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Le proteste pro Gaza smascherano l’ipocrisia dell’Eurovision – Lettera43

La contestazione alla cantante israeliana Yuval Raphael è l’ennesimo sintomo. Alla kermesse musicale, che escluse la Russia nel 2022 ma ha chiuso gli occhi sulla Palestina, mancano valori e coerenza etica. Finché si sbandiera fintamente la pace e non si garantiscono davvero i diritti, i fischi continueranno.

Le proteste pro Gaza smascherano l’ipocrisia dell’Eurovision

I fischi a Yuval Raphael non sono stati un incidente. Non sono stati «una minoranza rumorosa», come si è affrettata a dire l’European Broadcasting Union (Ebu). Non sono nemmeno solo un gesto contro Israele. Sono un sintomo. L’ennesimo. Nell’edizione 2025 dell’Eurovision Song Contest di Basilea le crepe sono diventate fratture. E non si possono più ignorare.

Tutto è stato politicizzato, altro che “solo musica”

L’artista israeliana si è esibita tra gli applausi e i fischi, dopo giorni di tensione, minacce e proteste. Ai margini dell’arena svizzera sventolavano bandiere palestinesi, cartelli con la scritta “nessun applauso per un genocidio” e “si canta mentre Gaza brucia”. Raphael ha raccontato di essersi salvata nel massacro del 7 ottobre fingendosi morta. La sua partecipazione, il suo brano, la sua storia: tutto era carico di significati. Tutto è stato politicizzato. E tutto è stato trattato, ancora una volta, come se fosse “solo musica”.

Le proteste pro Gaza smascherano l'ipocrisia dell'Eurovision
La cantante israeliana Yuval Raphael (foto Ansa).

Concetto di neutralità ormai svuotato

L’Ebu si ostina a presentare l’Eurovision come evento apolitico. Ma nel 2025 questa retorica si è sgretolata. Le contestazioni a Israele sono state precedute da una richiesta ufficiale, firmata da decine di ex partecipanti (incluso Nemo, vincitore del 2024), per escludere il Paese di Benjamin Netanyahu. L’Ebu ha ignorato la richiesta. Ha proibito bandiere e scritte. Ha chiesto «rispetto». Ha invocato le regole. Ma le stesse regole avevano già portato all’esclusione della Russia nel 2022. L’Ebu, oggi, seleziona il suo concetto di neutralità a seconda del contesto. E a forza di selezionarlo, lo ha svuotato.

Un sistema che lascia scontenti tutti

Non basta dire che il concorso è tra emittenti. L’emittente israeliana Kan è finanziata dallo Stato e parte integrante dell’apparato comunicativo del governo. La sua presenza è politica. E il pubblico lo sa. Anche quello che applaude. Nel 2025, come negli anni precedenti, la gara è stata decisa da un equilibrio instabile tra televoto e giurie. Ma i sospetti di irregolarità e l’ombra dei “blocchi regionali” continuano a minare la fiducia. Il televoto resta vulnerabile a mobilitazioni di massa. Le giurie, opache e autoreferenziali. I punteggi, spesso divergenti. Il risultato finale? Una somma imperfetta, che lascia scontenti sia i fan sia gli artisti.

Falle strutturali nel meccanismo di voto

La vicenda della Rai nel 2024 – con la diffusione anticipata dei dati del televoto pro Israele – non ha portato a una riforma credibile. L’Ebu ha annunciato nuove linee guida, un “codice di condotta”, un “protocollo di benessere”. Ma le falle strutturali nel meccanismo di voto restano. Nessuna risposta alla questione del “bloc voting”, nessuna trasparenza sui calcoli delle giurie, nessun controllo reale sul potere delle lobby culturali interne all’Unione.

Le proteste pro Gaza smascherano l'ipocrisia dell'Eurovision
Una bandiera israeliana esibita durante l’Eurovision (foto Ansa).

Prevale la logica dell’intrattenimento facile

Dietro le luci, l’Eurovision 2025 è stato ancora una volta un festival di cloni. L’inglese domina, le melodie si assomigliano, le messe in scena si rincorrono. La diversità linguistica è un ricordo. I brani originali, minoranza. Chi osa – nei temi o nei suoni – viene ridicolizzato, ignorato o spinto fuori dalla finale. La logica dell’intrattenimento facile ha avuto la meglio su quella artistica. Eppure il paradosso è che proprio il trash, spesso etichettato come deviante, è l’unico spazio dove si infilano ancora messaggi sovversivi. Ma anche quello viene sempre più normalizzato, addomesticato.

Bambie Thug nel 2024 è riuscita a insinuare il suo messaggio

Le battaglie Lgbtq+ storicamente legate all’Eurovision sopravvivono, ma sono state ingabbiate in un format ripetitivo, dove l’identità è spettacolarizzata e svuotata. Ogni bandiera, ogni riferimento alla Palestina, ogni gesto simbolico è stato sanzionato o censurato. Eppure l’artista irlandese Bambie Thug nel 2024 è riuscita comunque a insinuare il suo messaggio, nonostante le pressioni, tramite un make up pro Palestina poi censurato. La sua stessa presenza, come quella di Nemo, un anno fa ha salvato lo show dalla totale insignificanza.

Le proteste pro Gaza smascherano l'ipocrisia dell'Eurovision
Bambie Thug durante l’edizione del 2024 (foto Ansa).

Affari da milioni e contratti mai del tutto chiariti

L’Eurovision è anche un affare di milioni. Costi enormi per i Paesi ospitanti. Sponsorizzazioni opache. Contratti mai del tutto chiariti, come quello con Moroccanoil, brand di cosmetici legato all’economia israeliana. L’Ebu resta un organismo chiuso, che si presenta come garante dell’unità e della pace, ma gestisce il concorso con meccanismi che sembrano quelli di una multinazionale dell’intrattenimento.

Quali sarebbero i valori della manifestazione?

Le riforme annunciate dopo Malmö non hanno toccato i nodi politici, solo quelli logistici. Più zone protette, più pause, più comfort per gli artisti. Ma nessuna decisione sulla coerenza etica. Nessuna trasparenza sugli sponsor. Nessun criterio chiaro su cosa comporti, davvero, «violare i valori dell’Eurovision». Il problema dell’Eurovision non è Yuval Raphael. Non è Gaza. Non è nemmeno il pubblico che fischia. Il problema è la sproporzione crescente tra ciò che il festival dice di essere e ciò che mostra. Il 2025 ha offerto la prova che l’Eurovision non è un rifugio neutrale. È uno specchio. Riflette le tensioni, le diseguaglianze, i conflitti. E lo fa in modo distorto, perché cerca di negarle. Finché continuerà a vendere inclusione senza garantire diritti, a sbandierare pace mentre censura le guerre, a proclamarsi democratico mentre decide tutto dietro le quinte, i fischi non si fermeranno. E forse è giusto così. Perché sono, a oggi, il suono più onesto di tutto lo spettacolo.

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