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  • Se Turetta diventa modello, il sistema è complice

    A Montecchio Precalcino, provincia di Vicenza, un diciannovenne si fa chiamare “Zeus”. Ha tatuaggi, profili social e una lista. Una lista “come quella di Turetta”: forbici, sacchi dell’immondizia, scotch, contanti. In calce, la dedica: «Turetta esempio modello». Lo scrive online pochi giorni prima di attirare la sua ex con una scusa: «sono scappato di casa per vederti». Lei ha diciannove anni, si era rifugiata da una parente a Mirano per non essere trovata. Ma lui la trova. La colpisce, la minaccia con un paio di forbici, le prende il telefono e la costringe a cancellare i contatti maschili. Poi scompare. Poi riappare. Minaccia anche la madre di lei: «Zeus viene ad ammazzarvi». Si filma sotto casa della ragazza. Viene arrestato. Dopo una notte in cella è già fuori. Obbligo di firma quattro volte a settimana. Per lui. Per lei: vigilanza attiva. Non può bastare per il divieto di avvicinamento. Serve un secondo episodio. È scritto così.

    Ci si chiede a cosa servano le lacrime, i fiori, i proclami se il codice rosso funziona solo a sangue versato. Se un ragazzo che pubblica un’imitazione puntuale di un femminicidio può ancora essere considerato solo un “ragazzino disturbato”. Se le parole sono sempre “scherzi”, le botte “una scivolata”, le forbici “un oggetto potenzialmente pericoloso”.

    Ma il punto è che non è pazzo, non è solo. È il risultato di una cultura che ha già archiviato Giulia, che usa Turetta come un meme, che allena ragazzi a considerare la violenza una prova d’amore. Un gioco da uomini.

    E finché il primo episodio sarà solo un preallarme, ci sarà sempre qualcuno pronto a testare il secondo.

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  • Pnrr, siamo alla quinta revisione in due anni senza dibattito parlamentare

    Il 21 marzo 2025 il governo Meloni ha inviato alla Commissione europea la quinta richiesta di modifica del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Cinque revisioni in meno di due anni. Nessun altro paese dell’Unione ha fatto tanto: Belgio, Cipro, Irlanda e Spagna si fermano a quattro; dieci paesi, tra cui Germania e Francia, a tre. Il confronto europeo è impietoso. La narrazione di un’Italia virtuosa e pragmatica inciampa su una realtà fatta di incertezze strutturali, ostacoli amministrativi e criticità decisionali.

    A Bruxelles non è arrivata una spiegazione, né a Roma una riga nei verbali ufficiali della cabina di regia o nei comunicati del Consiglio dei ministri. Nulla nemmeno nella sesta relazione sullo stato di attuazione del Pnrr, approvata il 27 marzo. Un documento che, incredibilmente, ignora l’invio della richiesta di revisione avvenuto sei giorni prima. Non solo il Parlamento non ha discusso la proposta: ne è stato formalmente escluso. Un passaggio tanto rilevante è stato affidato a un silenzio istituzionale che disegna un processo sempre meno trasparente.

    Pnrr: cinque revisioni, zero confronti

    Eppure la legge è chiara. I piani nazionali possono essere modificati solo in presenza di “condizioni oggettive documentabili” che rendano irrealizzabili gli obiettivi originari. Ma il governo si limita a far filtrare, per bocca del ministro Tommaso Foti, l’ipotesi di dirottare 14 miliardi di euro verso incentivi per la competitività del sistema produttivo. Lo ha detto in Aula il 23 aprile, senza mai menzionare la revisione in corso. Né il giorno 13, quando aveva risposto a un’interrogazione sulla riallocazione delle risorse.

    Nel frattempo, la piattaforma “Italia Domani” ha aggiornato i dati di monitoraggio. Un passo avanti necessario ma tardivo, che Openpolis sollecitava da mesi. La trasparenza non si misura con qualche riga di codice aperto o un dataset aggiornato. Soprattutto se nel frattempo si cambia la traiettoria del principale programma pubblico del dopoguerra senza condividerne le ragioni.

