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Hollywood applaude, Israele arresta: la replica di No Other Land è dal vivo

Nel giro di tre settimane, dal palco dorato degli Academy Awards a Los Angeles al perdere sangue fuori dalla porta di casa.

Uno dei quattro registi premiati con l’Oscar per il documentario No Other Land, il palestinese Hamdan Ballal, 33 anni, è stato linciato dai coloni israeliani a Susyia, uno dei 19 villaggi che compongono il circondario di Masafer Yatta, nei territori occupati della Cisgiordania, dove da vent’anni Israele strappa pezzi di terra con la violenza.

L’abitazione di Ballal, secondo le testimonianze, è stata attaccata da una ventina di coloni con il volto coperto e armati, che hanno iniziato a lanciare sassi e poi hanno pestato gli abitanti. Erano presenti anche i militari dell’Idf, l’esercito israeliano, che hanno aiutato i violenti sparando in aria e illuminando gli obiettivi. Dopo essere stato massacrato di botte, Ballal è stato arrestato. Nessuno dei suoi familiari sa dove sia detenuto. Con lui è stato arrestato Yuval Abraham, co-regista israeliano del documentario, e un minorenne, già rilasciato.

Il documentario No Other Land racconta la quotidianità dei 2.800 abitanti di questa zona, che da anni subiscono attacchi, incendi, violenze e devastazioni. Il pubblico degli Oscar si è inumidito gli occhi applaudendo la rappresentazione dell’oppressione. «Almeno il mondo non potrà dire che non sapeva quello che succede qui», dicevano gli abitanti dopo la premiazione.

E invece il mondo ha applaudito il film e poi ieri ha osservato la replica, dal vivo, con gli stessi protagonisti. Ma gli oppressi della commozione da sala buia non sanno che farsene, là fuori.

Buon martedì.

In foto, un frame del video di sorveglianza dell’abitazione di Ballal pubblicato su X dal giornalista israeliano Yuval Abraham che ha co-diretto e co-sceneggiato No Other Land

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La giustizia internazionale lo cerca, l’Italia lo ospita: il caso Al-Kikli

Abdul Ghani Al-Kikli (4), signore della guerra accusato di torture e omicidi, fotografato in un ospedale di Roma con Ammar Joma (1) – fratello di Adel Joma, Adel Jumaa Amer (2) – ministro di Stato per il PM e gli affari di gabinetto, Mohamed Ismail (3) – ex miliziano e alto funzionario finanziario, Ibrahim Ali Al-Dabaiba (5) – figlio di Ali Al-Dabaiba e potente broker politico, Abdul Basit Al-Badri (6) – ambasciatore libico in Giordania, Ahmed Al-Sharkasi (7) – parente del premier Dabaiba e membro del consiglio dell’Arab Bank, e Dagoor (8) – stretto collaboratore di Adel Jumaa

Un altro criminale di guerra libico si aggira liberamente in Italia. Dopo il caso di Mahmoud Almasri, adesso tocca ad Abdul Ghani Al-Kikli, noto signore della guerra di Tripoli, accusato di torture, sparizioni forzate e omicidi extragiudiziali. Lo denuncia l’account @RefugeesinLibya, pubblicando una foto che lo ritrae in una stanza dell’Ospedale Europeo di Roma, circondato da uomini chiave del governo libico di Abdul Hamid Dbeibah.

Al-Kikli, secondo alcune fonti, è nella lista dei ricercati della Corte penale internazionale, ma l’Italia, invece di collaborare con la giustizia internazionale, sembra offrirgli ospitalità. Non è il primo caso. Già con Almasri, accusato di traffico di esseri umani e crimini contro le persone migranti, il governo Meloni si era dimostrato più incline all’accoglienza dei carnefici che delle vittime. Il paradosso è che mentre l’esecutivo si vanta di aver trasformato l’Italia in una fortezza contro l’immigrazione, consente a chi di quell’immigrazione ha fatto un business sanguinario di muoversi indisturbato nel nostro Paese.

La foto pubblicata da @RefugeesinLibya non lascia spazio a interpretazioni: Al-Kikli è in Italia, ospite di un sistema che ignora la giustizia e i diritti umani. E se la comunità internazionale chiede risposte, da Roma si alza il solito silenzio complice.

Buon venerdì. 

 

Foto @RefugeesinLibya

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Meloni si rifugia nel mito nero per nascondere il vuoto

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni oggi si imbarca per Bruxelles senza il mandato del suo governo per votare il piano ReArm Europe voluto da von der Leyen. Non è un retroscena: lo ha detto chiaramente il capogruppo leghista alla Camera, Riccardo Molinari, e lo ha ribadito ieri pomeriggio il vicepresidente del Consiglio, Matteo Salvini.

