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Il piagnucolio degli assalitori della Cgil

Quelli che si offendono se vengono chiamati neofascisti ieri sono stati condannati a oltre 8 anni di reclusione per l’assalto alla sede della Cgil di Roma avvenuto durante una manifestazione contro il green pass del 9 ottobre di due anni fa e in aula  ieri alla lettura della sentenza si sono levate urla (come “La gente come noi non molla mai” inno nelle manifestazioni no vax) ma anche braccia tese per fare i saluti romani fascisti. C’è anche chi tra familiari e amici degli imputati ha gridato “mò famo la guerra”.

La condanna riguarda l leader di Forza Nuova Roberto Fiore e quello che a lungo è stato il suo braccio destro, Giuliano Castellino. Con loro anche Luigi Aronica, ex Nar, organizzazione terroristica neofascista. Agli imputati venivano contestati, a vario titolo, il danneggiamento aggravato, devastazione e saccheggio, violenza e resistenza a pubblico ufficiale. La sentenza, sottolinea il segretario della Cgil Maurizio Landini, “conferma che quell’azione non fu un semplice episodio di generica violenza di matrice fascista, bensì un vero e proprio assalto alla casa dei lavoratori e al sindacato che li rappresenta”.

Forza Nuova in una nota parla di “sentenza politica” e lamenta di essere bloccata alla corse per le prossime elezioni europee. Peccato che la formazione neofascista non compaia nemmeno nelle rilevazioni grazie alle sue percentuali che non sfiorano nemmeno l’1%. Però non hanno tutti i torti: ogni condanna che riguarda manifestazioni di violenza di matrice neofasciste ha una forte valenza politica. Anzi, di più: ha a che fare con la Costituzione. 

Buon giovedì. 

Foto Collettiva Cgil

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La fame usata come arma

Il governo israeliano sta usando la fame dei civili come metodo di guerra nella Striscia di Gaza occupata, che è un crimine di guerra, ha detto oggi Human Rights Watch. Le forze israeliane stanno deliberatamente bloccando la consegna di acqua, cibo e carburante, mentre impediscono intenzionalmente l’assistenza umanitaria, apparentemente radendo al suolo le aree agricole e privando la popolazione civile di oggetti indispensabili per la loro sopravvivenza.

Lo afferma un rapporto di Human Rights Watch (Hrw) sottolineando come si tratti di un crimine di guerra secondo il diritto internazionale. Un orrendo crimine di guerra, verrebbe da aggiungere. Da quando i combattenti guidati da Hamas hanno attaccato Israele il 7 ottobre 2023, alti funzionari israeliani, tra cui il ministro della Difesa Yoav Gallant, il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir e il ministro dell’Energia Israel Katz hanno fatto dichiarazioni pubbliche esprimendo il loro obiettivo di privare i civili a Gaza di cibo, acqua e carburante: dichiarazioni che riflettono la politica condotta dalle forze israeliane. Altri funzionari israeliani hanno dichiarato pubblicamente che gli aiuti umanitari a Gaza sarebbero condizionati o al rilascio di ostaggi detenuti illegalmente da Hamas o alla distruzione di Hamas. 

“Per oltre due mesi, Israele ha privato la popolazione di Gaza di cibo e acqua, una politica stimolata o approvata da alti funzionari israeliani e che riflette l’intenzione di affamare i civili come metodo di guerra”, ha detto Omar Shakir, direttore di Israele e Palestina di Human Rights Watch.

Buon martedì. 

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Per fortuna muoiono lontani dalle nostre spiagge

Non procureranno il dolore simulato e obbligatorio come ai tempi di Steccato di Cutro i 61 morti al largo della Libia. Da quelle parti il Mediterraneo non è sentito come mare nostro, possiamo fottercene. 

Mentre a Roma stringono accordi con l’Albania (bloccati dalla Corte costituzionale albanese), con la Tunisia (anche se non se ne parla più) e ora con la Gran Bretagna almeno 61 migranti sabato sono morti nel naufragio di un gommone al largo delle coste della Libia. Secondo le prime ricostruzioni a bordo del gommone partito c’erano 86 persone, anche donne e bambini, alla deriva da almeno giovedì 14 dicembre. A dare la notizia l’agenzia delle Nazioni Unite, l’Organizzazione Internazionale per le migrazioni (Iom).