    Una riscrittura costante, fuori scena

    Il percorso delle modifiche è diventato sempre più oscuro. La prima revisione – luglio 2023 – ha riguardato dieci scadenze tecniche. La seconda, inviata nell’agosto dello stesso anno, è stata l’unica sistematica, discussa in Parlamento e articolata su molte misure. Poi, a marzo 2024, il governo ha presentato una terza richiesta per modificare 24 interventi. A ottobre è arrivata una quarta revisione, definita “tecnica”, senza dettagli pubblici. Infine, la quinta del marzo 2025: la più opaca, la più preoccupante.

    La revisione di marzo 2024, almeno, fu citata da Isabella De Monte in Aula ed emersa nella relazione della Corte dei conti. Quella di ottobre è menzionata di sfuggita nella sesta relazione sul Pnrr. Ma la quinta Ufficialmente non esiste. Non se ne trova traccia nei documenti parlamentari, nei resoconti delle sedute, nei siti del governo.

    A questo si aggiunge un sospetto: i 14 miliardi di fondi non spesi potrebbero essere usati per misure slegate dal cuore del Pnrr. Il ministro ha escluso che vadano alla difesa, ma non ha fornito criteri chiari sulla nuova destinazione. Intanto, il piano viene continuamente riadattato, modellato su priorità contingenti, svuotato del suo impianto strategico. Un Pnrr a pezzi, riscritto fuori scena, con una regia che ignora il copione e lo riscrive ogni volta che l’orologio si sposta.

    Serve un dibattito parlamentare, serve una spiegazione, serve un’assunzione pubblica di responsabilità. Perché il Pnrr non è un fondo privato del governo, ma un patto nazionale ed europeo. Scritto con risorse comuni, approvato con garanzie politiche e destinato, almeno sulla carta, a riformare l’Italia. Ogni revisione è un segnale. Alla quinta, il segnale è uno solo: non sanno che fare, o non vogliono dircelo.

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  • Un Porcellum firmato Giorgia

    Le regole del gioco, per Meloni, sono solo un altro strumento di comando. Ora tocca alla legge elettorale. Non bastano i pieni poteri del premierato: serve anche sterilizzare gli alleati, blindare la vittoria, riscrivere le urne per riscrivere il Parlamento. Il modello? Un proporzionale con premio di maggioranza al 55% per chi supera il 40% dei voti. Una soglia comoda per chi parte da un 47,4% virtuale e può così svuotare di senso la concorrenza. Altro che governabilità: qui si tratta di egemonia matematica.

    Dentro c’è tutto: il nome del premier sulla scheda, i capilista bloccati, le preferenze solo dove non disturbano. Una riedizione del Porcellum, con lo stesso odore di incostituzionalità, cucito su misura per due Camere diverse, in una Repubblica che resiste a essere trasformata in monarchia elettiva. Il Senato, ricorda la Costituzione, si elegge su base regionale. Ma nella bozza non c’è traccia di premi regionali. Rischio: due maggioranze diverse e caos garantito.

    Le opposizioni si compattano. Pd e M5S alzano le barricate, evocano le preferenze, persino le primarie. Conte fiuta l’occasione, Schlein il rischio. Ma la vera sfida non è solo opporsi a una legge. È opporsi all’idea che la democrazia si pieghi a chi comanda. Che il consenso autorizzi l’abuso. Che la riforma sia un’arma. Il Rosatellum era una trappola: ma questo, se passa, sarà un colpo di Stato a norma di legge. E a volto scoperto.

    Meloni, incapace di vincere col premierato, tenta il colpo con l’urna truccata. Ma la storia insegna: chi gioca con la legge elettorale per fregare gli altri finisce fregato.

    Buon mercoledì. 

