«Si sottovaluta la necessità di avere nel Paese un dibattito con posizioni diverse, autentiche, anche dure. Che aiutano tutti, soprattutto chi governa. Discutere con sincerità dei problemi rende l’opinione pubblica – il vero architrave di un sistema democratico – più avvertita, responsabile e libera. È un antidoto naturale al populismo: la gente è indotta ad approfondire. […] Il cittadino non è un suddito. Renzi non dovrebbe temere un dibattito vero sollevato da un giornalismo libero e autonomo dal potere: una discussione aperta facilita il raggiungimento delle soluzioni migliori. Le buone politiche risaltano di più e gli errori vengono corretti in tempo. Se il dibattito è reticente, opaco copre gli errori e le collusioni, favorendo i pochi che sanno ai danni dei tanti che non sanno.»
Le parole di Ferruccio De Bortoli nella sua intervista a Il Fatto Quotidiano fino a vent’anni fa sarebbero state un elogio della banalità e invece oggi risuonano come le intuizioni di un vate. Eppure non c’è un momento netto, nitido e individuabile in cui in questo Paese sia diventato un “vezzo” fastidioso il non essere d’accordo: è un muscolo che si è stinto piano piano, una disabitudine al dibattito che si è normalizzata. E alla fine siamo scaduti nel tifo in cui parteggiare pregiudizialmente è normale. E la classe dirigente si forma sul televoto. E anche De Bortoli risuona come un rivoluzionario. Pensa te.