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Giù le mani dal concorso esterno: pure De Lucia smonta la riforma Nordio

Ahi maledetta Commissione parlamentare Antimafia, foriera di tanti dispiaceri! Mentre la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro alla Giustizia Carlo Nordio sminuiscono qualsiasi osservazione sulla preannunciata riforma della giustizia come “male lingue” il procuratore capo di Palermo Maurizio De Lucia audito dalla commissione presieduta dalla melonianissima presidente Chiara Colosimo (Fratelli d’Italia) smonta pezzo per pezzo la narrazione del governo.

La relazione di De Lucia

Si comincia con le odiosissime intercettazioni, strumento di indagine che proprio il ministro Nordio aveva definito poco utile perché, a suo dire, “i mafiosi non parlano al telefono”. De Lucia spiega che “le intercettazioni sono, nelle loro varie forme, uno strumento decisivo nella lotta alla criminalità organizzata. Perché ‘organizzazione’ vuol dire comunicazione, i mafiosi parlano tra di loro ed è indispensabile cercare di entrare all’interno dell’organizzazione ascoltando le loro comunicazioni”.

Anzi, secondo il procuratore di Palermo – che di mafiosi ne “ascolta” parecchi per mestiere – più che occuparsi di svilire le intercettazioni bisognerebbe preoccuparsi del fatto che “in questo momento – dice De Lucia – il meccanismo delle intercettazioni ci pone in ritardo rispetto alle forme di comunicazione che usano le mafie. Le mafie usano piattaforme criptate, rispetto alle quali noi siamo in ritardo. Quindi c’è un problema tecnologico ancor prima che normativo”.

Non solo: “L’importanza delle intercettazioni in tema di criminalità organizzata è tale che non posso immaginare una riforma in senso limitativo di questo strumento”, spiega De Lucia. Con buona pace di chi ne ha parlato senza la benché minima contezza del fenomeno mafioso. Il procuratore ha ribadito che “tutto quello che è stato fatto contro le mafia – ha aggiunto – è stato fatto con l’uso e il rispetto delle leggi”, a proposito degli “abusi” che vengono sventolati ogni volta.

Anche sui collaboratori di giustizia (volgarmente detti pentiti) il procuratore De Lucia ci tiene a precisare che sono “determinanti” per l’azione antimafiosa. Due elementi elenca De Lucia: collaboratori di giustizia e intercettazioni. A chi fa comodo indebolire questi due strumenti è presto detto: ai mafiosi. Il procuratore di Palermo, rispondendo a una domanda, ha anche spiegato che i “trojan” sono uno strumento “invasivo” ma irrinunciabile “specie in una situazione in cui il fenomeno della corruzione si manifesta come davvero pervasivo e importante”.

Il reato di concorso esterno

De Lucia è intervenuto anche sul reato di concorso esterno, che – sempre per bocca del ministro Nordio – è tornato in discussione: “Lo strumento del concorso esterno in associazione mafiosa, siccome è oggettivamente delicato, può essere oggetto di una riflessione” ma “è assai difficile immaginare di non ricorrere più a uno strumento che esiste dal 1930 e che si è rivelato uno strumento utile e corretto per colpire disvalori”, risponde De Lucia.

“È possibile rivisitare l’area applicativa ma solo per individuare forme più tipizzate. Quanto ad altre forme di riesame e all’abolizione tout court dell’istituto mi pare difficile”, dice De Lucia. Saranno scontenti coloro che vedevano all’orizzonte addirittura un’abolizione. Al procuratore di Palermo è toccato pure il compito di ricordare che “Cosa Nostra ora si è indebolita, ma è tutt’altro che sconfitta, e anzi in questo momento di debolezza cerca di ristrutturarsi per mezzo, tra le altre cose, della ricerca di nuovi capitali”. Con una precisazione importante: Messina Denaro non era “il capo” di Cosa nostra, nonostante sia stato “mitizzato”. Anche perché la mafia ha bisogno di un vertice, più di un capo.

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Quest’ultimo Primo maggio

Racconteremo questo ultimo Primo maggio come quello in cui il governo si è schiantato contro i sindacati, mica il contrario. Con un po’ di memoria potremo anche ricordarci che l’attacco ai sindacati come posizionamento politico è una pratica che negli ultimi anni è stata adottata anche da presunti leader di presunta centrosinistra. Non è roba nuova. Giorgia Meloni e compagnia semplicemente ci ha aggiunto quella punta di vittimismo che è l’additivo che non manca mai del suo fare politica, caratteristica fondante dell’azione di questo governo che mostra nemici dappertutto per farsi perdonare degli errori che sa già di compiere in futuro.

