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Meloni, il riarmo e il solito equilibrismo: dire e non dire, esserci e non esserci

Giorgia Meloni, di fronte al piano ReArm Europe, non prende posizione. O meglio, fa il possibile per non farlo. Sa che sfilarsi sarebbe impossibile, ma sposarlo apertamente significherebbe mettersi in rotta di collisione con Matteo Salvini, con la retorica sovranista americana e con un’opinione pubblica italiana che sul riarmo è tutt’altro che entusiasta. Così la presidente del Consiglio resta in bilico: evita di esprimere entusiasmo per il piano della Commissione, ma allo stesso tempo lo sostiene, pretendendo però ritocchi che diano l’illusione di una negoziazione.

La sua vera preoccupazione non è la difesa europea, ma la partita politica interna. Da un lato, vuole blindare l’alleanza con gli atlantisti di Forza Italia e garantire a Guido Crosetto il suo spazio sulla scena internazionale. Dall’altro, teme che la Lega possa cavalcare il tema del “debito per le armi” per rosicchiarle consensi. Così, tra un attacco a Salvini e una dichiarazione strategica sul rischio di avvantaggiare l’industria bellica francese, Meloni costruisce la sua solita narrativa: presente ma distante, ferma ma flessibile. In realtà, prigioniera di se stessa.

 

Buon mercoledì.

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Missione fallita

Dicevano che l’Ucraina avrebbe potuto sconfiggere l’esercito di Putin. Quando gli è stato fatto notare la follia del loro proposito, hanno risposto che una mancata difesa avrebbe piallato l’Ucraina – ed è vero – e che si trattava solo di guadagnare con le armi un’agevole posizione per trattare. Missione fallita.

Dicevano che gli Usa fossero stati e sarebbero stati il faro dell’Occidente, che l’Europa aveva come unico imperativo quello di stargli in scia, che ci avrebbero pensato loro. A chi faceva notare che la strategia dell’Unione europea cameriera dei desideri americani avrebbe portato all’irrilevanza, rispondevano che il patto atlantico (e la Nato) era inossidabile. Missione fallita.

Dicevano che la guerra in Ucraina avrebbe rafforzato l’Europa. Missione fallita. Dicevano che con Putin non bisognava trattare, al diavolo lui, le sue richieste e al diavolo tutti i russi del presente e del passato. Dicevano che bisognava combattere chiunque dialogasse con Putin. Missione fallita.

Dicevano che non era tempo di attivare la diplomazia con voce più alta delle armi perché sarebbe arrivato il momento buono, il momento giusto. Missione fallita. Dicevano che i sacrifici dei cittadini per le armi avrebbero garantito la solidità del multilateralismo e della democrazia occidentale. Missione fallita.

Molti di loro sono gli stessi che leccavano Putin, che sorridevano del suo lettone regalato a Silvio. Sono gli stessi che ora leccano Trump, perché riconoscono lo stesso odore. Hanno fallito su tutto, ora propongono di ripiegare sulle armi.

Buon lunedì.

In apertura, disegno di Marilena Nardi

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L’era dell’eversione internazionale

Donald Trump, dalla Casa Bianca, ha deciso che lui e il suo governo sono al di sopra della legge. Le leggi nazionali e, ancor di più, il diritto internazionale sono insignificanti se si oppongono a chi fa «il bene del Paese» ed è solo lui a decidere cosa sia il bene.

Trump e Putin, novelli campioni dell’autocrazia internazionale, si sono riuniti nella capitale mondiale delle plutocrazie per decidere quale sia la pace giusta per l’Ucraina: riabilitazione dell’imperialismo di Mosca, taglieggiamento dell’Ucraina, disarticolazione dell’Unione europea.

In Italia il governo vuole a gran voce la separazione delle carriere per la giustizia, spiegandoci che magistrati e giudici vanno troppo spesso troppo d’accordo. Sono troppo politicizzati, dicono. Ieri un giudice ha smentito le volontà di un magistrato e la separazione delle carriere è finita nel cesso. Giudice politicizzato pure lui.

Sul banco degli imputati c’è un sottosegretario condannato in primo grado per aver commesso un reato nello svolgimento delle sue funzioni. La sua difesa in tribunale ha spiegato che Delmastro non sapeva, per questo non è stato all’altezza. Meloni se ne frega: per lei il suo sottosegretario è innocente e questo ci dovrebbe bastare.

