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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Le parole sono importanti. Anche su twitter.

Ditelo al Presidente della Provincia di Milano, Guido Podestà, che ironizza su BR, volantini e il sindaco Pisapia riprendendo le parole de @ilsarcastico. Poi si scusa e (come sempre più spesso succede) parla di “errore tecnico”.

Fare rete è un bene comune

Mi ha colpito l’intervento di Cesare Del Frate sull’esperienza della Rete Ambientalista Pavese riportato da Claudio sul sito di NonMiFermo, per la chiarezza della finalità dello stare insieme. Dice Cesare la prima e più ovvia è quella di fare “massa critica”per avere maggiore potere negoziale nei confronti delle Istituzioni e maggiore visibilità presso l’opinione pubblica. Una seconda finalità è quella di condividere informazioni ed esperienze, per la crescita della consapevolezza, del know how e delle capacità di azione di ciascuno di noi imparando dagli esempi, dai successi e dagli errori degli altri. Il terzo ed ultimo obiettivo è quello di connettere le battaglie locali a una visione più ampia di sviluppo sostenibile (concetto spesso abusato o distorto): cosa ci aspettiamo per il nostro territorio e per il nostro Paese? Quale tipo di economia e di gestione di beni comuni preziosi quanto fragili? Per tutto questo la metafora da noi adottata della rete è da intendersi non in maniera statica bensì dinamica: è un “fare rete” perennemente in fieri che tesse relazioni fra associazioni, persone, idee, pratiche, esperienze, Istituzioni, conoscenze e progettualità. Il suo intervento completo lo trovate qui.

Camorra, ti sparerà in faccia la memoria

scritto per IL FATTO QUOTIDIANO

Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra.

La Camorra oggi é una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana.

I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato.

E’ oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche é caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi.

La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc; non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio.

Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili.

Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia “Siamo rimasti lontani dalla pace… abbiamo dimenticato il benessere… La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,… dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare… sono come assenzio e veleno”.

Don Peppe Diana 25 dicembre 1991

Che civiltà che sanguina dietro quattro colpi sparati dentro ad una chiesa. Esistono echi che non si riescono a scrivere nemmeno sbriciolando il dizionario delle parole peggiori. Quattro rintocchi di pistola alle 7.30 del 19 marzo 1994 sono un tamburo muto. Quattro buchi sparsi tra la faccia, la mano e la testa di un uomo che ha deciso fiero di non seguire ma attraversare la strada.

Ci sono paesi coltivati in giro per il mondo che rimangono appesi con la strada principale. Non importa che sia Emilia di nome o Domiziana, non importa nemmeno che sia a forma di strada o battuta con i sassi delle strade lisce come sassi. Ci sono paesi in giro per il mondo che rimangono ammuffiti per anni con una strada che vale per tutti, come se cominciasse ogni porta fuori dalla porta che è così per forza, così perché è sempre stato. Che è così e basta. Perché la strada non è solo una via buona per lo struscio, perché la strada è un modo, e il modo appena si abitua diventa stile, e appena lo stile marcisce diventa sistema. Il sistema. Ci sono paesi che la storia si dimentica nelle note a fondo pagina, condannati a non illudersi finché non succede che qualcuno per troppo amore quella strada non si mette ad attraversarla.

Raccontano gli angeli della memoria che Don Peppe Diana, quel giorno che si è messo in testa di raccontare a tutti come ci fosse un’altra via, dicono gli angeli che avesse la tranquillità e la luce degli esploratori. Mentre invitava con  un mezzo sorriso appoggiato sulla bocca che sarebbe bastato girare all’angolo della paura per la via della dignità.

Caro Don Peppe,
forse te l’eri anche immaginata questa sera tutta appiccicata del tuo ennesimo anniversario che profuma di vita. Perché io ti confesso che non ci avrei scommesso un soldo di provare e non riuscire nemmeno a raccontarti di sfioro qui a casa tua mentre mi si chiude la gola. Perché non riesco a spiegarmi questa agonia di giusti che possono essere raccontati solo dopo la pistola. Perché mi ci vorrebbe, questa sera, un cuore a forma di Don Peppino per non urlarmi che dovresti tanto esserci tu a slavare questa erba e mezzi muri dalla puzza e il disonore dei suoi padroni e della vergogna che l’ha concimata fino a ieri. Caro Don Peppe, chissà se non ti scapperebbe un brivido lungo e sottile ad annusare che profumo ha la tua Casale con il vestito della dignità.