Racconteremo questo ultimo Primo maggio come l’ennesimo in cui una fetta della stampa (anche quella che si autodefinisce progressista) si è strizzata tutto l’anno per raccogliere le lagne id imprenditori che invocano il mercato quando guadagnano e accusano la politica quando non sono capaci di stare sul mercato. Un movimento nazionale che inorridisce di fronte a gente che rivendica i diritti e rifiuta salari da fame. Ristoratori, imprenditori, bacchette televisive che scorrazzano sui media invocando il dovere alla “fatica” e allo sfruttamento almeno con i giovani. Non è roba nuova. Con un po’ di memoria potremo anche ricordarci che il dovere alla fatica dei giovani come posizionamento politico è una pratica che negli ultimi anni è stata. adottata anche da presunti leader di presunta centrosinistra.

Racconteremo questo ultimo Primo maggio per un governo che vorrebbe spedire i giovani a lavorare nei campi in nome della difesa della Patria e non è riuscito a convincere i suoi parlamentari di maggioranza a rinunciare al ponte delle vacanze, andando sotto in Parlamento. È un contrappasso violento che squarcia l’ipocrisia di gente che non ha mai lavorato e che discetta di lavoro. Gente che lavora il Primo maggio per martellare il lavoro come ha fatto finta di essere antifascista il 25 aprile per logorare i suoi alleati. Una mendacia continua, sottopelle, che vorrebbe normalizzarsi per comparire.

Buon Primo maggio ai professionisti, invece. Coloro che professano i propri valori nel proprio mestiere.

Buon lunedì.

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Non hanno nemmeno il coraggio di fare i razzisti

Ci siamo. Il cosiddetto decreto Cutro, quell’abominio giuridico che il governo Meloni ha partorito con i cadaveri ancora caldi a pochi metri che la presidente del Consiglio e i suoi ministri non hanno avuto il tempo di onorare per correre a cantare al karaoke della festa a sorpresa per il compleanno di Matteo Salvini. Il disegno è chiaro: costruire un Cpr (centri di permanenza che in realtà sono centri illegali di detenzione) in ogni Regione per “normalizzare” l’illegalità; velocizzare i rimpatri per fottersene ancora di più dei diritti calpestati sulle domande d’asilo; cancellare fieramente la “protezione speciale”.

Poiché Giorgia Meloni vorrebbe apparire una xenofoba di “buon senso” (è il trucco per fingersi non razzisti) ci ha spiegato che «la protezione speciale è una protezione ulteriore rispetto a quello che accade nel resto d’Europa» durante la sua visita in Etiopia. Falsissimo. La protezione speciale può essere assegnata (art. 19) a un migrante se ci sono «fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare». Questa parte della legge è stata eliminata con il decreto Cutro.

Come spiega il sito Pagella Politica “Eurostat, l’ufficio statistico dell’Ue, raccoglie periodicamente i dati sugli esiti delle richieste d’asilo nei 27 Stati membri. Secondo i dati più aggiornati, nel 2022 almeno 11 Paesi europei, tra cui Germania e Spagna, avevano riconosciuto una forma di protezione per «motivi umanitari», in aggiunta allo status di rifugiato e alla protezione sussidiaria. È in questa categoria che rientrano i dati delle protezioni speciali assegnate dall’Italia, che fino al 2018 concedeva la protezione umanitaria (poi sostituita da quella speciale), eliminata dal primo governo di Giuseppe Conte, sostenuto da Lega e Movimento 5 stelle. Curiosità: anche all’epoca vari esponenti del governo avevano difeso l’eliminazione della protezione umanitaria dicendo che esisteva solo in Italia. Come avevamo spiegato, non era vero. Meloni, all’epoca all’opposizione, aveva fatto dichiarazioni simili.  Nel 2022, per esempio, la Germania ha concesso oltre 30 mila protezioni per ragioni umanitarie e la Spagna quasi 21 mila. L’Italia ha invece riconosciuto quasi 11 mila forme di protezione speciale. Nel 2018 la Camera dei deputati ha pubblicato un dossier dove ha confrontato i vari permessi di soggiorno concessi dai Paesi europei per motivi umanitari. Ognuno di questi permessi ha le sue caratteristiche e va ad aggiungersi, come detto, ai permessi di soggiorno concessi ai rifugiati o a chi è stata concessa la protezione sussidiaria”.