Nel frattempo Gaza è diventata uno scempio politico, oltre che umanitario. L’ultima proposta è di trasformarla in un parco dei divertimenti senza l’ombra di un palestinese. Intanto la verità è scomparsa: ognuno ha la sua, e chi ha più soldi possiede la più potente.

È il tempo dell’eversione internazionale.

Buon venerdì.

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Il governo non sa, non vede, non sente. Ma spia

In Italia alcuni giornalisti e attivisti (sette in tutto) sono stati spiati con uno spyware dell’azienda Paragon. I giornalisti e gli attivisti intercettati sono tutti identificabili come “avversi” al governo, nella logica da stadio che il governo stesso alimenta fin dal suo insediamento. Persone poco gradite e spiate.

Il governo nega qualsiasi responsabilità, dicendo di non saperne nulla. Gli spiati vengono avvisati da Meta, con un messaggio WhatsApp.

Il Guardian scrive che, in seguito a questo, Paragon Solutions ha stracciato il contratto con l’Italia. Netta la smentita pubblica giovedì 14 marzo: «Nessuno ha rescisso in questi giorni alcun contratto con l’intelligence». Non passano 24 ore e il 15 marzo invece viene comunicato lo stop.

Poi si scopre che lo spyware Graphite non sarebbe stato utilizzato solo dai servizi segreti, che si avvalgono dei più efficaci dispositivi sul mercato, ma anche da un’altra forza di polizia.

Tutte le forze di polizia smentiscono, tranne la Penitenziaria. I servizi – l’Aise – confermano di usarlo, ma non contro giornalisti e attivisti. Il Pd e Italia Viva chiedono al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, di confermare l’eventuale utilizzo dello spyware da parte delle procure e della polizia penitenziaria.

«Le uniche notizie divulgabili sulla vicenda Paragon sono già state fornite dal governo. Il resto non è divulgabile». Lo scrive il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai Servizi, Alfredo Mantovano.

Quindi niente question time. Non è possibile sapere.

Buon mercoledì.

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Funambola senza rete: Meloni oscilla tra Usa e Ue, ma nessuno si fida

Giorgia Meloni continua a muoversi su un filo sottile, oscillando tra fedeltà agli Stati Uniti e il tentativo di mantenere una parvenza di autonomia in Europa. Il vertice di Parigi lo ha dimostrato ancora una volta: da un lato, l’adesione all’aumento delle spese militari, un segnale lanciato a Washington; dall’altro, il rifiuto di discutere dell’invio di truppe in Ucraina, un gesto di prudenza che la allontana da Macron e dai “volenterosi” dell’Unione europea. 

L’equilibrismo, però, si sta rivelando sempre più una zavorra. La premier si ritrova in una posizione scomoda, costretta a rassicurare Trump, con cui condivide la diffidenza verso l’Unione europea, e a non irritare troppo i partner continentali, che guardano con sospetto la sua ambiguità. La sua strategia di evitare scelte nette rischia di tradursi in un isolamento doppio: non abbastanza allineata con i falchi europei, non abbastanza determinata per guadagnarsi un posto di rilievo nell’agenda di Washington. 

Meloni è una funambola su un filo sempre più sottile, con il rischio di precipitare nel vuoto. A Parigi ha cercato di tenere a bada Macron, senza però offrire alternative credibili. La sua prudenza sull’invio di truppe può sembrare buon senso, ma la verità è che non c’è nessuna strategia. L’Italia, in questa partita, non incide: annuisce agli Stati Uniti senza ottenere garanzie, si accoda alle decisioni europee senza influenzarle davvero. E così, mentre le alleanze si ridisegnano con una rapidità senza precedenti, Meloni resta impantanata in un’ambivalenza che non paga. Non a Bruxelles, non a Washington, non a Roma.

Buon martedì.

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Decreto Piantedosi: sette giri del mondo per sabotare i soccorsi

Quelli di Sos Méditerranée si sono messi a fare i conti. La loro nave Ocean Viking, che nel Mediterraneo salva le vite che qualcuno vorrebbe annegate senza troppo rumore, ha percorso 63.000 chilometri inutili. Chilometri figli del cosiddetto decreto Piantedosi, vergato con il solo scopo di sabotare il salvataggio in mare. In tutto, le navi delle Ong che operano nel Mediterraneo hanno dovuto percorrere 271.000 chilometri inutili. Sette volte il giro del mondo.