Il gommone si sarebbe ribaltato sabato a causa del mare grosso, con onde alte fino a tre metri che non inducono gli scafisti a rallentare le partenze. Secondo il giornalista di Radio Radicale Sergio Scandura  l’area di mare in cui si trovava il gommone sarebbe stata sorvolata da diversi aerei dell’agenzia di frontiera dell’Unione Europea Frontex mentre la Guardia Costiera aveva diramato un’allerta per un gommone al largo delle coste libiche. E l’imbarcazione era alla deriva almeno da giovedì. Si sono salvate 25 persone, i superstiti che hanno raccontato che a bordo del gommone c’erano 86 persone. Si tratta di una delle stragi più gravi degli ultimi anni.

Ma per fortuna sono morti abbastanza lontani per non sanguinare nei nostri salotti. Quindi la notizia si può nascondere nelle pagine degli Esteri, come se non fosse cosa nostra.

Buon lunedì. 

Nella foto: i resti di un gommone naufragato vicino allo stretto di Gibilterra (adobe stock)

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Gino Cecchettin e quel funerale che parla del futuro

Nel 1960 la Scat, l’azienda che si occupava dei trasporti pubblici catanesi, decise di raddoppiare i bus della linea 27 che partivano da piazza Duomo e arrivava fino alla zona industriale della città. Uno dei bus lo chiamavano “Concettina” ed era per le operaie mentre l’altro era detto “coi baffi” e serviva per gli uomini. Parve quella l’unica soluzione possibile per evitare le molestie troppo frequenti contro le donne. Cinque anni dopo il nipote del boss di Alcamo Vincenzo Rimi, Filippo Melodia, decise di prendersi con la forza Franca Viola confidando nel fatto che dopo averla violata sarebbe stata sua. Non fu così. Franca denunciò il suo violentatore e il padre Bernardo divenne il simbolo del maschio che decide di mettersi contro il maschile che era stato fin lì. 

Ieri Gino Cecchettin ha messo in fila le responsabilità che concimano i femminicidi come quello di sua figlia Giulia. L’ha fatto con tono e parole misurate, una spilla rossa aggrappata sulla giacca e con il coraggio di trasformare un lutto personale in una lezione universale. Il suo discorso a Padova dove si sono celebrati i funerali è uno degli atti politici più potenti di questi ultimi anni. Cecchettin ha sfidato il patriarcato e i maschi conservatori terrorizzati di essere scippati. Come Bernardo Viola anche Gino Cecchettin cova la speranza di riformare la cultura di un genere. 

Quando ricorderemo questo funerale che parla al futuro non potremmo non pensare che là dove si faceva la politica gli unici politici presenti siano stati il presidente veneto Zaia e il ministro alla Giustizia Nordio. Niente Meloni, non Schlein, non Conte, non la ministra Roccella, non gli altri leader di partito. Chissà se ci saranno oggi. 

Buon mercoledì. 

 

In foto Gino Cecchettin, con i figli Elena e Davide, frame da video tv

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Giulia, «mia»

«Non accettavo che lei non fosse più mia». Altro che i biscotti, altro che il padre in tivù per lamentarsi che suo figlio venga diffamato perché indicato come assassino reo confesso com’è, altro che le lacrime, altro che gli articoli per sapere che libri vorrebbe in cella, altro che i rabdomanti di sangue sui marciapiedi, altro che la piscomagia del raptus: se c’è una frase su cui dibattere dell’interrogatorio di Filippo Turetta che ha ammazzato Giulia Cecchettin è questa: «non accettavo che lei non fosse più mia»

«Mia» come lo sono le cose che teniamo nel cassetto porta oggetti dell’auto. «Mia» perché possesso. «Mia» perché l’autonomia delle donne è un tradimento all’atavico patto che le donne debbano stare al loro posto, che spesso non è loro ma di qualche uomo che glielo concede. 

Quali siano gli strascichi giudiziari del processo sul femminicidio di Giulia Cecchettin, a quanto ammonterà la condanna e che forma avrà la strategia difensiva è una piega della vicenda che ha poco a che vedere con quello che dovrebbe interessarci sui femminicidi come danni collaterali del patriarcato legittimato.

La discussione politica (già sopita come accade agli emendamenti di una legge di Bilancio) e la discussione culturale (egemonia di maschi impauriti) dovrebbe convergere su quel «mia» esalato dalla bocca di quasi tutti i femminicidi. Ma è una riflessione che non accadrà perché smentisce le radici delle scemenze ascoltate in queste settimane. Ogni femminicidio è premeditato perché sedimentato da una cultura che opprime e sopprime anche quando non uccide. Altro che biscotti. 

Buon lunedì. 