Le organizzazioni hanno criticato profondamente la nuova norma e gli emendamenti presentati in parlamento. Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) e membro dell’Asgi, ha commentato: “Gli emendamenti al disegno di legge Cutro proposti dal governo in sede di conversione del decreto stesso al senato sono scellerati non solo per ciò che riguarda l’abrogazione della protezione speciale ma anche per la demolizione del sistema di asilo vigente (sia per ciò che riguarda la accoglienza che le procedure)”.

Scrive Asgi: “Rifiutiamo la contrapposizione tra migranti regolari e irregolari che emerge dalla scelta di inserire in questo testo provvedimenti inerenti al Decreto flussi, senza rafforzare il sistema di asilo: se da tempo chiediamo a gran voce l’allargamento dei canali legali di ingresso, sappiamo bene che non possono essere queste misure a rispondere al bisogno di protezione internazionale. E chi in questi venti anni ha provato ad assumere in regola dei lavoratori stranieri sa che le misure previste sono del tutto insufficienti, perché l’unica possibilità per favorire incontro tra domanda e offerta di lavoro regolare sta nel scardinare del tutto il meccanismo previsto dalla Bossi Fini. E’ fondamentale invertire velocemente la rotta e promuovere politiche eque ed efficaci sull’immigrazione e sul diritto di asilo. Partendo dall’opposizione a queste norme, in un percorso che chiede ingressi legali, corridoi umanitari, garanzia dell’accesso alla procedura di asilo e all’accoglienza, abbandono delle politiche di esternalizzazione e dei loro scellerati risultati, come l’accordo con la Libia, salvaguardia delle vite in mare”.

Buon martedì.

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Fazzolari, le armi a scuola e la vergogna per le sue passioni

Penna, calamaio, libri e moschetto. Non riuscendo a trattenere l’irrefrenabile amore per le armi e per la guerra secondo il quotidiano La Stampa il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giovanbattista Fazzolari si sarebbe fiondato a parlare con il generale Franco Federici per spiegargli la sua brillante idea di mettere a contatto “una rete di associazioni con il mondo delle scuole” per un bel corso di tiro a segno degli studenti.

Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giovanbattista Fazzolari, propone corsi di tiro a scuola, poi smentisce La Stampa

Il sottosegretario Fazzolari, braccio destro della presidente Giorgia Meloni, smentisce un secondo dopo ritenendo l’articolo “ridicolo e infondato”. Potrebbe essere, certo, ma non è infondato il video su YouTube in cui spiega le ragioni della sua battaglia in difesa del tiro a segno sostenendo che la liberalizzazioni delle armi non porterebbe a “nessun Far West” perché, dice, “chi fa tiro sportivo sa che non può sgarrare, altrimenti perde il porto d’anni”. Che si perda il porto d’armi dopo avere ammazzato qualcuno è un particolare che al sottosegretario sfugge.

La buriana però infuria. “Ci mancavano solo le armi a scuola. Le parole del numero due di Giorgia Meloni Fazzolari paladino dei portatori di armi, che secondo quanto riportato dalla stampa vorrebbe mettere le pistole in mano ai nostri studenti, sono gravissime e vanno chiarite al più presto”, dice la capogruppo del M5S in Senato Barbara Floridia.

Provenzano: “A quando le adunate del sabato?”

“A quando le adunate del sabato? Avete scambiato il Governo del Paese per un’assemblea del Fuan? Volete trasformare l’Italia nell’incubo trumpiano di disuguaglianze e notizie false contro gli oppositori. Ora anche armi”, twitta il vicepresidente del PD Peppe Provenzano mentre Piero De Luca, vicepresidente dei deputati Pd, ricorda che “la scuola non è un poligono”.

Il tesoriere di +Europa, Alfonso Maria Gallo sottolinea come “quello ‘bravo di Fratelli d’Italia” Fazzolari si occupi di “poligoni di tiro in tutte le scuole, per insegnare ai nostri giovani ad essere dei pistoleri provetti. Non ingegneri, non medici, non latinisti, storici o scienziati: pistoleri. Probabilmente il modello educativo di Fazzolari e di Meloni – spiega Gallo – è quello della strage di Columbine, o delle altre scuole americane dalle quali, troppo frequentemente, arrivano notizie delle drammatiche sparatorie che vedono coinvolti gli studenti”.