Caro Don Peppe,
il re infame che ti ha fatto cercare nel corridoio di spari è inciampato in uno spigolo di gente che ha scelto di stare accampata sulla tua strada. Dovresti vederli, Don Peppe, che padroni in mutande sono i boss mentre cercano di tappare le bocche che ricominciano da dove ti avevano fermato.

Caro Don Peppe,
chissà se ci avevano mai pensato loro, i professionisti comici e molli della prepotenza e della paura, i pagliacci del ricatto, con i vestiti coordinati dai polsini eleganti, le scarpe lucide e le macchine potenti, mentre sfilano mimando male la potenza lasciando una scia di puzzo mischiato tra rifiuti, il sudore dei nascosti e l’odore della merda. Chissà se ci avranno mai pensato, Schiavone o Bidognetti, che sono passati anni e continuano a rimbalzare quei quattro spari. Quattro rintocchi che bisogna custodirli stretti perché a guardarli oggi un po’ più dall’alto hanno la forma di carezze che continuano a cantare. Chissà se non vi rimbalzano, a voi mandanti ed assassini, gli spari, l’eco e gli angoli di quella chiesa, se non vi rimbalzano in testa come una condanna a ritmo per il resto della vita. Quei quattro spari che vi sono tornati in faccia con la potenza della semplicità che Don Diana coltivava.

Caro Don Peppe,
io queste parole avrei voluto dirtele all’orecchio, in questo desiderio infantile e finalmente sano di chiederti di esserci comunque. Avrei voluto almeno vederti in faccia per come hai curvato gli occhi quando ti è arrivata la notizia fin lì che il tuo compleanno si festeggia nella casa restituita di Sandokan. Perché ci dovranno restituire tutto, Don Peppe, e noi senza mai farci passare questa fame.

Dovranno restituirci i muri, le terre, gli uomini e la dignità; finchè non gli verrà rificcata in gola la paura. Dovranno restituirci la bellezza che hanno scambiato per quattro monete al mercato  dell’intimidazione. Dovranno restituirci la libertà di alzare gli occhi, di sorridere, di credere e camminare. Dovranno restituirci questi anni in cattività che passiamo per proteggerci. Ci dovranno restituire il respiro incondizionato. Ci dovranno restituire i paesi quelli veri: con l’incrocio di strade da scegliere, costruire, osservare e attraversare.

Caro Don Peppe,
quei quattro spari, te lo giuro, sono diventati aghi: un inno a non avere paura e un mazzo di punte sulla schiena di chi c’era e chi è rimasto: Schiavone, Bidognetti, Iovine o Zagaria. Mi piacerebbe chiederlo a loro come pungono sull’unto della schiena, mi piacerebbe chiederlo a loro se lo sentono il rumore del loro onore che davanti a quattro spari anno dopo anno si sgretola.

Caro Don Peppe,
non ci avresti sperato che la tua morte potesse profumare di vita così tanto, così forte e così a lungo in un paese che finalmente sta imparando a ricordare.

Caro Don Peppe,
chissà come ti suonerà strano un accento così diverso per un ricordo che arriva come una lettera lunga mille chilometri. Di una vergogna lunga come una nazione che ci è venuta a prendere per zittirci e invece ha perso mentre ci ha portato ad abbracciare. Chissà se non trovi anche tu che in questo mare di mafie che si arrampica su una nazione alla fine ci ritroviamo come navi attraccati nei porti che non avremmo mai creduto di visitare.

Che civiltà che sanguina dietro quattro colpi sparati dentro ad una chiesa. Esistono echi che non si riescono a scrivere nemmeno sbriciolando il dizionario delle parole peggiori. Quattro rintocchi di pistola alle 7.30 del 19 marzo 1994 sono un tamburo muto. Quattro buchi sparsi tra la faccia, la mano e la testa di un uomo che ha deciso fiero di non seguire ma attraversare la strada. Un paese normale dovrebbe registrarli quei quattro spari per tenerseli in tasca a sanguinare. Una pistola per zittire è l’arma dei codardi, è un gioco da conigli, un trucco per maghi dilettanti.

Cara camorra,
ti sparerà la memoria. Ogni giorno, tutto il giorno. La memoria che si è accesa in quella sacrestia dove vi siete mangiati la carità.