Dopo aver detto a Bruxelles che il problema era solo un nome poco goloso – poiché per lei la politica è una continua rappresentazione – oggi Meloni deve riferire agli altri leader di Stato che la sua maggioranza è a pezzi, che i nodi sono venuti al pettine: troppi amici di Trump, troppi nemici dell’Europa, troppi nazionalismi spicci, troppi ex innamorati di Putin affastellano la sua compagine di governo.

È un fallimento politico enorme. L’Italia, quando non si tratta di cianciare di immigrati e minoranze, non riesce a trovare una quadra. Il governo italiano non ha una politica estera. Per nascondere il disastro, la capa del governo ha fatto ciò che sa fare meglio: fare leva sulla sua malinconia nera, infangando il manifesto di Ventotene per rassicurare la sua base (nera) e sollevare un polverone.

L’infingarda sceneggiata di ieri alla Camera è la trappola perfetta per opposizione e giornalisti. Sputando sulla storia, ha condito il vuoto pneumatico del governo con la polemica. Ma che alla premier non piaccia l’idea di Europa lo sappiamo da tempo. I sovranisti governano con piccoli cabotaggi nel mare ristretto delle loro idee locali. Per natura, sono incapaci di unioni di qualsiasi portata. È la loro natura.

Buon giovedì.

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Gaza, la farsa della tregua e il laboratorio dell’impunità

Gaza brucia ancora, come se la storia non fosse mai servita a niente. La tregua, una farsa utile ai governi per guadagnare tempo, si è dissolta nel fumo delle esplosioni. Netanyahu, sempre più prigioniero della sua stessa guerra, sacrifica tutto, ostaggi compresi, pur di non cedere alla realtà di un fallimento. E l’Europa L’Europa osserva, deplora, e nel frattempo fornisce a Israele il necessario per continuare la mattanza.

Il laboratorio Gaza dimostra che si può fare: si può assediare una popolazione fino a ridurla in macerie, si può condannare alla fame, si può violare una tregua senza pagare alcun prezzo politico. Una scuola di impunità, dove la legge internazionale è carta straccia e il diritto di autodeterminazione non vale per tutti. Non per i palestinesi, non per chi non rientra nella geografia della civiltà che l’Occidente si racconta.

Nel frattempo, a Gerusalemme, le famiglie degli ostaggi riempiono le piazze gridando quello che nessuno al potere vuole ammettere: Netanyahu non ha il mandato per sacrificarli. Ma non c’è spazio per i dubbi quando la sopravvivenza politica si misura in bombardamenti. Netanyahu lo sa e scommette tutto sulla guerra, mentre i cadaveri si accumulano e la comunità internazionale volta la testa dall’altra parte.

La grande illusione era pensare che tutto fosse finito. Ma chi vive sotto le bombe non ha mai avuto il privilegio di illudersi.

Buon mercoledì. 

 

Foto WC

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La tregua è finita, non restate in pace

La tregua era una tregua solo per chi non guardava abbastanza. Per chi poteva permettersi di dimenticare che ogni giorno a Gaza significava assedio, fame, sete, e il suono costante dei droni in cielo. Adesso non c’è neanche più quell’illusione: l’aviazione israeliana ha ripreso i bombardamenti con la forza promessa da Netanyahu e con la complicità di chi si affretta a giustificare l’orrore. Più di 300 morti nella prima notte, decine di bambini, le case che crollano come carta, gli ospedali che ormai non sono più niente se non fosse per i medici che restano, consapevoli che salvarne uno vuol dire condannarne altri mille per mancanza di tutto.

Netanyahu ha deciso che la guerra è più conveniente della pace. Serve a schiacciare l’opposizione interna, serve a negoziare meglio con gli Stati Uniti, serve a ridisegnare il futuro di Gaza con il linguaggio della forza. Hamas non rilascia gli ostaggi e la punizione collettiva diventa la dottrina ufficiale: colpire tutti, donne e bambini inclusi, per dimostrare che Israele non tollera resistenze. Il ministro della Difesa minaccia che “le porte dell’inferno si apriranno” su Gaza. L’inferno lo ha già visto chi ancora scava tra le macerie.

Dicono che non c’era scelta. Dicono che la responsabilità è solo di Hamas. Dicono tante cose. Intanto, gli stessi che parlano di diritto alla sicurezza di Israele guardano altrove mentre un popolo viene annientato con il consenso della comunità internazionale. La tregua è finita. Il massacro continua.

Buon martedì.