Nonostante “l’amore per le armi di Fratelli d’Italia sia evidente”, come sottolinea Conte, alla fine deve intervenire perfino il capo della Lega Matteo Salvini per smussare la polemica parlando di “idea non illuminata” del suo compagno di governo.

Da canto suo Fratelli d’Italia prova a fare quadrato. Giorgia Meloni manda in avanscoperta i suoi per difendere il compagno di partito e Fazzolari nel primo pomeriggio annuncia una querela per La Stampa. Il direttore del quotidiano piemontese però non sembra particolarmente intimorito: “Con temerario sprezzo del ridicolo, il sottosegretario Fazzolari ‘spara’ letteralmente la palla in tribuna, – dice il direttore Massimo Giannini – per smentire ciò che non è smentibile, cioè la sua idea di portare nelle scuole corsi di tiro a segno con le armi. L’articolo del nostro Ilario Lombardo, che confermiamo parola per parola, è inattaccabile e di fonte sicura al cento per cento”.

È una metafora di questi tempi: questi sono arrivati al governo solleticando intestini di cui pubblicamente si vergognano. Così il paradosso si conclude con una querela per un amore esibito da sempre.

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Letizia Moratti come James Bond

Stancamente in Lombardia trascina la sua campagna elettorale Letizia Moratti, ex sindaca di Milano per conto di Berlusconi poi ex ministra per conto di Berlusconi e infine vicepresidente regionale e assessora alla sanità per conto del leghista Attilio Fontana.

La campagna elettorale di Letizia Moratti sarebbe una storia perfetta per un romanzo dell’assurdo, un paradosso paradigmatico di questi tempi liquidi in cui si può essere tutto e il contrario di tutto, basta essere supportati da una buona comunicazione. Così dopo avere provato a candidarsi per il centrodestra (sulla base di una promessa che le sarebbe stata fatta, non si è mai capito bene da chi), Letizia Moratti si è offesa perché il centrosinistra non ha scelto lei. Già qui siamo oltre il paradosso eppure una fetta della politica italiana (Calenda e Renzi, e chi se no?) crede davvero che Letizia Moratti sia uno splendente fiore del riformismo e del progressismo.

A questo punto ovviamente la campagna elettorale diventa difficile. Che credibilità può avere una berlusconiana di ferro che vorrebbe agghindarsi come nuova iscritta a Lotta continua Così passano le settimane e Moratti viene attaccata dal candidato leghista Fontana («non la riconosco più», disse una volta con un velo di malinconia sul volto) e dal candidato del centrosinistra Pierfrancesco Majorino (a cui basta srotolare il curriculum dell’ex sindaca).

Siamo a ieri. Letizia Moratti deve avere avuto una lunga riunione con i suoi comunicatori perché ha estratto un coniglio dal cilindro. «Da dentro alla Regione ho potuto vedere tante inefficienze»: dice Letizia Moratti a Tgcom24 assicurando di sapere come risolverle. «Quando mi domandano perché non me ne sono occupata, semplicemente – è la sua risposta – perché le criticità che ho trovato in sanità erano talmente tante che tutte le mie giornate erano spese per quello. Non potevo dedicarmi ad altro. Le criticità che ho visto ora però so come sanarle». Avete capito bene. Dice Letizia Moratti di essere stata un’agente sotto copertura in missione per il riformismo che si è intrufolata nella destra per carpirne gli errori e quindi candidarsi come risolutrice.

E tutto questo riesce a pronunciarlo senza un minimo di vergogna. Il suo nome è Bond, Letizia Bond.

Buon martedì.

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Il senso del ridicolo su Matteo Messina Denaro

Era inevitabile che l’arresto del latitante più ricercato d’Italia scatenasse l’euforia che smutanda i vizi. Come la virologia e la geopolitica anche l’antimafia è un tema divertente su cui scannarsi, facile da strumentalizzare perché ricco di misteri e comodo per riempire le pagine dei giornali.