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  • Lo sciopero dei treni ferma l’Italia, altro flop del ministro Salvini

    Ancora uno sciopero. Ancora pendolari fermi, treni cancellati, ore perse in stazioni senza voce. Questa volta l’astensione riguarda l’intero comparto ferroviario nazionale, indetta da Filt Cgil, Fit-Cisl e Uilt per otto ore. Le motivazioni sono puntuali come un treno che non arriva: il mancato rinnovo del contratto collettivo, l’assenza di un piano sul dumping contrattuale, l’aumento delle aggressioni al personale. Ma sullo sfondo si staglia una domanda più grande: cosa ha fatto il ministro dei Trasporti per evitarlo?

    Matteo Salvini guida il dicastero da oltre due anni. Un arco temporale sufficiente per tracciare un bilancio, e i numeri parlano chiaro. La puntualità dei treni AV nel 2024 ha toccato il fondo con un 67,4%, mentre la lunga percorrenza ha visto oltre il 70% dei Freccia accumulare ritardi. La tratta Bari-Roma ha sfiorato il grottesco: 95% di treni in ritardo. Sul Milano-Pescara, 43 giorni su 45 hanno registrato disservizi. Eppure a febbraio 2025 Trenitalia ha rivendicato un miglioramento: 80,9% per l’AV. Basta Se i dati vengono registrati ammettendo ritardi fino a 60 minuti come “accettabili”…

    Cantieri, rincari e nessun piano

    Nel frattempo, i passeggeri pagano di più. Aumenti del 4,26% in Toscana, del 4,5% in Liguria, +51% a Pasqua secondo Federconsumatori. E mentre si moltiplicano le proteste per l’inaffidabilità quotidiana, lo stesso Salvini invoca sabotaggi e “azioni dolose” come cause sistemiche. L’11 gennaio 2025 il nodo di Milano va in tilt: ritardi fino a 4 ore. Tre mesi prima, blackout a Roma: oltre 100 treni cancellati. Il ministro si affretta ad attribuire responsabilità a una ditta che avrebbe piantato un “chiodo su un cavo”. Nessuna analisi sullo stato della rete, nessun piano credibile per prevenirlo.

    La gestione delle crisi si ripete: giustificazioni esterne, dichiarazioni d’allarme, assenza di responsabilità politica. L’Art ha segnalato la congestione strutturale della rete e l’inadeguatezza dei nodi urbani. Legambiente denuncia che al Sud circolano treni con un’età media doppia rispetto al Nord. Il 91% dei convogli non parte all’orario previsto. Il quadro è costante, il ministro no: troppe inaugurazioni, troppe dirette social, poca governance.

    Precettazioni e isolamento

    Non sorprende che in un clima del genere la conflittualità sindacale sia esplosa. Tra il 2023 e il 2024, oltre 500 scioperi hanno colpito il settore, il 42% del totale nazionale. Salvini ha risposto con precettazioni sistematiche, anche contro scioperi generali come quello di novembre scorso. In un caso, il Tar ha bocciato la sua ordinanza, riaprendo alla piena legittimità della protesta. La sua linea resta: silenziare la protesta, accusare chi sciopera di sabotare i cittadini.

    Nel frattempo, i fondi del Pnrr vengono gestiti in modo da generare 1.200 cantieri al giorno, secondo il Mit. Ma l’effetto immediato è l’aumento dei disagi: blocchi, soppressioni, congestione. Il grande progetto del Ponte sullo Stretto assorbe energie, attenzione e miliardi: almeno 12, forse 14,5. I pendolari continuano a salire su treni vetusti. Ma Salvini parla di “visione strategica”.

    Il suo isolamento politico è diventato strutturale. Nelle ultime crisi, né Fratelli d’Italia né Forza Italia lo hanno difeso. Tajani elogia Piantedosi come “il miglior ministro dell’Interno”, Barelli lo invita a restare dove sta, senza ambizioni di ritorno al Viminale. Il suo stesso dicastero – un tempo pensato come trampolino per il rilancio – rischia di diventare il suo confino. Le opposizioni chiedono le dimissioni. I cittadini si chiedono dove sia finito il ministro. E i treni continuano ad arrivare in ritardo.

