Un articolo magistrale di Giovanni Pastore per la Gazzetta del Sud:
Cocò aveva due grandi occhioni neri e vispi. Una sera di pioggia di gennaio del 2014, quel cucciolo di uomo era in auto con suo nonno Peppe Iannicelli, sorvegliato speciale, e la bella amica marocchina di nonno Peppe, la “Zia Betty”. Quei tre, senza saperlo, quella sera andarono incontro alla morte, in contrada “Fiego”, un pezzo di campagna nella Sibaritide che non è solo cassanese e nemmeno castrovillarese. I killer avevano l’ordine di sbarazzarsi di Iannicelli ma fecero una strage.
Morì ammazzato Peppe e con lui morirono ammazzati anche Cocò e Betty. Uccisi a pistolettate e poi arsi nella loro auto. Sgarro o vendetta, il massacro ha piegato un intero casato. A distanza di tre anni, gli avanzi di quella famiglia numerosa, che vive prigioniera di un incubo, sono sparsi tra il carcere di Castrovillari e una casa religiosa in una località protetta. È una stirpe ferita, ridotta a impasto di lacrime e dolore. E di miseria. Lo hanno ripetuto ieri mattina, davanti ai giudici della Corte d’assise di Cosenza (presidente: Giovanni Garofalo; a latere: Francesca De Vuono), la mamma di Cocò, Antonia Maria Iannicelli, la nonna (nonchè vedova di Peppe, Maria Rosaria Lucera) e la zia del bimbo, Simona. Tutte e tre in carcere, per scontare una condanna definitiva per droga. Droga, tanta droga. Anche la storia della mattanza di contrada Fiego è fermentata in mezzo alla gestione dello spaccio. Anzi, secondo il pm della Dda Saverio Vertuccio, il controllo degli stupefacenti rappresenterebbe la miccia a combustione lenta della carneficina.
Il pianto di una mamma infelice, piegata dal dolore, continua a riversarsi sulla Piana cosentina, un pezzo di Calabria che ormai non fa più storia nemmeno in Calabria e che resta impregnato di mafia, nonostante la voglia di ribellarsi ai boss, di spezzare le catene della paura. Antonia Maria, incalzata dai patroni di parte civile, gli avvocati Angela e Liborio Bellusci, ha rivissuto le scansioni temporali di questi ultimi tre anni. «Anni d’inferno. La mia vita è distrutta, non parlo più con nessuno e non mi resta più niente. Dopo aver perso Cocò è come se fosse accaduta la stessa cosa con le altre mie figlie piccole. Non vedo entrambe da due anni, vivono in una struttura religiosa che si trova in una località protetta. Neanche mio marito sa dove siano. Dopo la sua scarcerazione lui è riuscito a incontrarle in un sito indicato dall’autorità giudiziaria. E per mantenermi, lavoro in carcere, insieme a mia madre e mia sorella. Purtroppo, non abbiamo altre possibilità». I legali hanno poi spostato l’attenzione sull’arma personale di Peppe. «Girava sempre armato, aveva una “Beretta” calibro 7,65 nascosta sotto il sedile della sua auto». La rivoltella, però, secondo gli avvocati dell’accusa privata non sarebbe stata rinvenuta. Altro aspetto affiorato dall’esame delle testimoni è quello legato alla rottura del fidanzamento tra uno Iannicelli e una figlia Donato (Parente di Cosimo, uno dei due imputati) che si sarebbe verificato, per volontà della giovane donna subito dopo la strage di contrada “Fiego” e ciò, secondo la tesi dei familiari, perchè i Donato avrebbero temuto ritorsioni. Ma, in questo caso, naturalmente, si tratta solo di ipotesi.
A giudizio, davanti alla Corte d’Assise di Cosenza ci sono due imputati. Si tratta di Cosimo Donato, detto “Topo”, e di Faustino Campilongo inteso come “Panzetta”. I due, difesi dagli avvocati Vittorio Franco, Ettore Zagarese e Mauro Cordasco, si sono sempre protestati innocenti. Sono stati incastrati dall’inchiesta del procuratore aggiunto della Dda, Vincenzo Luberto, che ha coordinato le investigazioni dell’Arma.