Sull’attribuzione del merito al governo Meloni (come vale da sempre per qualsiasi governo) tocchiamo le prevedibili vette della banalità della propaganda. Il governo che su qualsiasi argomento da giorni si difende spiegandoci che i problemi sono ereditati “dal governo precedente” e che “in tre mesi non si può risolvere tutto” vorrebbe convincerci di essere riuscito a risolvere l’arresto di Messina Denaro prima del problema di accise e bollette. Basta un po’ di logica per cogliere l’inganno. Ma è notevole anche l’orda di editorialisti che hanno il fegato di scrivere che “con il governo Meloni sono cadute le protezioni del boss”. I fatti – mica le opinioni – dimostrano che la latitanza di Matteo Messina Denaro è stata coperta da famiglie politiche appartenenti a una precisa area politica (in primis quella dell’ex senatore berlusconiano D’Alì). Va bene l’entusiasmo ma almeno evitiamo di cancellare la storia.

C’è poi il solito vizio di romanticizzare il boss e di raccontarlo come corpo alieno alla borghesia, alla politica e all’imprenditoria. Anche questo è già accaduto sia per Totò Riina sia per Bernardo Provenzano. Raccontarne i profumi, gli orologi, gli abiti, i profilattici è un errore di spostamento di attenzione. Ciò che ci interessa di Matteo Messina Denaro è capire chi lo ha protetto così a lungo, con chi ha fatto affari, chi ha fatto eleggere, con chi ha riciclato i suoi soldi. Volendo ci sarebbe anche da sapere chi fossero i veri mandanti dell’uccisione di Falcone e di Borsellino. Questi sono i punti. A meno che la romanticizzazione del boss non sia utile a indorare la sua prossima facoltà di non rispondere. Meno letteratura, più pressante richiesta di verità. Sarebbe meglio per tutti.

La latitanza. Ah, la latitanza. Matteo Messina Denaro frequentava il quartiere («usciva, salutava, faceva una vita normale», racconta un vicino di casa), era in cura nella clinica più prestigiosa di Palermo, scattava selfie insieme agli infermieri, scambiava messaggi con le pazienti della clinica per corteggiarle. Questo significa qualcosa in particolare? Troppo presto per arrivare a conclusioni. Un cosa è certa: che certi politici e commentatori vadano su giornali e televisioni a spiegarci che l’impunità e la libertà con cui si muoveva Matteo Messina Denaro lo rendessero ancora più difficile da individuare è una bestemmia illogica che non si può sentire.

Un po’ di serietà, per favore, sull’antimafia.

Buon mercoledì.

Nella foto: Matteo Messina Denaro nel 1993 (identikit della Polizia di Stato)

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Dal mare al carcere. Anche nel 2022

Arci Porco Rosso, Borderline Sicilia e Borderline-Europe anche quest’anno hanno continuato il progetto “Dal mare al carcere” sulla criminalizzazione dei cosiddetti scafisti che con questo governo sono ovviamente saliti alla ribalta.

Si parte dalla dichiarazione di Giorgia Meloni che, di fronte alla crisi con la Francia scaturita dal tentativo dell’Italia di bloccare l’ingresso e lo sbarco delle navi Ong che avevano prestato soccorso a centinaia di persone, sostiene: «Meglio isolare gli scafisti, non l’Italia». Affermazioni odiose, che alimentano la demonizzazione di chi non fa altro che condurre oltre la frontiera imbarcazioni di persone in fuga, cercando di imporre nuovamente la figura dello scafista al centro della conversazione, come capro espiatorio universale a cui si possa addossare la responsabilità della morte e della violenza che avviene alla frontiera marittima italiana.

Nel report si legge che «nel 2022, abbiamo contato il fermo di 264 persone in seguito agli sbarchi. Questa cifra non è scientifica, ma si basa su quanto riportato dai giornalisti, soprattutto nella stampa locale. Usando lo stesso metodo, l’anno scorso abbiamo contato 171 fermi, a fronte dei 225 fermi rivendicati dalla Polizia di Stato nel loro report annuale uscito ad aprile. Se abbiamo mantenuto lo stesso livello di precisione, possiamo stimare che il numero di fermi complessivamente nel 2022 è di 350 persone circa».

Il numero di fermi rappresenta una persona ogni 300 persone arrivate, una proporzione simile al 2021, e complessivamente anche simile al periodo 2014-2017. «Molto diverse rispetto a questo periodo, però, sono le nazionalità delle persone fermate. Negli anni successivi all’apertura della rotta libica, tantissime persone provenienti dall’Africa occidentale sono state arrestate, circa un quarto di tutti i fermi. Negli ultimi due anni, abbiamo contato meno di 10 fermi che coinvolgono cittadini di questi Paesi».

