Oggi arrivano le mimose stanche, l’8 marzo e le manfrine. Ma l’occupazione femminile intanto in Italia non decolla. Non per mancanza di competenze, non per carenza di volontà, ma per una scelta politica: il sistema dei servizi per l’infanzia è inadeguato, insufficiente e profondamente diseguale. I numeri parlano chiaro.
L’occupazione femminile e il nodo degli asili nido
Secondo i dati più recenti analizzati da Openpolis nel nostro Paese appena il 30% dei bambini sotto i tre anni ha accesso a un posto in un asilo nido. Una percentuale ben al di sotto degli obiettivi fissati a livello europeo, che prevedono un minimo del 33%, con una tendenza al rialzo fino al 45%. L’Italia è in ritardo e non sembra avere intenzione di accelerare. Il problema non è solo di copertura, ma di accessibilità. Gli asili nido sono pochi e spesso fuori dalla portata economica delle famiglie. Il risultato? Una donna su cinque lascia il lavoro dopo la maternità. Non per scelta, ma per necessità. E laddove i nidi sono scarsi, il divario occupazionale tra uomini e donne si allarga in modo drammatico.
Non è un caso che nelle città con maggiore offerta di asili, l’occupazione femminile sia più alta. A Belluno, Siena e Bolzano, dove l’offerta supera la media nazionale, il tasso di occupazione delle madri oscilla tra il 75 e l’82%. All’opposto, a Catania, Napoli e Palermo, dove i posti nido sono un lusso per pochi, le donne occupate sono meno della metà. La relazione è evidente: più asili significa più madri al lavoro. Meno asili significa più donne costrette a rinunciare a una carriera. Ma invece di intervenire con investimenti adeguati, la politica continua a trattare il problema come una questione privata, lasciando le famiglie sole di fronte a una scelta impossibile.
Eppure, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) avrebbe dovuto risolvere il problema. Con uno stanziamento di 3 miliardi di euro, di cui 2,4 miliardi destinati agli asili nido, l’obiettivo era chiaro: ampliare l’offerta per la prima infanzia. Tuttavia, secondo un rapporto dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, solo il 3% dei progetti previsti risulta concluso, mettendo a rischio la creazione di circa 20.000 nuovi posti. Il ritardo è evidente e, mentre i fondi restano bloccati in procedure burocratiche, le famiglie continuano a non avere accesso a servizi essenziali.
Un problema culturale che pesa sull’economia
Ma il problema va oltre il numero di posti disponibili: è una questione culturale. In Italia, si dà per scontato che siano le donne a occuparsi dei figli. Secondo un’indagine dell’Istituto di Studi sulla Paternità, quasi la metà delle donne intervistate considera ancora naturale un modello in cui l’uomo lavora fuori casa mentre la donna si occupa della famiglia. Il risultato è che il 37,1% delle donne si occupa sempre della cura dei figli, contro appena il 5,6% degli uomini. Una disparità che non si registra ovunque: in Danimarca, ad esempio, l’81,2% delle donne con tre figli lavora, una percentuale superiore a quella delle donne italiane con un solo figlio, che si attesta al 57,8%.
In Europa, alcuni Paesi hanno già adottato politiche per riequilibrare la divisione delle responsabilità familiari, mentre in Italia la resistenza culturale e la mancanza di servizi continua a ostacolare il cambiamento. Eppure, il 70-90% degli uomini nei principali Paesi industrializzati dichiara di volersi occupare in modo equo della casa e dei figli. Segno che il problema non è la volontà, ma la mancanza di misure concrete per favorire una reale condivisione.
Il risultato è un’Italia a due velocità, dove il divario di genere non solo resta immutato, ma si approfondisce. Tra il 2014 e il 2023, in sette Paesi europei la differenza tra tasso di occupazione maschile e femminile è aumentata. L’Italia è tra questi. Peggio di noi, solo Romania, Grecia e Spagna. Non si tratta solo di una questione di giustizia sociale. È un problema economico. Ogni donna che lascia il lavoro per mancanza di servizi è una risorsa persa per il Paese. È produttività che si disperde, Pil che non cresce, contributi previdenziali che svaniscono. È un danno collettivo.
Eppure, la risposta politica continua a essere tiepida, inefficace, o peggio, inesistente. Si investe poco e male. Si ignorano gli obiettivi europei. Si accetta, nei fatti, che il lavoro di cura resti un affare privato, da gestire in famiglia. Il messaggio implicito è chiaro: se nasci donna, preparati a scegliere tra maternità e carriera. Perché lo Stato, in questa partita, non è al tuo fianco. La storia insegna che la crescita di un Paese passa dall’inclusione. Un’Italia che lascia indietro le madri è un’Italia destinata a restare indietro essa stessa. È una lezione che altri Paesi hanno imparato da tempo. Noi, invece, continuiamo a far finta di nulla.
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