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Elena Cecchettin ha stanato il lupo

In una tempo di panpenalismo di propaganda che consiste nell’aumentare tutti i reati che non potrebbero mai essere commessi dal proprio elettorato il governo di Giorgia Meloni ha dimenticato di considerare il reato più grave e culturalmente devastante: la violenza di Stato.

Avrebbe così potuto osservare con occhi diversi gli accadimenti di queste ultime ore in cui famelici maschi si stanno buttando sul corpo di Elena Cecchettin, sorella di quella Giulia ammazzata da Filippo Turetta come è già accaduto altre 104 volte quest’anno in Italia e come accadrà ancora prima della fine dell’anno. Elena ha scelto di dismettere i panni della donna addolorata così rassicurante per le società patriarcali – zitta e buona – puntando il dito contro il mandante storico e culturale che c’è dietro ogni femminicidio: il possesso che sfocia nel controllo poi nella prevaricazione e infine nell’ammazzamento. 

Non accettando di stare al suo posto Elena Cecchettin ha rinunciato al ruolo assegnato al suo genere (rassicurare) e ha deciso di occupare spazio (in questo caso mediatico) che taluni maschi vivono come uno scippo. Il consigliere regionale leghista che in Veneto dice di vedere negli occhi, negli abiti e nelle felpe di Elena Cecchetin addirittura il diavolo semplicemente non si è trattenuto dal dire quello che molti pensano. In giro sui social i maschi arruolati nell’esercito della fallocrazia strepitano contro Elena Cecchettin rivendicando che “non tutti i maschi sono così” adottando le stesse logiche violente dei maschi così: Elena Cecchettin ha stanato il lupo. Ben fatto. 

Buon martedì. 

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Il balletto sullo sciopero non fa ridere

Qualche settimana fa incautamente sono rimasto coinvolto in una discussione sugli scioperi. Ero all’interno di un bar, di mattina, quando gli avventori sono particolarmente inclini a vergare ognuno il proprio editoriale verbale sui fatti del giorno. Tra i presenti, manco a dirlo, andava molto forte l teoria che «questi scioperano sempre il venerdì così hanno il week end lungo». La strampalata teoria (cresciuta con cura del fu ministro Brunetta) è talmente stupida che non poteva non diventare immediatamente popolare. 

Ho spiegato, per quel poco che so per il lavoro che faccio, che la scelta del venerdì come giorno di sciopero è funzionale alla sua partecipazione. «Ma crea disagi», dice uno di loro. Lo sciopero che non crea disagio è un altro mito di questa epoca che in nome della “normalizzazione” vuole eliminare il diritto al conflitto. Lo sciopero omeopatico senza disagi è l’invenzione di chi vorrebbe i lavoratori buoni, i sindacati a cuccia, il popolo silente e concentrato a non piangere perché le sue lacrime fanno male al Re. 

Sullo sciopero da qualche tempo il ministro Matteo Salvini ha deciso di allenarsi a fare l’uomo forte, parte che lo rende spesso ridicolo e fuori dalle regole. Così mentre aspetta di posare la prima pietra del Ponte che vorrebbe come suo mausoleo ha deciso di intestarsi la guerra agli scioperi e ai sindacati. Anzi, lui indica loro due come obiettivi ma non ci vuole troppo a capire che i suoi veri nemici siano i lavoratori non addomesticati. 

Per la prima volta nella storia repubblicana uno sciopero generale confederale viene considerato illegittimo. Detto così può fare sorridere ma in questa storia c’è un germe nerissimo.

Buon martedì. 

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Come va la guerra Male, come tutte le guerre

Com’è andata la conferenza di Parigi sugli aiuti a Gaza che si è tenuta ieri? Male, non è riuscita, ad oltre 1 mese dall’inizio del conflitto, a centrare quello che era l’unico vero obiettivo: chiedere un immediato cessate il fuoco.

Lo spiega bene Oxfam: “Sebbene gli sforzi diplomatici del presidente francese Macron per aiutare i civili palestinesi siano da apprezzare, i risultati della conferenza sono deludenti. La mancanza di un forte appello per un immediato cessate il fuoco, mina lo scopo stesso di questo incontro, riducendolo a un mero gesto simbolico. – sottolinea Paolo Pezzati, portavoce per le crisi umanitarie di Oxfam Italia –. Bisogna salvare la vita dei civili e intervenire con gli aiuti quanto prima possibile. Aiuti che al momento è pressoché impossibile distribuire per via degli intensi bombardamenti e delle vie di comunicazione interrotte”.

