Non è un’anomalia. È una tradizione. Il nostro Paese è tra i più condannati del Continente, con un’imbarazzante percentuale di violazioni del 92 per cento rispetto alle sentenze. Carceri sovraffollate, giustizia lenta, trattamenti inumani e degradanti, respingimenti illegali: così ogni anno si aggiornano le statistiche, non le soluzioni.
Quando si parla di Corte europea dei diritti dell’uomo spesso lo si fa per raccontare gli altri, meglio ancora se sporchi, brutti e cattivi. La Cedu utilizzata come manganello contro i Paesi che secondo alcuni non meriterebbero di stare nell’Unione europea. La Cedu per gli altri. Ma l’Italia? Le aule della Corte hanno spesso ospitato il nostro Paese. Non per una presenza formale, ma per una costanza che somiglia a un’abitudine consolidata. Nel solo 2023, su 2.666 ricorsi esaminati 52 si sono tradotti in sentenze: in 48 casi il verdetto ha riscontrato almeno una violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Non è un’anomalia. È una tradizione. Un dato che mette il nostro Paese tra i più condannati d’Europa, con una percentuale di violazioni che si assesta su un imbarazzante 92 per cento. Il messaggio è chiaro: l’Italia non solo infrange i diritti umani, ma lo fa con una sistematicità che lascia intendere un problema radicato, strutturale, cronico.
Rischi concreti di torture in Libia e rimpatri forzati
Le violazioni più ricorrenti seguono uno schema preciso: trattamenti inumani e degradanti (articolo 3), negazione del diritto a un processo equo (articolo 6), violazione del diritto alla vita (articolo 2) e del diritto al rispetto della vita privata e familiare (articolo 8). La fotografia è nitida: un sistema che procede con inerzia, incapace di adeguarsi alle garanzie fondamentali. Un caso esemplare è quello di “Hirsi Jamaa e altri c. Italia” (2012), dove siamo stati condannati per il respingimento illegale in mare di persone migranti. La Corte ha stabilito che il nostro Paese ha violato il divieto di trattamenti inumani, esponendo i ricorrenti a rischi concreti di torture in Libia e rimpatri forzati. Una macchia indelebile che, però, non ha fermato il ripetersi di politiche simili. Nel 2023 e nel 2024 Strasburgo ha continuato a esaminare casi analoghi.

Giustizia: condanne in contumacia e niente processi equi
Sotto il profilo della giustizia, il caso “Scoppola c. Italia” (2009) ha rivelato le falle dell’ordinamento nella garanzia di un processo equo, mentre “Sejdovic c. Italia” (2006) ha evidenziato le distorsioni di un sistema che condanna in contumacia senza assicurare effettivi strumenti di revisione.
Prigioni sovraffollate e pessime condizioni di detenzione
Il sistema carcerario italiano è da anni un terreno di scontro tra lo Stato e la Corte di Strasburgo. Il caso “Torreggiani e altri c. Italia” (2013) ha certificato ciò che si sapeva: le prigioni italiane sono sovraffollate e violano sistematicamente il divieto di trattamenti inumani. La Corte ha parlato di «violazione strutturale», segnalando che il problema era noto da anni e che lo Stato ha preferito ignorarlo.

Abusi anche nelle strutture psichiatriche
Il problema, tuttavia, non si esaurisce nelle mura delle carceri. Il caso “Lavorgna c. Italia” (2024) ha portato alla luce gli abusi nelle strutture psichiatriche: il ricorrente, ricoverato forzatamente, è stato sottoposto a misure di contenzione in violazione della Convenzione. Le Rems, istituite per sostituire gli ospedali psichiatrici giudiziari, si sono trasformate in gabbie dove il diritto alla salute mentale è piegato all’arbitrio burocratico.
Tempi biblici per una sentenza, tra impunità e prescrizione
Se la giustizia italiana fosse un’opera d’arte, sarebbe un dipinto rinascimentale per la lentezza con cui viene completato. Il caso “Scordino c. Italia” (2006) ha sollevato il problema dell’inefficacia della legge Pinto, che avrebbe dovuto garantire un risarcimento per i processi infiniti. La Corte ha stabilito che il nostro sistema non solo viola il diritto a un processo equo, ma lo fa con una costanza allarmante. Oggi un processo civile in Italia dura mediamente oltre sei anni. Una causa penale può richiederne più di 10. La conseguenza? Giustizia negata per chi attende un verdetto e impunità di fatto per chi riesce a sfruttare la lentezza del sistema per arrivare alla prescrizione. È un circolo vizioso che alimenta la sfiducia nelle istituzioni.
Diritto alla famiglia: coppie dello stesso sesso discriminate
Anche sul fronte dei diritti individuali l’Italia colleziona condanne. Il caso “Oliari e altri c. Italia” (2015) ha evidenziato l’assenza di riconoscimento legale per le coppie dello stesso sesso, mentre “Locascia e altri c. Italia” (2023) ha portato alla condanna del nostro Paese per la gestione fallimentare della crisi dei rifiuti in Campania. Un disastro ambientale e sanitario che ha esposto migliaia di cittadini a rischi documentati senza alcuna protezione adeguata.

Richiedenti asilo e centri di accoglienza, niente tutele
Non va meglio sul fronte delle persone migranti. La Corte ha ripetutamente censurato l’Italia per la violazione dei diritti dei richiedenti asilo, dei minori stranieri non accompagnati e dei soggetti più vulnerabili. Le pratiche di respingimento e di detenzione arbitraria nei centri di accoglienza sono all’ordine del giorno. Lo Stato italiano non garantisce tutele, ma reprime.

A luglio 2024 già pendenti 2.430 casi italiani davanti alla Cedu
L’Italia non è nuova alle condanne della Cedu. Ma l’elemento preoccupante è che non si tratta di incidenti isolati, bensì di un copione che si ripete. Carceri sovraffollate, giustizia lenta, trattamenti inumani, respingimenti illegali: ogni anno si aggiornano le statistiche, non le soluzioni. A luglio 2024 erano già pendenti 2.430 casi italiani davanti alla Corte di Strasburgo. Molti di questi riguardano violazioni sistematiche, già condannate in passato, ma mai risolte. E questa è la vera sentenza contro l’Italia: non imparare dai propri errori. Strasburgo continua a scrivere sentenze. Roma continua a ignorarle. La giustizia europea prende nota. E, come sempre, l’Italia arriva tardi.
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