Caro Don Peppe,
io per amore del mio popolo non tacerò. Continuerò a raccontare questa storia da raccontare. Continuerò a essere partigiano nella scelta della parte dove stare. Io non ci sto, anche con te ammazzato e con la scorta. Io mi vergogno di questa gente che non si vergogna, io mi vergogno di dovermi difendere per avere invocato un contrattacco con le armi bianche e la parola. Io mi vergogno di andare in tourné con un pubblico che mi spia. Io mi vergogno di doverti conoscere solo troppo tardi. Io mi vergogno delle orecchie e gli occhi che latitano, leggono e ascoltano di Michele Zagaria forse da Casapesenna. Io mi vergogno di questa paura incivile di fare i nomi.Noi sappiamo, abbiamo le prove, conosciamo i nomi. Questa sera avrei dovuto scrivere, parlare, raccontare. Su questa sedia seduta sotto la finestra della tua Casale, avrei voluto scrivere un abbraccio, trovare le parole. Ma questo nodo in gola non mi si riesce a musicare, questa aria gialla che mi prende in giro fino a venirmi ad annusare. Forse ci sono ricordi che non andrebbero nemmeno parlati, che sono pieni e leggeri come un velo sul cuore. Questa sera recito da muto da un giardino liberato dalla prostituzione. Vorrei un monologo stasera che non facesse nemmeno rumore. Vorrei dirtelo di persona, perché seduto, di fianco, sono sicuro che la vedi, questa sera, questa casa di letame e morte che, per un secondo, ti dedica un inchino.

(scritto per la chiusura del Festival dell’Impegno Civile a Casal di Principe, 2009 dal libro “Nomi cognomi e infami“)

L’amico di Formigoni

Roberto Formigoni è molto teso, domani incontrerà il suo amico di facebook Alessandro Casillo, fresco vincitore di Sanremo giovani. Così domani (nel giorno dell’ennesima mozione di sfiducia al Presidente del Consiglio Davide Boni e una mozione “calda” contro l’Assessore alla sanità Bresciani) ha decido di dedicarsi alle cose importanti: incontrare il giovane cantante per premiarlo a Palazzo Lombardia. A lanciare l’iniziativa sono stati gli stessi Formigoni e Casillo su Facebook: «Caro Ale – ha scritto Formigoni lo scorso 2 marzo – che grande gioia per tutti noi che amiamo la canzone italiana la tua vittoria sul mitico palco dell’Ariston. È tutto vero: il pubblico di Sanremo ha premiato il tuo talento artistico e la tua capacità di trasmettere emozioni a 1000. Anche la rete ha contribuito a valorizzare le tue doti musicali. Per questa ragione ho pensato di farti un invito social tramite Facebook: mi piacerebbe consegnarti a Palazzo Lombardia, sede della nostra Regione, il premio al merito davanti agli amici che ci seguono con affetto e ammirazione sul web».

Domani in aula proponiamo di occuparsi di Denise Cosco, la figlia della testimone di giustizia Lea Garofalo uccisa a Milano, sciolta nell’acido come negli incubi peggiori. E Formigoni sta con Casillo.

Quando dici le priorità e le differenze.

L’appello e la multiutility

Ne avevo già parlato qui, ne abbiamo discusso alla prima agorà di NonMiFermo a Milano e oggi Francesco Arcari rilancia sul neonato sito di NonMiFermo: anche oggi possiamo e vogliamo farlo, chiedendo un confronto diretto e sfidando le amministrazioni ad assumere decisioni negli organi elettivi, per partecipare e verificare come voterà ciascun eletto.

L’appello per fermare il processo di creazione della multiutility del Nord, ora è on line. In cinque giorni ha raccolto 2143 firme, tra cui molte adesioni di personalità della cultura, dello spettacolo e delle istituzioni (Dario Fo, Franca Rame, Moni Ovadia, Stefano Rodotà,  Elio e Mangoni  (Le storie tese),  Paolo Rossi,  Claudio Bisio, Daniele Silvestri, Paolo Jannacci, Ale e Franz, solo per citarne alcuni). E la mia.