Le associazioni hanno seguito nel dettaglio 84 persone criminalizzate, 54 delle quali sono in carcere. «Quasi metà di loro provengono dal Nord Africa, e un terzo dall’Africa Occidentale. Gli altri da paesi asiatici, dall’Africa Orientale o dall’Europa dell’Est. Tra le persone che seguiamo ci sono due donne detenute, una proveniente dalla Russia e l’altra dall’Ucraina».

«Fare uscire la voce delle persone sotto processo e detenute è fondamentale per sfidare la narrazione attualmente dominante che mira a demonizzare le persone accusate di essere scafisti. Per questo motivo negli ultimi mesi ci siamo messə a disposizione di giornalisti che hanno pubblicato articoli di cronaca e inchieste importanti a tal riguardo. Il lavoro del gruppo Lost in Europe ha contributo all’approfondimento della questione dei minori stranieri accusati di essere scafisti, pubblicato, fra altre testate, su L’Essenziale e ANSA. Il Post International invece ha pubblicato un esaustivo articolo che riporta il caso di due cittadini turchi condannati a 12 anni di carcere in primo grado; siamo ora in contatto sia con gli imputati che i difensori. Lorenzo D’Agostino ha scritto per il Domani del caso di Helmi El Loumi , un ragazzo tunisino condannato per l’orrendo naufragio di novembre 2019, condannato ad otto anni di reclusione e con il quale manteniamo una corrispondenza epistolare. In più, la situazione in Italia è stata paragonata a quella in Grecia e Regno Unito da diversi giornalisti: per il New Humanitarian in inglese, e per La Liberation in francese. Si possono leggere tutti questi articoli e altri ancora nel nostro sito”, scrivono gli autori del rapporto.

Tutte queste storie hanno la stessa morale. Come scrivevano gli autori nel loro rapporto precedente la persecuzione sotto il profilo penale dei cosiddetti scafisti in Italia andrebbe letta nel contesto sempre più ampio della criminalizzazione della migrazione verso l’Europa. Nel caso dei cosiddetti scafisti, si tratta della criminalizzazione dell’atto di guidare una barca con a bordo migranti che fanno ingresso in Europa senza visto; va ricordato che i procedimenti penali contro i guidatori delle barche si svolgono non solo in Italia ma anche in Grecia, Spagna, le Canarie e il Regno unito: le tragiche situazioni che emergono da questa ricerca rappresentano, quindi, un tassello di un fenomeno di scala internazionale. Allo stesso tempo, questi eventi devono essere visti e analizzati anche tenendo conto del contesto italiano, un Paese in cui gli atti di solidarietà alle persone migranti sono presi di mira dalle procure, come dimostrato dai procedimenti penali aperti contro gli equipaggi delle missioni civili di ricerca e soccorso (Iuventa, Mediterranea) e dalla condanna in primo grado del Sindaco di Riace.

La realtà è molto più complessa di come ci piacerebbe che fosse. In quelle sfumature di grigio c’è il senso di responsabilità della politica, della stampa e dei cittadini.

Buon mercoledì.

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Il decreto Piantedosi visto da un sindaco e dal suo porto

«Mentre il governo Meloni continua con la sua propaganda anti-Ong a Pozzallo gli sbarchi aumentano. Negli ultimi due mesi abbiamo registrato più arrivi ma di navi di Ong non c’è traccia».

A dirlo all’Adnkronos è Roberto Ammatuna, sindaco di Pozzallo, nel Ragusano, per il quale il decreto varato dall’Esecutivo di centrodestra è «incivile e disumano». «Norme chiaramente strumentali – dice -. È necessario che sia un tribunale a sancire eventuali contatti tra scafisti e organizzazioni non governative e sinora tutte le inchieste non hanno portato a nulla». Le ultime indagini, invece, hanno sgominato un’organizzazione criminale transnazionale sull’asse Tunisia-Sicilia che a bordo di gommoni veloci portava in Italia migranti in poche ore. «Su questi traffici bisognerebbe indagare, moltiplicare gli sforzi diplomatici nei Paesi del Nord Africa, lungo le rotte migratorie. Invece, siamo alla barbarie e chi salva vite umane viene criminalizzato». Per il primo cittadino, da sempre in prima linea sul fronte dell’accoglienza, è in atto «una vergognosa strumentalizzazione di un dramma umanitario per raccattare qualche voto».

