Nelle ultime ore il futuro di Gaza e Cisgiordania si sta scrivendo lontano dalle macerie, nei palazzi del potere. Benjamin Netanyahu ha scandito che sarà Israele a decidere «chi colpire» e quali forze internazionali potranno entrare nella Striscia, rivendicando un diritto di veto che trasforma la tregua in una gestione coloniale della pace. Parallelamente, il ministro dell’ultradestra Bezalel Smotrich ha invitato a una “campagna popolare” per spingere Donald Trump ad accettare l’annessione della Cisgiordania. La mappa del domani viene tracciata come se i palestinesi non esistessero.
Hamas, dal canto suo, dichiara tramite le agenzie che è pronta a consegnare le armi solo «se finirà l’occupazione». La frase suona come la fotografia di un conflitto che non è una parentesi ma una struttura permanente.
Intanto, i coloni continuano a impadronirsi della terra con la violenza quotidiana. Nella stagione della raccolta delle olive, le organizzazioni internazionali registrano oltre 150 attacchi contro contadini palestinesi solo in Cisgiordania. A Tulkarem un agricoltore crolla in lacrime dopo che il suo uliveto è stato raso al suolo: «Hanno rubato la nostra identità», racconta in un video. La distruzione dell’ulivo non è un danno economico: è un messaggio politico.
Da Roma, nei summit sulla pace, si parla di «perseveranza» e «ascolto reciproco», mentre in terra palestinese la “normalizzazione” passa attraverso bulldozer, cani sguinzagliati e veti sul futuro.
La tregua continua a essere solo una cornice diplomatica vuota: i padroni del campo restano gli stessi, e decidono perfino chi avrà il permesso di gestire la calma che segue la violenza. Anche oggi, per capire la verità, basta guardare un ulivo abbattuto.
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