Il 31 dicembre 2023 Maysoon Majidi sbarca a Gabella, frazione di Crotone, su un’imbarcazione con 75 migranti. È una regista e attivista curdo-iraniana di 29 anni, in fuga dalle carceri iraniane e dal regime che l’ha già perseguitata. Quel giorno viene arrestata dalla Guardia di Finanza con l’accusa di essere la scafista. Resterà in carcere 300 giorni, tra Castrovillari e Reggio Calabria. Il 5 febbraio 2025 sarà assolta con formula piena: “per non aver commesso il fatto”.
Nel mezzo, un processo fondato su dichiarazioni rivelatesi inattendibili, video amatoriali interpretati come prove e una traduzione sbagliata usata come indizio. Le accuse della Procura di Crotone – inizialmente pesantissime – si sgretolano a ogni udienza. Il capitano turco dell’imbarcazione nega di averla mai conosciuta prima del viaggio. Gli altri passeggeri, sentiti in aula, la descrivono come una semplice passeggera. Il tribunale osserva che la donna non ha mai avuto un vantaggio economico, né ha pagato per la traversata: era una rifugiata, non una trafficante.
Una legge utile solo alla propaganda
La vicenda di Majidi, ricostruita nelle motivazioni della sentenza depositate il 6 maggio 2025, non è un incidente isolato. È l’effetto diretto di una strategia politica che trasforma i migranti in nemici e le persone vulnerabili in capri espiatori. Dal 2023, con il cosiddetto Decreto Cutro (legge 50/2023), il governo ha inasprito le pene per il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, introdotto l’articolo 12-bis TUI (morte o lesioni come conseguenza), ridotto la protezione speciale e limitato l’accesso ai servizi nei centri di accoglienza.
Nel solo 2023 la Polizia di Stato ha registrato 248 arresti per favoreggiamento. Nel 2024, fino a dicembre, sono stati 161. Ma non esistono dati ufficiali consolidati su quante siano le condanne, su quanti tra gli arrestati siano stati costretti a condurre le imbarcazioni, né su quanti siano stati poi assolti. È il buco statistico che regge l’impalcatura della retorica. L’assenza di numeri sui processi – lo dicono Arci Porco Rosso, Alarm Phone e l’analisi del giurista Mattia Pinto – impedisce una valutazione reale dell’efficacia della “guerra agli scafisti”.
Il prezzo della finzione
Nel maggio 2024, Majidi intraprende uno sciopero della fame. Pesa 40 chili. Non ha mai avuto un interprete, non parla con suo fratello – sbarcato con lei – per due mesi. Viene liberata il 22 ottobre, dopo la caduta dei gravi indizi di colpevolezza. Amnesty International, Hana Human Rights, parlamentari italiani ed europei avevano chiesto la sua liberazione. Ma il danno era già fatto.
Il caso Majidi è il paradigma di un impianto repressivo che colpisce figure marginali mentre i vertici delle reti criminali restano intatti. La figura dello “scafista”, utile alla comunicazione istituzionale, è spesso un migrante qualsiasi, accusato per avere tenuto un timone o distribuito acqua. Il rapporto “Dal mare al carcere” lo chiama “diritto penale del nemico”: non conta il reato, ma chi sei.
Il 18 luglio 2024, in una conferenza alla Camera dei Deputati, si parla anche di Marjan Jamali, un’altra donna iraniana arrestata in circostanze analoghe. L’elenco cresce: libici, afghani, palestinesi. Tutti incarcerati come “scafisti”, tutti poi derubricati, scarcerati, assolti. Tutti usati come pedine.
La giustizia, quando arriva, non scalfisce la propaganda. Le assoluzioni non fanno rumore. Ma restano a verbale. E il verbale, prima o poi, presenta il conto.
L’articolo Maysoon Majidi, scafista per lo Stato italiano: assolta dopo 300 giorni sembra essere il primo su LA NOTIZIA.