«Le nuove norme varate dal governo non faranno altro che aumentare i morti nel Mediterraneo, il più grande cimitero d’Europa – avverte -. Tenere lontane le Ong da quel mare e costringerle a raggiungere porti distanti anche quattro giorni di navigazione dalla zona Sar è semplicemente assurdo». L’unico pull factor per lui è il meteo. «Con il mare piatto gli sbarchi aumentano. È un dato di fatto. Incontestabile. Lo sa chiunque si occupi di questa materia. A questo si aggiunge poi una situazione internazionale complessa che richiede un impegno a 360 gradi, lungo e difficile». Nell’hotspot di Pozzallo al momento ci sono 278 ospiti, nella struttura in località Cifali che accoglie i minori non accompagnati, invece, sono in 181. «Ma ogni giorno qualcuno esce e non fa più rientro, una lenta emorragia quotidiana», avverte Ammatuna. Da ieri a oggi di 32 migranti non si ha più traccia: in meno di 24 ore in 17 sono ‘spariti’ dai locali in contrada Cifali, 15 dall’hotspot.

Tutta fuffa. Solo propaganda. Però quelli muoiono davvero.

Buon venerdì.

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Il clima sta cambiando, perché noi no?

Mercoledì c’è stata una discussione intorno alla mancanza di neve sull’Appennino fortemente emblematica. Il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini (nonché candidato favorito al congresso del Partito democratico) e l’assessore al Turismo Andrea Corsini hanno chiesto di sostituire i vecchi cannoni spara neve con modelli più evoluti: «Quelli che permettono di mantenere la neve artificiale anche a temperature più elevate», chiedono al governo. Fanno riferimento alle tecnologie che verranno utilizzate nel 2029 per l’appuntamento dei Giochi invernali in Arabia Saudita.

La preoccupazione di tutti, ministra Santanchè compresa, è che i turisti cancellino come stanno già facendo i propri appuntamenti per mancanza di neve e l’economia locale ne risenta pesantemente. Investimenti, mutui e liquidità sono le richieste degli operatori. Il tutto con il plauso del sindaco di Lizzano, Sergio Polmonari, lo stesso che qualche giorno fa negava il cambiamento climatico («Io credo poco a questi scienziati che guardano al futuro») e teorizzava un «complotto contro la montagna».

La politica che si interroga su come sparare neve su una montagna drammaticamente calda è l’immagine di quest’epoca. Affidata a un tecnologismo disperato (e disperante), osserviamo la classe dirigente del Paese che usa un cerotto per coprire un burrone mentre in tutti i settori economici l’innalzamento delle temperature sta interferendo con il naturale svolgimento degli affari. Seguendo lo stesso macabro principio dell’occuparsi solo degli effetti negando le cause si potrebbe rispondere all’allarme di ieri della Coldiretti (che avvisava della fioritura a gennaio di mimose e limoni) affidandosi a mele fabbricate in laboratorio o pane estratto dal polistirolo.

L’imbarazzante ignoranza della classe politica italiana di fronte alla crisi climatica è l’elefante nella stanza che nessuno vede mentre una ciurma di benpensanti si accapiglia sulle pene da infliggere agli attivisti che sottolineano l’allarme. Si giunge così al paradosso di un presidente del Senato come Ignazio La Russa (quello che da giovane manifestante guidava il corteo del “giovedì nero” a Milano che con un bomba uccise il poliziotto Antonio Marino a Milano) che strepita per la vernice lavabile seguito da moralisti di destra e di sinistra. Si va avanti così per giorni senza che le ragioni dell’atto non violento vengano nemmeno discusse.

C’è un muro di gomma di gomma che avrà bisogno di molto di più di un secchio di vernice per essere abbattuto. La questione della giustizia climatica è stata sventolata dai partiti ma non trova nessun riscontro nei fatti. L’ambientalismo è uno spazio politico che non trova dimora nei partiti mentre l’elaborazione politica è molto più avanzata nei movimenti. La macchia (quella sì, indelebile) è il dislivello tra la consapevolezza che c’è nella base del movimento ambientalista e le moine nei partiti. E anche la questione politica, come quella ambientale, prima o poi ci scoppierà in mano.
Buon giovedì.