La direttrice generale Valeria Taurino spiega che «prima del Decreto Piantedosi, una nave come la nostra Ocean Viking era in grado di salvare in media 278 persone a missione» mentre nel 2023 «questo numero è sceso a 143 e, nel 2024, a 114» nonostante l’assetto operativo della nave non sia cambiato. In compenso si è speso un milione e trecentomila euro in più.

Poi ci sono i fermi amministrativi. «26 fermi amministrativi per le navi, per un totale di 640 giorni di stop in mare comminati, di cui 535 effettivamente scontati». Praticamente un anno e mezzo lontani dal mare, impigliati tra beghe amministrative quasi sempre smontate dai tribunali. In realtà, come spiega Taurino, «prolungare la permanenza di naufraghi a bordo di una nave è vietato espressamente dal diritto marittimo internazionale».

La Ocean Viking è stata multata per una deviazione di 15 miglia, 24,4 chilometri, percorsi per un allarme arrivato alla radio di bordo. Nel frattempo, in due anni di decreto Piantedosi, sono morte 4.225 persone. L’empietà può essere a forma di carta bollata

Buon giovedì.

In foto Ocean Viking di Daniel Leite Lacerda – http://volfegan.deviantart.com/art/Anchor-Handling-Ocean-Viking-216153190, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=26895208

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Ogni tribunale smentisce Piantedosi. Ma la persecuzione delle Ong continua

Ieri è successo, ancora. Ogni volta che un giudice, un qualsiasi giudice, deve decidere sulla legittimità delle sanzioni imposte alle navi che salvano le vite in mare si finisce con l’annullamento o la sospensione dei provvedimenti. Il cosiddetto decreto Cutro, che ha inventato il reato di troppo salvataggio per sabotare le Ong, è sostanzialmente illegale.

Ieri è stato annullato il fermo amministrativo della Sea-Watch 5, accusata di non aver chiesto il permesso alle autorità libiche prima di soccorrere persone in pericolo di vita nel settembre 2023, ed è stata sospesa una multa per Aurora, l’assetto veloce di Sea-Watch, che nel giugno del 2023 si rifiutò di raggiungere un porto troppo lontano scegliendo di tutelare la sicurezza delle persone soccorse.

Sea-Watch parla di “provvedimenti pretestuosi, privi di qualsiasi fondamento giuridico, pensati per scoraggiare, danneggiare e tenere lontane dal Mediterraneo centrale le navi della società civile”. Ci siamo abituati al gioco tetro del ministro Piantedosi di assegnare porti lontani alle navi di salvataggio per lasciare scoperto il Mediterraneo. Ci siamo abituati ai fermi e alle multe che piovono dopo ogni attracco. Ci siamo abituati alla voce dei tribunali che ripete sempre lo stesso concetto: quelle leggi sono illegali.

Un governo che si ostina a imporre leggi fuorilegge può avere solo un unico scopo, quello di puntare allo scoraggiamento come elemento deterrente per le operazioni umanitarie. Immaginate che fine farebbe un qualsiasi direttore in una qualsiasi azienda che si ostina a mettere regole irregolari.

Buon martedì.

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Se chiama il ministro, il bonifico è servito: truffati, ma servili

Alcuni tra i migliori imprenditori del Paese sono cascati come polli in una truffa architettata con l’aiuto dell’intelligenza artificiale. Per farla breve, un presunto collaboratore del ministro della Difesa Guido Crosetto avrebbe telefonato a Giorgio Armani, Marco Tronchetti Provera, Patrizio Bertelli, alle famiglie Caltagirone e Del Vecchio tra martedì e giovedì della scorsa settimana, chiedendo un bonifico urgente per liberare alcuni «giornalisti italiani rapiti in Medio Oriente». La voce del ministro sarebbe stata clonata o perfettamente imitata, risultando oltremodo verosimile. Almeno in due hanno pagato. Il bonifico è andato a buon fine.

C’è quindi un milione di euro che giace su conti esteri, che gli investigatori stanno cercando di congelare prima che finisca nelle mani dei malfattori. Il ministro in persona ha denunciato l’episodio. La Procura si muove.