L’appello è qui

Un mondo abitabile

Ogni giorno arrivano a Milano city-users in auto (ne entrano circa 800.000) in treno (320.000 persone ogni giorno in stazione centrale), in aereo (37 milioni di passeggeri l’anno) e con altri mezzi pubblici. Si stima che la popolazione diurna di Milano sia circa il doppio di quella residente. Da una parte la città dei residenti, invecchiati, un po’ impauriti e oppressi da problemi di congestione, inquinamento e abuso nei quartieri della movida, dall’altra la città-piattaforma delle funzioni dinamiche della Milano produttiva fatta di ricerca, finanza, moda, servizi avanzati, svago. Abitata questa da pendolari che faticano a raggiungerla nelle code interminabili di auto, nei treni malandati e nei bus spesso sovraffollati. È nella relazione fra queste due città che si gioca la questione dell’abitabilità: oggi la città-piattaforma schiaccia la città dei residenti. Occuparsi di abitabilità significa non pensare a progetti faraonici ma a ciò che può rendere la città accogliente, viva e in armonia, dando la casa ai giovani, ai lavoratori che fanno funzionare la macchina urbana, alle popolazioni temporanee. È necessario occuparsi degli spazi collettivi e dei luoghi della cultura che consentono l’incontro, del verde urbano, della valorizzazione delle aree agricole e naturali, della qualità dell’aria, delle forme e dei luoghi della mobilità, dei mezzi pubblici, della ciclabilità e di un uso delle auto non invasivo, dei servizi di welfare per la popolazione anziana e per l’accoglienza degli immigrati e delle nuove famiglie, di un decentramento vero di funzioni non marginali.

La riflessione di Alessandro Balducci apre una questione che sarebbe incosciente lasciare solo agli urbanisti: l’abitabilità del lavoro, l’abitabilità delle famiglie e l’abitabilità dei diritti e dei doveri sono il percorso obbligato per trovare lo slancio e costruire insieme. Perché l’accoglienza deve essere il nostro punto imprescindibile verso le elezioni che verranno e per gli amministratori che ci sono e che ci saranno. E l’accoglienza è l’ispiratrice di un momento che ci rende tutti migranti, nel passaggio di un’epoca che ha bisogno di reinventarsi e ha l’obbligo di essere includente. Lampedusa è anche nelle famiglie così difficili da costruire, nel lavoratore che rimane sempre più precario di quanto sia il suo lavoro e della famiglia che costa come un privilegio per pochi.

Ogni tanto mi piace pensare che partendo da qui, la Lombardia che ha innalzato i boriosi e gli spericolati a modelli di successo, l’inclusività diventi un punto di forza del nostro fare politica e si rompa il meccanismo che l’ha relegata tra le debolezze irrise dalla Lega e i suoi compari. Forti delle proprie fragilità, come scriveva qualcuno qualche millennio fa, e consapevoli. Un futuro abitabile perché attento ai meccanismi minori che determinano l’uguaglianza: e allora migrare sarà un viaggio verso il tempo che andiamo a prenderci.

Buttafuori per i gay

Succede a Luino ma succede ciclicamente in qualche città sparsa per l’Italia. Questa volta mentre stavano ballando “sono stati costretti a scendere, insultati, brutalmente pestati e infine allontanati dal locale. Su richiesta dei ragazzi sono intervenuti i carabinieri e al pronto soccorso dell’ospedale locale sono state prestate loro cure immediate”, come denuncia il presidente dell’Arcigay di Verbania Marco Coppola. Non stupisce il fatto che sia successo ancora quanto l’abitudine che sembra essere subentrata: qualche omosessuale pestato per strada o al ristorante è la notizia che non colpisce più e sta sotto le altre di cronaca di solito in un riquadro piccolo piccolo con la solita noiosissima foto dei due ragazzi abbracciati di spalle. Non mi importa se la questione nel comune sentire viene vissuta come una piccola disputa tra estremisti opposti (quante volte ho sentito dire “beh, anche loro però potrebbero non essere sempre così esibizionisti), per le strade dove è macho esporre il proprio essere protofascisti o sfanculare sorridendo i negri e i terroni: io questa cosa che rischi le botte per una tua idea o predisposizione legittima non so proprio come spiegarla ai miei figli. Non riesco a “normalizzare” il racconto per trovarci una logicità. E non riesco a capire perché crediamo sia normale che siano loro a doversi difendere il giorno dopo sui giornali come se non fosse una questione di convivenza e quindi di politica. Perché il dibattito sull’omofobia sembra scomparso ma la violenza no.

