Non si può parlare di Gisèle Pelicot senza rabbrividire, ma sarebbe un errore considerare la sua storia un’aberrazione isolata. Gisèle è stata drogata, abusata e filmata dal marito per un decennio: un incubo che non si è consumato nell’ombra di qualche vicolo degradato, ma tra le mura domestiche di una casa qualunque. E a infliggerle tutto questo non è stato un mostro, ma un uomo ordinario. Proprio qui sta la radice dell’orrore: non in Dominique Pelicot, ma in quei 51 uomini “normali”, padri, mariti, professionisti, che hanno abusato di una donna inerme e si sono detti innocenti. La vicenda Pelicot è uno specchio brutale: riflette una società in cui la violenza è così ordinaria da non essere riconosciuta come tale. I 51 complici non sono un’anomalia, sono la regola. Non sono mai arrivati a chiedersi se ciò che stavano facendo fosse un crimine.
Alcuni hanno persino osato scusarsi in aula, quasi che un “mi dispiace” bastasse a cancellare nove anni di stupri. E fuori dal tribunale, le pene comminate sono state accolte con sdegno: è questa la giustizia per Gisèle? “Merci Gisèle”, si leggeva sugli striscioni. Grazie per aver portato alla luce ciò che preferiamo non vedere: che il male indossa la maschera della normalità, che il patriarcato è un sistema prima che un comportamento deviante. La Francia applaude il coraggio di Gisèle, ma si accontenta di qualche condanna e di una manciata di kit antidroga nelle farmacie. Come se il problema fosse solo chimico e non culturale. La vergogna deve cambiare campo, dice Gisèle. Responsabili del ribaltamento, più che del cambiamento. Scritto così mi sembra che sia chiarissimo.
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