Un assegno da 326 milioni e la procura di Milano archivia l’inchiesta. Google sistema i conti con il fisco italiano con un colpo di penna e un bonifico, chiudendo un’indagine che ipotizzava una “stabile organizzazione occulta” e l’omessa dichiarazione dei redditi prodotti in Italia. Una storia che suona ormai come un copione ripetuto: l’azienda giganteggia, il fisco indaga, la multinazionale paga e tutto torna a posto. Nessun processo, nessuna responsabilità, nessuna conseguenza oltre a un esborso che, rapportato ai profitti dell’azienda, sembra un dettaglio.
Non è la prima volta che accade. Nel 2017 Google aveva già versato 306 milioni per chiudere un’altra vicenda simile. Netflix, Airbnb, Amazon, Meta: i giganti del digitale giocano una partita a parte, in cui l’azzardo fiscale ha un solo vero rischio, quello di dover saldare il conto senza interessi di mora. Intanto, il “Modello Milano” – la collaborazione tra procura, Agenzia delle Entrate e Guardia di finanza – ha recuperato due miliardi in tre anni, ma il punto è un altro. Non è la quantità di denaro recuperato, ma il meccanismo che si ripete: le grandi multinazionali non temono il fisco, lo contrattano.
La distanza tra il piccolo imprenditore o la partita IVA che rischia la chiusura per una cartella esattoriale e il colosso che tratta a suon di centinaia di milioni è la fotografia di un sistema fiscale che non conosce equità. Per Google il pagamento è una soluzione, per gli altri un problema. Il messaggio, ancora una volta, è chiaro: la fiscalità è una variabile, non un dovere. E a chi il dovere lo rispetta, restano solo le briciole di un sistema in cui il peso fiscale si misura in base al potere, non alla legge.
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