Foto AS

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“Più di quanto un essere umano possa sopportare”

L’orrore non si misura solo nel numero di vittime, ma nelle ferite incise sulla dignità umana. Il rapporto intitolato “More than a human can bear: Israel’s systematic use of sexual, reproductive and other forms of gender-based violence since 7 October 2023”, pubblicato il 13 marzo 2025 dalla Commissione d’Inchiesta indipendente delle Nazioni Unite su Israele e i territori occupati denuncia uno schema preciso: la violenza sessuale e di genere come arma di guerra. Oltre la distruzione fisica di Gaza, il documento svela un sistema di oppressione che si accanisce sui corpi delle donne, sulle loro scelte riproduttive, sulla loro stessa esistenza.

Il dossier descrive ospedali materni colpiti, accessi negati alle cure, donne costrette a partorire in condizioni medievali, mentre il cibo e l’acqua vengono usati come strumenti di sottomissione. E poi ci sono i racconti di violenze inflitte come forma di dominio, di umiliazione, di annientamento identitario. Il rapporto documenta casi di stupri, molestie sessuali e altre forme di violenza di genere perpetrate dalle forze di sicurezza israeliane e da coloni nei territori occupati. In particolare, denuncia episodi di violenza sessuale contro uomini e donne palestinesi durante arresti e detenzioni, sottolineando che questi atti sono stati filmati e diffusi come strumento di terrore psicologico. I numeri non sono meri dati: il rapporto documenta oltre 46.000 persone uccise a Gaza, di cui almeno 7.216 donne e un numero imprecisato di persone morte per complicazioni legate alla gravidanza e al parto. Sono la prova di una sistematica violazione del diritto internazionale, che avviene nel silenzio complice di chi dovrebbe garantire la giustizia.

Non si tratta di eccessi, ma di un metodo. Il rapporto afferma chiaramente: “gli attacchi alle strutture sanitarie e il blocco dell’accesso alle cure riproduttive fanno parte di una strategia deliberata di oppressione e controllo della popolazione palestinese”. Un metodo che utilizza la guerra non solo per uccidere, ma per lasciare cicatrici incancellabili su generazioni di palestinesi. Il rapporto lo dice chiaramente: questa non è una serie di episodi isolati, ma un sistema di oppressione consapevole e voluto. Il mondo, ancora una volta, è chiamato a scegliere tra la complicità e la denuncia.

Buon venerdì. 

 

Foto AS

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Guerra in Europa No, guerra nel Pd. E i soliti noti non vedono l’ora

E così, un mercoledì di metà marzo, il Partito democratico si scopre incapace di trattenersi dalla sua natura. A Bruxelles, il delicato voto sul faraonico progetto di riarmo (in ordine sparso) di Ursula von der Leyen è l’occasione per mettere in discussione la segreteria.

Persino il presidente del partito, Stefano Bonaccini, per la prima volta si schiera contro la linea ufficiale e rompe quello che finora era sembrato un patto di non belligeranza con Elly Schlein. Con lui ci sono Antonio Decaro, Giorgio Gori, Elisabetta Gualmini, Giuseppe Lupo, Pierfrancesco Maran, Alessandra Moretti, Pina Picierno, Irene Tinagli e Raffaele Topo.

La linea della segretaria era ed è chiara: la sicurezza europea è fondamentale, ma non può passare da una corsa alle armi di 27 singoli Stati, per di più a discapito del già fragile welfare europeo, impoverito da crisi e pandemia. La cosiddetta ala riformista risponde: «Non votare il piano ReArm Europe ci avrebbe isolati». La differenza tra isolarsi e distinguersi è sottile, e su quel crinale si gioca tutto lo scontro.

Verrebbe da pensare, più banalmente, che una componente del partito – la solita, da sempre – non vedesse l’ora di disconoscere una segretaria democraticamente eletta, in vista delle prossime elezioni del 2027. Non vedevano l’ora di farlo, e la guerra, si sa, è da sempre un’ottima occasione di polarizzazione.

Eccola, la nuova vecchia linea politica del partito: usare gli eventi del mondo per logorare la segreteria di turno. Di nuovo, eccoci qua.

Buon giovedì.

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Manifestazione europeista: più bandiere che idee

La politica italiana è riuscita ad attorcigliarsi intorno a una manifestazione proposta da Michele Serra «per l’Europa». L’editorialista di Repubblica, qualche giorno fa, ha lanciato l’idea di «una manifestazione di sole bandiere europee, che abbia come unico obiettivo […] la libertà e l’unità dei popoli europei, per dare almeno l’impressione che esista un’opinione pubblica che si sente europea e non vorrebbe morire stretta nella tenaglia Trump-Putin».