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  • Israele distrugge, Abu Toha ricostruisce

    Mosab Abu Toha ha vinto il Pulitzer mentre in troppi ancora si chiedono se le parole possano qualcosa contro la guerra. I suoi saggi pubblicati sul New Yorker non sono solo resistenza culturale: sono cronaca incisa nella carne, sono memoria che non chiede il permesso di esistere. Abu Toha scrive da poeta e sopravvissuto. Scrive per chi non può più parlare. Scrive con l’urgenza di chi ha perso tutto tranne la voce.

    “La Gaza che ci lasciamo alle spalle” è un titolo che sembra una resa, ma contiene invece un intero atlante di ciò che si vuole far sparire: un forno d’argilla, il costume di Spider-Man del figlio, le partite di calcio tra amici, le melanzane coltivate ai bordi dei campi. È la geografia sentimentale della distruzione. Perché ogni casa bombardata, racconta, è “una sorta di album, pieno non di foto ma di persone reali, i morti pressati tra le sue pagine”.

    Ha rischiato la deportazione dagli Stati Uniti, dove vive in esilio con la sua famiglia. Ha cancellato incontri pubblici per paura. Ha detto che è devastante essere al sicuro nel Paese che finanzia il genocidio della sua gente. Eppure continua a scrivere. Continua a raccontare la fatica di coltivare verdure in mezzo ai droni, la vergogna di chiedere a un fratello affamato di cercare un album fotografico sotto le macerie. La speranza che un aquilone visto da un bambino non sia solo un aquilone.

    Abu Toha ha raccolto l’eredità di Refaat Alareer, ucciso da un raid nel dicembre 2023. A lui risponde con la stessa formula: “Let it bring hope. Let it be a tale”. Perché se devono morire, allora qualcuno deve raccontare. È questo, oggi, il compito del giornalismo. Il resto è contabilità del silenzio.

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  • Germania, Merz manca la fiducia: l’effetto Trump travolge il cancelliere designato

    È la prima volta nella storia della Repubblica Federale che un cancelliere designato non ottiene la fiducia al primo giro. Friedrich Merz, leader della CDU e architetto della fragile coalizione con l’SPD e la CSU, si è fermato a sei voti dalla maggioranza assoluta. Un dato numerico che da solo non spiega la portata del terremoto. Perché quella fiducia negata racconta di una Germania spaccata, di una maggioranza già in bilico e, soprattutto, di una pressione esterna che ha contorni sempre più chiari: Donald Trump.

    Nel pomeriggio, però, al secondo turno di votazione, Merz è stato eletto cancelliere con 325 voti favorevoli. La maggioranza assoluta non era più necessaria.
    Un esito che garantisce l’insediamento ma non cancella la portata simbolica del primo voto fallito, né le fratture che lo hanno determinato.

    Un’agenda americana per destabilizzare Berlino

    Nelle ultime settimane, le tensioni tra Berlino e Washington sono passate da sottotraccia a dichiarazione aperta. Non solo sul piano economico, dove i dazi imposti dagli Stati Uniti hanno colpito con precisione chirurgica i settori più esposti dell’economia tedesca. Non solo nella NATO, dove Trump ha rispolverato il vecchio copione del “pagate o vi lasciamo soli”. Il punto più critico, quello che ha minato la tenuta interna del blocco Merz, è arrivato sul fronte più scivoloso: la politica interna tedesca.

    Quando il Bundesamt für Verfassungsschutz ha classificato l’AfD come “organizzazione estremista di destra”, la reazione americana è stata immediata e velenosa. Marco Rubio, oggi Segretario di Stato, ha parlato di “tirannia mascherata”. JD Vance, vicepresidente, ha accusato il governo tedesco di voler “distruggere” il partito più votato dell’Est del paese. Elon Musk ha rilanciato. Steve Bannon ha benedetto l’AfD come il “MAGA della Germania”. Non si tratta solo di una simpatia ideologica: è una strategia.