Tacito accennava alla “cupiditas serviendi”, ovvero l’eterna “cupidigia del servire di cui l’essere umano è affetto”. Uno dei nodi di questa antipatica situazione risiede infatti nella celere disponibilità di un pezzo dell’imprenditoria italiana ad allargare i cordoni della borsa, mettendosi in allerta alla prima (finta) telefonata di un uomo di potere. Mi pare che in pochi stiano riflettendo sulla disponibilità a bonificare il potente di turno in nome di una non meglio precisata ragion di Stato, che prevederebbe pagamenti sommersi e immediati.

C’è un tema di promiscuità con il potere, oltre alla superficialità, che dovrebbe interrogare più della stessa truffa. Non sta accadendo.

Buon lunedì.

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Intanto l’Italia cola a picco

Mentre il governo si contorce tra le polemiche per il caso Almasri e per gli attivisti spiati dai servizi, l’Italia affonda. Non per modo di dire, ma con i numeri alla mano: l’Ufficio parlamentare di bilancio ha smentito le previsioni trionfali di Giorgetti, confermando che la crescita economica rimarrà sotto l’1% almeno fino al 2026. Dopo il +0,7% del 2024, si prevede un misero +0,8% nel 2025 e un +0,9% nel 2026, ben al di sotto delle stime del governo. Il divario tra le promesse e la realtà si amplia di quattro decimi rispetto alle previsioni del Piano strutturale di bilancio. Un’economia stagnante, intrappolata tra promesse elettorali irrealizzabili e una realtà che presenta il conto. E il peggio deve ancora arrivare: senza il traino del Pnrr, dopo il 2026 l’Italia rischia di ritrovarsi senza alcun paracadute.

Il dibattito pubblico è altrove. Si litiga sui voli di Stato, sulle faide interne ai partiti e su un’operazione di intelligence pasticciata che ha rispedito in Libia un trafficante di esseri umani accolto come un eroe. Ma c’è anche un Paese che si sta lentamente spegnendo, mentre il governo continua a insistere su previsioni di crescita ottimistiche che vengono puntualmente smentite. La guerra commerciale annunciata da Trump potrebbe peggiorare ulteriormente il quadro, con dazi che penalizzerebbero le esportazioni italiane, mentre il costo del gas, già elevato, potrebbe aggravarsi con l’inasprirsi delle tensioni geopolitiche. I

Si può ignorare la matematica per un po’, si possono raccontare favole di ripresa e resilienza. Ma alla fine i numeri tornano sempre.

Buon venerdì. 

In foto il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti

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Manco li cani

Niente segreto di Stato. In compenso ieri è andata in scena la menzogna di Stato, con il ministro Nordio nella parte del primo attore che è riuscito a infilare di fronte al Parlamento una serie di sfondoni giuridici e politici degni di un’interrogazione di diritto andata male alle scuole superiori.

Nordio spiega che Almasri è stato rilasciato perché ha ritenuto troppo vaghi i capi di accusa della Corte penale internazionale nei confronti del torturatore Almasri. Quindi, poiché il macellaio libico è stato ritenuto non pericoloso, è stato rilasciato. Ma è stato accompagnato a casa con un volo di Stato – che era pronto tre ore prima della decisione ufficiale del ministro – perché ritenuto troppo pericoloso. Anzi, si è deciso di accompagnarlo proprio tra le braccia festanti dei suoi colleghi, mezzi poliziotti e mezzi trafficanti, per umiliare completamente l’Italia agli occhi del mondo.

L’attrice protagonista di questa brutta storia, Giorgia Meloni, è rimasta fuori scena. Oscena come si direbbe letteralmente. Tra le quinte a spiare e sperare che tutto passi in fretta, confidando nella credibilità delle sue comparse. Missione fallita.

Era in scena invece la deputata meloniana Augusta Montaruli, che ospite nello studio di Tagadà su La7, ha pensato di silenziare il Dem Marco Furfaro abbaiando. Quello faceva notare che Fratelli d’Italia mandasse in televisione a discutere di giustizia una pregiudicata e la pregiudicata rispondeva ripetendo ossessivamente “bau bau”, con la faccia anche piuttosto divertita. La conduttrice è dovuta intervenire per ricordare che la situazione era seria. Invece è tragica, ma non seria.

Buon giovedì.

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