La situazione a Gaza in queste ore è catastrofica. Milioni di civili sono allo stremo e stanno subendo una punizione collettiva: in media un bambino rimane ucciso ogni 10 minuti e interi quartieri sono ridotti in macerie. Tre quarti della popolazione è stata costretta a fuggire dalle proprie case, circa 1,5 milioni di persone. Sono oltre 10.569 le vittime, tra cui 7.081 donne e bambini; 2.450 persone, di cui 1.350 bambini, risultano disperse e potrebbero essere ancora intrappolate o morte sotto le macerie. 

Oxfam è chiara: Israele come “potenza occupante”, secondo il diritto umanitario internazionale, ha l’obbligo legale di garantire il benessere della popolazione di Gaza, compresa la fornitura di aiuti.

Buon venerdì. 

foto del giornalista Motaz Azaiza che da più di un mese sta coraggiosamente documentando quel che accade a Gaza follow @azaizamotaz9

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Sibilla Barbieri e la tortura di Stato

“Per anni Sibilla si è battuta per vivere, poi ha scelto l’aiuto del figlio Vittorio, accettando la sua richiesta di accompagnarla, con coraggio, anche rispetto alle conseguenze che potrebbero esserci per lui. Non è possibile interpretare in modo diverso la sentenza della Consulta: Sibilla era dipendente da trattamenti di sostegno vitale, quindi negarle quel diritto ad autodeterminarsi è stata una violenza di Stato”: sono le parole di Marco Cappato che ieri si è autodenunciato per l’assistenza al suicidio offerto a Sibilla Barbieri, paziente oncologica terminale costretta ad andare in Svizzera perché in Italia le era stato negato il diritto al suicidio assistito. Ad autodenunciarsi è stato anche il figlio di Sibilla Barbieri, Vittorio Parpaglioni, insieme a Marco Perduca dell’Associazione Coscioni. 

Durante la conferenza stampa hanno ricordato come Barbieri avesse i requisiti per l’aiuto medico alla morte volontaria previsti dalla sentenza Cappato – Antoniani (ovvero, che la persona sia capace di autodeterminarsi, sia affetta da patologia irreversibile, che tale malattia sia fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che la persona reputi intollerabili e che sia dipendente da trattamenti di sostegno vitale). Proprio per questo hanno deciso di presentare due esposti contro l’Asl della regione Lazio, per chiedere di verificare se nei protocolli e nelle procedure possano ravvisarsi reati. “Per noi si configura anche il reato di tortura“, ha spiegato Filomena Gallo, segretaria dell’associazione Coscioni.

Uno Stato che decide di non decidere, sulla pelle dei malati.

Buon mercoledì. 

Nella foto: Sibilla Barbieri, frame del video-appello dalla pagina fb Liberi fino alla fine

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Più “posto fisso” che premierato

Oggi in Consiglio dei ministri arriva il premierato che vuole la presidente del Consiglio Giorgia Meloni insieme ai suoi alleati. Lo chiamano “premieratino” perché non è un presidenzialismo e non è un semi presidenzialismo. Così la riforma nasce con il nomignolo diminutivo che ne certifica la portata e le aspirazioni.

L’aspirazione – una, solo una – è semplicemente l’auto preservazione, come sempre. Si vorrebbe vincolare il voto degli elettori sulla scheda elettorale ancora meno al programma della coalizione, ancora meno a una reale alleanza politica e sempre di più al marketing di un nome: il “nome forte”, il sogno di tutti i politici che vivono la sensazione della cresta dell’onda. Il testo vuole inserire in Costituzione anche la formula per l’elezione di candidati e liste di partiti, assicurando un premio di maggioranza del 55 per cento dei seggi alla coalizione vincente.

Il “nome forte” non corre più il rischio di vedersi revocato qualche ministro del suo governo dal presidente della Repubblica, il “nome forte” si garantisce di fatto cinque anni di governo e il “nome forte” pensa con questa riforma di non correre più il rischio di essere travolto da un rimpasto di governo, ancor di più da un governo tecnico.

Il mito della “governabilità” ottenuta da grimaldelli costituzionali e non dal radicamento dei partiti, dall’autorevolezza degli eletti e dal faticoso lavoro di mediazione che richiede governare è un ulteriore colpo al Parlamento (nella sua funzione di “cuore” di un governo) e degli elettori che sarebbero chiamati a esprimere un governo indifferente alla volatilità del consenso. 

La potrebbe chiamare la riforma del “posto fisso”, per il premier, nell’epoca precarietà per tutti gli altri. 

Buon venerdì. 

Nella foto: la presidente del Consiglio Meloni al Senato, 25 ottobre 2023 (governo.it)

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