    La coincidenza temporale non lascia spazio a dubbi. Le dichiarazioni incendiarie di Washington sono arrivate mentre Merz tentava di formare un governo in grado di tenere fuori l’AfD e mantenere il cordone sanitario. Il messaggio, per chi guarda da Dresda o da Chemnitz, è chiaro: l’America di Trump legittima l’opposizione più radicale, la sdogana. E così l’AfD guadagna terreno, nei sondaggi e nei palazzi.

    Dazi, NATO, Ucraina: l’assedio multilivello

    Parallelamente, la leva economica ha fatto il resto. I dazi del 10% sulle importazioni generali, quelli del 25% su acciaio e auto, l’aumento delle barriere non tariffarie: tutto progettato per colpire le eccellenze tedesche. La reazione dell’economia non si è fatta attendere. Le esportazioni frenano, i margini si assottigliano, i timori per una recessione tornano a occupare le prime pagine. Ed è qui che la fragilità politica interna si fa crepa strutturale. Perché Merz, l’uomo che doveva rassicurare i mercati e blindare il centro, si ritrova accerchiato: a destra dall’AfD che lo accusa di “cripto-sinistrismo”, a sinistra da un SPD logorato, all’esterno da una potenza alleata che gioca contro.

    La retorica trumpiana sulla NATO non fa che peggiorare il quadro. I richiami a un aumento della spesa militare fino al 3,5% del PIL, le minacce velate di abbandono, le frasi come “se non pagate, non vi proteggeremo” sono un attacco diretto a un paese che, nel 2024, ha appena raggiunto l’obiettivo del 2%. A Berlino lo sanno: ogni concessione in più rischia di esplodere politicamente, specie con una Schuldenbremse appena ritoccata e un’opinione pubblica sempre più ostile ai diktat americani.

    Ma il punto più critico resta l’Ucraina. Mentre Merz prova a riaffermare la continuità con la linea Scholz – sostegno fermo a Kyiv, leadership europea nella difesa – Washington vira. I segnali di apertura a Mosca, i rallentamenti negli aiuti militari, la visione dell’Ucraina come stato-cuscinetto: tutto questo rischia di isolare la Germania proprio nel momento in cui dovrebbe guidare. E il vuoto lasciato dagli Stati Uniti non può essere riempito in pochi mesi.

    Il voto mancato in Bundestag è solo il sintomo di questa pressione a più strati. Non è un inciampo tecnico, è un avvertimento geopolitico. Il secondo turno vinto da Merz non basta a dissipare i dubbi: è un via libera condizionato, fragile, e già gravato da crepe evidenti. Un governo che nasce sotto attacco, in un’alleanza precaria e con una strategia ostile che arriva da chi, fino a ieri, era partner fondamentale.Un governo che nasce sotto attacco, in un’alleanza precaria e con una strategia ostile che arriva da chi, fino a ieri, era partner fondamentale.

    Trump non ha bisogno di sovvertire la Germania: gli basta indebolirla. Legittimare l’AfD, colpire l’export, alimentare il sospetto verso la NATO, ridurre Berlino a una pedina marginale nello scacchiere ucraino. In tutto questo, Merz è l’anello debole: troppo moderato per l’America trumpiana, troppo compromesso per l’AfD, troppo isolato per Bruxelles.

    In fondo, è l’ennesimo laboratorio europeo: qui si gioca la sfida tra un centro logoro e un’estrema destra sdoganata, tra un atlantismo condizionato e un’autonomia strategica ancora incerta. Per ora, la fiducia non c’è. Né in parlamento, né – più gravemente – nei rapporti con l’alleato americano. Merz ha ottenuto la carica, ma non la fiducia piena. Né in parlamento, né – più gravemente – nei rapporti con l’alleato americano.

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  • #UltimoGiornodiGaza Se il genocidio non si vede, è perché guardiamo altrove

    Anni fa si vedeva un adesivo attaccato sulle auto e sulle biciclette che diceva: “Non sei un mezzo al traffico, tu sei il traffico”. Funzionava perché era una presa di coscienza mentre si stava in coda. Non siamo in mezzo al silenzio che concima il genocidio di Gaza: siamo parte del silenzio su Gaza.