Il figlio di Provenzano che gioca alla verginella

Ma il figlio di Provenzano, dove vuole andare a parare? I figli dei mafiosi crescono. E crescono diversamente da come crescevano in passato. Vogliono essere intervistati. Escono allo scoperto, vanno in televisione, accettano il contraddittorio, lanciano appelli, si avventurano per strade mediatiche sconosciute, offrono la loro versione dei fatti, stabiliscono paragoni fra eventi lontani nel tempo, lasciano intendere di saperla lunga, si impongono all’attenzione dell’ opinione pubblica come gli insostituibili interlocutori di quanti sono alla ricerca della verità. O di quanti sono- istituzionalmente- preposti alla ricerca della verità. Se lo chiede Saverio Lodato e in fondo è la domanda che mi gironzola in testa in questi giorni: perché i figli dei mafiosi (e Bernardo Provenzano è la feccia tra quella schiera) hanno imparato portamenti civilissimi che chiedono solidarietà senza passare dalle scuse e senza sentire il dovere morale della dissociazione. “La mafia le fa schifo?” gli chiedeva la giornalista e lui con faccia televisiva ha risposto “tutti i tipi di violenza mi danno fastidio”. No, Angelo Provenzano, a noi fa schifo la mafia e fa schifo quello che tuo padre nella mafia è stato. Per l’analisi delle sue parole basta leggere Saverio qui.

Fanno politica per finta

Qualche giorno fa Roberto Maroni ci confessava beatamente che la Lega fingeva di essere xenofoba per racimolare voti ma che in fondo non ci credono troppo. Oggi Bossi ci dice che se il voto alle prossime amministrative andrà male torneranno con lo stesso Berlusconi con cui fingono di bisticciare un po’ dappertutto, Lombardia compresa. Sono all’opposizione per contarsi (dice Bossi) ma non ci credono molto: praticamente sono la stampella che finge di essere avversaria. Se fosse uno spettacolo teatrale Umberto Bossi e Roberto Maroni sarebbero i lestofanti che per tutta la serata stanno sulle palle a tutti gli spettatori ma si sopportano perché si sa bene che servono alla drammaturgia e allo svolgimento della storia. Invece siamo nel paese reale e la scenografia è un tracollo di diritti, di soldi, di speranze e di futuro e sembra una tragedia in 800 atti di cui non si vede la fine. Sarebbero anche da fischiare e cacciare a calci fuori dal palcoscenico – pensi – ma se escono i personaggi minori magari ci si accorge che in mezzo a tutti questi che fanno politica per finta ti sfugge chi ci sia per davvero. Senza recitazione, giochi di ruolo o trucchi populistici di chi mastica bene il mestiere. Dico: qualcuno che crede che la sua sia davvero una soluzione equa perché la crede equa e non perché è la soluzione che tiene buoni gli alleati, chi dice che le cause di questo disfacimento morale ce le ha bene in testa e non le lima per non sfiorare qualcuno dei suoi, chi ci dice  che vuole provare a costruire futuro in quella direzione perché è la strada per cui imbarcherebbe subito se stesso, la sua famiglia, i suoi figli.

E allora sicuramente Bossi (e molti altri) non avrebbero sempre quel sorriso di chi sa per certo che questo Monti è solo una pausa, piuttosto che la fine.

 

Il banchiere indignato

“In passato, la cultura aziendale era basata su lavoro di squadra, integrità e umiltà, ovvero i valori che hanno portato Goldman Sachs al successo, ma adesso non c’è più traccia di questi principi e l’ambiente è tossico e distruttivo come non si era mai visto”. Lo scrive Greg Smith nel suo editoriale per il NYTimes dove descrive le motivazioni che l’hanno spinto a licenziarsi dalla banca Goldman Sachs.


“Negli ultimi anni la società è cambiata molto: oggi mette da parte costantemente gli interessi del cliente per fare soldi, che è diventata l’unica preoccupazione dei vertici”, ha spiegato Smith, “l’obiettivo non è più guadagnare insieme al cliente, ma arricchirsi a ogni costo, anche a spese del cliente stesso”. La “questione morale” non è un giardino per litiganti di partito; la questione etica è la chiave della finanza e del lavoro in questi nostri anni. Oltre alla legge anti corruzione forse sarebbe il caso di pensare al favoreggiamento culturale alla corruttibilità, che si instilla e si perdona in nome della crisi. “Quando i libri di storia scriveranno di Goldman Sachs, diranno che durante il mandato dell’attuale amministratore delegato, Lloyd C. Blankfein, e del presidente, Gary Cohn, la cultura aziendale è andata persa”, ha avvertito Smith, prevedendo che “il declino dell’etica dell’istituto ne minaccerà l’esistenza”. Sarebbe bello sapere cosa ne pensa Monti.