo stesso modo: le vincite sono pagate puntualmente per preservare la buona reputazione. Una mentalità simile è riscontrabile anche in ambienti accademici, avverte Gambetta: è prassi consolidata nelle Università italiane che i docenti promuovano gli studenti di altri professori con la legittima aspettativa che i propri studenti vengano trattati allo stesso modo dai propri colleghi. Questo permanente sistema di  continui favori reciproci viene mantenuto in essere anche dai docenti che li sostituiranno. Ma questo tipo di cooperazione poggia su un terreno molto friabile. Se una delle persone coinvolte mette un piede in fallo, le figure che operano nel campo penale devono guardare dall’altra parte e la questione può finire nel nulla. Fondamentalmente, i criminali apprezzano la prova tangibile della fiducia. A questo scopo per esempio è prassi comune che i mafiosi alle prime armi partecipino precocemente ai crimini. “Per un omicidio la mafia impiega sempre molte più persone del necessario”, osserva Gambetta. Il motivo è semplice: è più difficile che i complici compaiano come informatori dinanzi alle forze dell’ordine. Ma nel mondo della criminalità la dimostrazione di gran lunga più apprezzata di essere meritevoli di fiducia è una detenzione in carcere, in fondo è improbabile che un informatore sotto copertura si faccia metter dentro per anni. Chi esce di galera ha, quindi, le migliori referenze. Funzionava così anche nella Germania degli anni Trenta, dice Gambetta. Allora esistevano i cosiddetti “Ringverein” (circoli criminali), con il suggestivo nome di  ”Immertreu” (Fedele per sempre) che, se esternamente  sembravanbo associazioni di sostegno ad ex detenuti, nella realtà si davano al crimine organizzato e che, diversamente da quanto affermava la propaganda nazista, non furono smantellate totalmente nemmeno sotto il Terzo Reich. Gambetta parla con molta chiarezza di un paradosso che colpisce: è proprio lo Stato con il suo sistema carcerario a costituire, per i criminali, la principale istituzione che infonde fiducia.

[Articolo originale “Auch Verbrecher brauchen Vertrauen” di Patrick Illinger] [tradotto da Claudia Marruccelli]

La Ragion di Stato

Da leggere stasera Francesco Migliore sull’affare Mukhtar Ablyazov:

Una volta  Noberto Bobbio scrisse che “ veri o finti, reali o inventati, i complotti che appaiono sulla nostra scena quotidiana sono comunque la rivelazione di una democrazia malsana”. L’Italia è lo Stato con più misteri al mondo.  La cultura del complotto , delle trame oscure e degli intrighi di potere ha sempre affascinato la mente dell’italiano. Lo ammise lo stesso  ex-presidente della Repubblica Francesco Cossiga, scomparso il 17 agosto di tre anni fa.  Il Presidente Picconatore, dalle pagine del suo libro “La versione di K”,  rispondendo al politologo torinese , disse che effettivamente “ siamo sempre portati a cercare altre verità. Ma aspirare alla quadratura del cerchio fa si che spesso ombre riottose sfidino le leggi della percezione e affollino impazzite la scena fino a oscurarla del tutto”.

Tuttavia, nella vicenda più tragicomica delle spy storie europee , quella dell’affare Mukhtar Ablyazov  non c’è bisogno di nessun tipo di analisi dietrologica. Citando il giornalista de il fatto quotidiano Alessandro Robecchi, “la davantologia basta e avanza” . Non c’è nessuna trama di film di serie Z, nessun  intreccio, doppio o triplo che sia.  D’altronde è lo stesso Cossiga a spiegare che “ nonostante tutto questo Paese è sempre riuscito a evitare che la sua democrazia, per quanto malsana, si ammalasse del tutto”.  Purtroppo è quella insopportabile  “Ragione di stato” connessa a  quella disgraziata posizione geografica che ha condannato e condannerà sempre il nostro paese alla sudditanza e subalternità del dittatore/ potente di turno.

Quello che spesso viene scambiato per complotto, per trama oscura o , volgarmente, per dietrologia è la semplice storia del nostro paese.  La storia  “come il cauterio del chirurgo: brucia, ma risana” (Riccardo Bacchelli, Il mulino del Po, 1938/40) .

Tra me e me

Tra me e me pensavo che salvare oggi Angelino Alfano, oggi che dovrebbe essere il giorno della commemorazione di Paolo Borsellino con la sua versione rigida e univoca della giustizia, ecco, salvare oggi Alfano con i voti di quelli che hanno votato una coalizione per non avere più tra i piedi i berlusconismi con tutti i suoi servetti, insomma, farlo oggi che ricordiamo Paolo che ha compiuto l’errore di non accettare mediazioni non solo fuori dalla legge ma anche quelle inopportune, ecco, proprio oggi il rispetto dello Stato ci ha detto quanto è diverso da quello di Borsellino.

Se davvero abbiamo lo spazio

C’è sempre una strana sensazione quando mi capita di stare qualche ora in aeroporto, in attesa della coincidenza che non coincide o sotto il cavolo di un ritardo mentre ritarda: l’inadeguatezza alla moltitudine.
Potrebbe sembrare agorafobia ma è piuttosto una domanda. Se veramente ci stanno tutte queste preoccupazione, queste frette pestate con i piedi, queste speranze di un buon arrivo o che sia giusta la partenza e queste mani che cercano di tenere tutto insieme. Se c’è un Paese davvero che riesca ad avere lo spazio non solo fisico ma dico proprio nel “recinto sentimentale” di quello che siamo quando cerchiamo di darci un nome che ci indichi tutti insieme. Una cosa così. Che poi credo sia anche politica. Forse. Ci vediamo stasera, a Marsala.

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