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La Francia frena ancora su Kiev nella Nato

Nel dibattito internazionale interviene il presidente della Francia Emmanuel Macron. Che se fosse italiano sarebbe sicuramente ascritto alla lista dei putiniani. Per sua fortuna, e per fortuna del dibattito internazionale, in Europa tira un’altra aria e così è normale riflettere sugli equilibri europei e sui condizionamenti Usa e allo stesso tempo è ragionevole riflettere sui delicati equilibri internazionali che condizionano l’eventuale ingresso dell’Ucraina nell’Ue.

Dalla Francia una lezione pure all’Italia. Parigi non ci sta a provocare Mosca. Seguendo Biden la guerra non finirà più

Il presidente francese infatti ritiene che l’ingresso dell’Ucraina nella Nato sarebbe vissuto dalla Russia come un’azione conflittuale e che non sia lo “scenario più probabile”. Lo ha affermato in un’intervista a diversi media ieri, all’indomani della visita di Zewlensky a Washington. “L’ingresso dell’Ucraina nella Nato sarebbe percepito dalla Russia come qualcosa di conflittuale. Non è con questa Russia che si può immaginare”, ha detto ai quotidiani francese Le Monde, americano Wall Street Journal e libanese An Nahar e ha insistito sulla necessità di concedere “garanzie di sicurezza” all’Ucraina ma anche alla Russia alla fine del conflitto ucraino, posizione che gli è valsa forti critiche da Kiev e dall’est Europa.

“Alla fine, dovremo mettere tutti intorno ad un tavolo. E allora tutti gli europei e gli occidentali che danno lezioni di morale mi spieghino con chi saranno seduti intorno al tavolo”, ha detto. “Non voglio che siano solo i cinesi e i turchi a negoziare il giorno dopo”, ha detto, riferendosi in particolare agli sforzi di mediazione della diplomazia turca. Il presidente francese ha anche nuovamente invocato l’autonomia strategica dell’Europa, all’interno della Nato, ma con una minore dipendenza dagli Stati Uniti. “Non c’è architettura di sicurezza europea senza autonomia strategica, nella Nato e con la Nato, ma non dipendente dalla Nato”, ha sottolineato.

“Un’alleanza non è qualcosa da cui dipendo, è qualcosa che scelgo (…) Dobbiamo ripensare la nostra autonomia strategica”, ha insistito. “L’Europa deve guadagnare in autonomia tecnologica, capacità, anche nei confronti degli Stati Uniti”, ha ripetuto il presidente francese. Secondo il presidente francese l’Europa per essere più forte deve riuscire a dipendere meno dalla Nato. Un’Europa più forte consentirà al continente di diventare più autonomo all’interno dell’Alleanza atlantica, agendo “all’interno della Nato, con la Nato, ma anche non dipendendo dalla Nato”, ha affermato Macron al Wall Street Journal.

“Un’alleanza non è qualcosa da cui dover dipendere. È qualcosa che posso scegliere, qualcosa con cui lavoro… Dobbiamo ripensare la nostra autonomia strategica”, ha dichiarato. “Un’alleanza non è qualcosa su cui dovrei fare affidamento. è qualcosa che dovresti scegliere, qualcosa con cui lavorare. Dobbiamo ripensare la nostra autonomia strategica”, ha affermato il capo dell’Eliseo.

Alle dichiarazioni di ieri del presidente Macron non ha riposto praticamente nessuno. Accade sempre così quando qualcuno prova a riflettere sul ruolo dell’Europa all’interno dell’Alleanza atlantica. Ogni volta che qualcuno si permette di mettere in discussione gli equilibri della Nato viene tacciato di antiamericanismo o, peggio, di vicinanza con Putin. Eppure questa vergognosa invasione russa sta dimostrando come l’Europa sia troppo spesso un’appendice di decisioni prese da altri. Non si tratta di essere “meno amici dell’Ucraina”, come strumentalmente accusa qualcuno, ma semplicemente più europeisti nel senso più pieno del termine. Avrebbe voluto farlo Giorgia Meloni e invece spicca solo, malinconico, Emmanuel Macron.

Leggi anche: Zelensky al Congresso Usa: “L’Ucraina non è caduta. L’Ucraina è viva e combatte. È una battaglia comune per la libertà”

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