A fine ottobre sono sbarcati almeno quattro cadaveri e oltre 200 persone. Ma Viminale e Guardia costiera provano a censurare i fatti. E i cronisti parlano di «clima ostile al giornalismo d’inchiesta».
Negli ultimi 10 giorni di ottobre, Lampedusa ha visto sbarcare almeno quattro cadaveri assieme a oltre 200 persone. Le fonti locali lo chiamano «il via vai di morti», e non è un’esagerazione. I dispacci delle agenzie, incrociati con i dati dell’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, e dell’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati, confermano una serie di sbarchi con vittime tra il 18 e il 29 ottobre. I morti sono uomini partiti dalla Libia, nazionalità tipiche della rotta Corno d’Africa, Bangladesh, Medio Oriente. Ma la frequenza è inedita. Cinque eventi con salme a bordo in meno di due mesi non si vedevano da anni, e questa concentrazione smentisce l’idea di episodi “isolati” che il governo Meloni ripete nei briefing riservati ai cronisti di Palazzo.
Non un bavaglio formale, ma una strategia di “invisibilizzazione selettiva”
Il silenzio denunciato dai giornalisti presenti sull’isola non è un’invenzione. La prefettura di Agrigento non diffonde più note sui singoli decessi, la Guardia costiera pubblica comunicati asciutti e tecnici, e la Capitaneria di porto di Lampedusa tiene transennata l’area del molo Favaloro. I giornalisti non possono documentare gli arrivi. È la “invisibilizzazione selettiva”: non un bavaglio formale, ma una strategia che cancella il dolore dai riflettori e affida il racconto solo alle veline ufficiali. In pratica, se non c’è immagine non c’è nemmeno la notizia. Il risultato è che la morte viene declassata a “evento di gestione”, al pari di un trasferimento o di uno sbarco ordinario.

Meno partenze, più morti: il “paradosso della letalità”
Secondo i dati del Missing Migrants Project dell’Oim, nel 2025 sono già oltre mille i migranti morti o dispersi nel Mediterraneo, di cui il 70 per cento lungo la rotta centrale. Dal 2022 a oggi la probabilità di morire in mare è più che raddoppiata, passando dall’1,3 al 3 per cento circa per ogni traversata tentata. Meno partenze, più morti: il “paradosso della letalità”. Nel 2023 gli sbarchi erano stati 157.651; nel 2024 sono scesi a 66.617, nel 2025 poco più di 33 mila fino a luglio. Ma la riduzione degli arrivi coincide con l’aumento dei rischi. È l’effetto delle politiche di deterrenza: cooperazione con le guardie costiere libiche e tunisine, ostacoli alle Organizzazioni non governative, porti lontani per le navi umanitarie. La legge 50/2023, il cosiddetto Decreto Cutro, ha reso più difficile il soccorso e quasi abolito la protezione speciale, chiudendo ogni canale legale.
Persone chiuse nel sottocoperta che respirano fumi e perdono la vita
Gli operatori raccontano quasi sempre lo stesso schema: barche a due piani, motore acceso per ore, persone chiuse nel sottocoperta che respirano fumi e muoiono prima di arrivare in vista dell’isola. È una “morte da attesa”, non da naufragio. Ed è una morte direttamente collegata ai ritardi o alla distanza dei soccorsi. Ogni volta che le Ong sono costrette a sbarcare a Ravenna o a Genova, una nave in meno resta dove serve. Ogni volta che la Libia intercetta e riporta indietro, i trafficanti caricano di più. È un effetto domino, non un incidente.

Una censura non dichiarata ma praticata
Dal 2022 la Guardia costiera ha rimosso dal sito i dati di dettaglio delle operazioni Sar (Search and rescue, ricerca e soccorso). Il ministero dell’Interno pubblica solo un “cruscotto statistico” che somma cifre, ma non nomi né circostanze. I porti di sbarco non vengono più comunicati: «Informazioni utili ai trafficanti», ha detto il Viminale. In realtà è un cambio di paradigma: si toglie al giornalista la possibilità di associare numero di arrivi e numero di morti, cioè la chiave per misurare la letalità delle politiche. Nel frattempo, la classifica di Reporters sans frontières segna la discesa dell’Italia dal 41esimo al 49esimo posto per libertà di stampa, con un peggioramento netto degli indicatori politici ed economici. La Federazione nazionale della stampa parla di «clima ostile al giornalismo d’inchiesta». A Lampedusa, dove il molo è chiuso ai reporter, la censura non è dichiarata ma praticata.
È la versione burocratica della disumanizzazione
Le salme vengono trasferite in fretta da Lampedusa a Porto Empedocle, poi distribuite nei cimiteri agrigentini. Nessuna cerimonia pubblica, nessun rappresentante politico. Le procedure sono amministrative, non commemorative. Il lavoro di identificazione ricade su Ong e Croce Rossa, spesso senza mezzi. Molti corpi finiscono in tombe anonime, archiviati come “non identificati”. È la versione burocratica della disumanizzazione: lo Stato gestisce, ma non riconosce. E più passa il tempo, più le famiglie che chiedono notizie vengono rimandate da una prefettura all’altra, perché nemmeno l’archiviazione è centralizzata. Si perde il corpo e si perde anche la storia.

Le immagini della tragedia del 2013 — le bare allineate nell’hangar dell’aeroporto, i ministri in visita, il lutto nazionale — appartengono a un altro tempo. Oggi i morti arrivano all’alba, in silenzio. La loro presenza è filtrata dai comunicati, non dagli occhi. La stessa isola che allora era laboratorio di accoglienza oggi è diventata laboratorio di rimozione.
Barche mai segnalate, corpi non recuperati
Il governo rivendica una riduzione del 60 per cento degli sbarchi, frutto degli accordi con Tunisia e Libia, e attribuisce a questa politica il “successo” di aver salvato vite. Ma i dati internazionali mostrano altro: la rotta centrale resta la più letale al mondo, con oltre 25 mila morti dal 2014 e un numero imprecisato di “naufragi invisibili”. Barche mai segnalate, corpi non recuperati. La narrazione ufficiale parla di ordine; la cronaca di Lampedusa parla di bare.

Pochi testimoni: crisi dei diritti e dell’informazione
Dietro i numeri ci sono le stesse storie: il ragazzo eritreo morto asfissiato sotto coperta, i bengalesi partiti da Garabulli, i somali recuperati senza nome. A Lampedusa, gli operatori umanitari raccontano un ritmo costante di arrivi con salme a bordo. Ma senza telecamere, senza dati, senza domande. La riduzione dei flussi ha prodotto un effetto collaterale preciso: meno testimoni, più fantasmi. L’Italia comunica “sicurezza”, ma ogni settimana il mare restituisce la prova contraria. Nel silenzio costruito intorno a quei corpi, si misura non solo la crisi dei diritti, ma anche quella dell’informazione.
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