Il Partito democratico guidato da Elly Schlein ha dato la propria adesione, i partiti centristi che usano l’Europa come ritornello ne sono felicissimi e il quotidiano degli Elkann sta investendo molte pagine sull’evento. In effetti, a prima vista, sono molte le persone disposte a manifestare contro l’imperialismo trumpiano e «per la libertà e l’unità dei popoli europei».

Ci sono almeno due evidenti problemi. Il primo è che l’Europa di oggi è la stessa che stringe accordi con i tagliagole in Libia e in Tunisia, la stessa che protegge la democrazia illiberale di Orbán, la stessa che accompagna lo smantellamento del welfare e dei servizi pubblici, la stessa che sventola il riarmo come via primaria per il trionfo democratico.

Poi c’è la diversa Europa che hanno in mente i Socialisti rispetto ai Popolari, per non parlare dei Patrioti o dei Conservatori. Insomma, si manifesta per un’idea che conviene non approfondire per non dividersi. Quindi si manifesta per una sensazione, che ognuno declina diversamente. Basta saperlo.

Buon martedì.

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Urso frena (ma non troppo): il ddl spazio è un regalo per Musk

C’era una volta il sovranismo che difendeva i confini, la patria e il controllo nazionale. Poi, quando si tratta di spazio, le porte si spalancano e l’accoglienza diventa entusiastica, purché il beneficiario abbia il pedigree giusto: Elon Musk, il signore dei satelliti, il magnate che ha fatto della sua impronta planetaria un passe-partout anche per i governi più nazionalisti. Il disegno di legge sulla space economy, approvato alla Camera e in attesa del Senato, è la dimostrazione plastica di come l’ideologia ceda il passo agli interessi, specie quando sono intrecciati a quelli dell’uomo più ricco del mondo.

Il ministro Urso ha provato a frenare l’entusiasmo filo-Musk, ma il risultato è un compromesso che lascia più di una porta aperta. Il silenzio in aula, l’assenza di un confronto vero e la fretta con cui si è arrivati al voto parlano chiaro: l’Italia si appresta a diventare un hub strategico per Starlink senza che nessuno ponga reali condizioni. Il sovranismo, qui, si traduce in accondiscendenza.

Intanto, Fratelli d’Italia cerca di mantenere il punto, ostentando una difesa della sovranità tecnologica che suona più come una foglia di fico. Ma il malumore interno esiste, specie per quel dialogo con Eutelsat che fa storcere il naso ai fedelissimi di Musk. Andrea Stroppa, il suo emissario in Italia, ha già dettato la linea sui social: chi non si allinea, finisce nel mirino.

E mentre il governo parla di strategia spaziale nazionale, la realtà è un’altra: nessun vincolo chiaro, nessuna regia europea e un pezzo di industria italiana pronto a essere svenduto. Lo spazio, in fondo, è l’ultima frontiera del mercato. E anche del sovranismo a geometria variabile.

Buon venerdì. 

Foto WP

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Ustica non è un mistero, è una resa

Ci sono storie che il potere preferisce seppellire sotto il peso del tempo. La strage di Ustica è una di queste. La richiesta di archiviazione non cancella i fatti, ma certifica l’impotenza di uno Stato che ha scelto il silenzio come strategia politica.

Quarantacinque anni di menzogne, insabbiamenti, complicità internazionali. E oggi, ancora una volta, si chiude un fascicolo con la formula più vigliacca: non si può andare oltre per “mancanza di collaborazione”. Come se la verità fosse un bene di lusso concesso solo su gentile richiesta degli Stati alleati.

Le indagini hanno confermato quello che ormai è chiaro da decenni: la notte del 27 giugno 1980 nei cieli sopra Ustica si combatteva una guerra mai dichiarata. Il DC9 dell’Itavia non è esploso per un guasto o per una bomba interna, ma è stato abbattuto in un’operazione militare di cui l’Italia è stata vittima. I radar militari hanno registrato la presenza di caccia stranieri, le testimonianze si sono accumulate, le prove distrutte o sparite nel nulla. Eppure, nessun governo ha mai preteso risposte.

Cosa significa oggi archiviare Ustica Significa inchinarsi, ancora una volta, al ricatto della “ragion di Stato”. Significa accettare che 81 persone siano morte in nome di un equilibrio geopolitico che ancora oggi non può essere scosso. Significa dire ai familiari delle vittime che la loro battaglia per la verità è stata vana.

Servirebbe un sussulto. Un governo che non lotta per la verità è un governo che accetta di essere irrilevante. E l’Italia ha già subito abbastanza umiliazioni.

Buon giovedì.

 

Il relitto dell’areo al Museo della memoria di Bologna, fonte della foto wikipedia

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