    Se qualcuno alza la voce, si ritrova in guerra. Abbiamo passato mesi a piluccare il significato della parola genocidio, mentre a Gaza l’esercito di Israele ammazzava cinquantamila persone. Stiamo passando gli ultimi giorni a discutere della Taverna Santa Chiara di Napoli come se il problema nazionale fosse il pasto indigesto per le opinioni legittime dell’oste, e non la fame che ammorba la popolazione della Striscia.
    Il 9 maggio si celebra la Giornata dell’Europa e della sua unificazione. Un appello chiede per quel giorno una mobilitazione, perché il 9 maggio non sia l’ultimo giorno di Gaza: si invita a parlarne ovunque, su siti, canali video, social, nelle strade e nelle piazze, sempre con gli hashtag #ultimogiornodigaza e #gazalastday.

    “Senza il mondo Gaza muore. Ed è altrettanto vero che senza Gaza siamo noi a morire. Noi, italiani, europei, umani. Per rompere il silenzio colpevole useremo la rete, che è il solo mezzo attraverso cui possiamo vedere Gaza, ascoltare Gaza, piangere Gaza”, si legge.
    Con una precisazione importante: aggiungiamo tutte le parole che vorremo usare agli hashtag #ultimogiornodigaza e #gazalastday. Senza scomunicarne nessuna, senza renderne obbligatoria nessuna. Per chiamare le cose con il loro nome.
    Ora è il momento di costruire una rete di senza-potere determinati a prendere la parola. E il 9 maggio è la prima tappa di una strada assieme. Perché la strage, perché il genocidio, abbiano fine. Ora.

    Buon martedì.

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  • A Gaza si muore di fame e in Europa di cautela

    Mentre Israele approva l’occupazione totale della Striscia di Gaza, il governo Netanyahu discute se far entrare o meno i camion con farina e medicine. Il gabinetto di sicurezza ha dato l’ok all’unanimità per una nuova fase della guerra: “conquista e mantenimento del territorio”. Un eufemismo per chiamare con freddezza militare ciò che è già una tragedia: due milioni di persone ridotte a combattere contro la fame, la sete e il silenzio.

    Nel frattempo, il ministro Ben Gvir chiede di bombardare le scorte alimentari di Hamas e afferma che “Gaza ha aiuti a sufficienza”. Nessuna ironia, solo l’indifferenza che diventa dottrina. Il capo di Stato Maggiore ricorda il diritto internazionale, ma viene zittito. Gli aiuti arriveranno solo dopo la visita di Donald Trump, come se un popolo potesse essere tenuto in ostaggio del calendario diplomatico.

    A Gaza, racconta la giornalista Rita Baroud, i bambini bevono acqua torbida e mangiano foglie d’uva crude. Le panetterie sono chiuse, le fattorie bombardate, i pozzi contaminati. Il pane è un ricordo, la carne un miraggio, l’acqua un lusso negoziato col potere. La fame non è una conseguenza della guerra. È una scelta deliberata, una strategia. La fame come arma, la sete come deterrente.

    Israele dice di voler evitare che Hamas si appropri degli aiuti, ma intanto la carestia avanza, i morti superano i 52.000 e le tende profughi si riempiono di corpi vivi che svaniscono. In Occidente, la parola “cessate il fuoco” si consuma sulle labbra, senza trovare mai le condizioni “adeguate”.

    Non è una difesa, è un piano di sterminio. Per avere successo ha solo bisogno di un esercito di vigliacchi fiancheggiatori. 

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  • Libertà di stampa, tante promesse e pochi fatti: la Federazione nazionale della stampa chiede conto al governo

    Nel giorno dedicato alla libertà di stampa, la segretaria generale della Federazione nazionale della stampa italiana, Alessandra Costante, si è detta “felice di sapere che la libertà di informazione è importante per la premier”. Poi ha fatto ciò che tocca a un sindacato: ha chiesto conto delle promesse. Perché nel frattempo, la macchina dello Stato le ha lasciate in sospeso.

    L’Europa chiede trasparenza, l’Italia tace

    In cima alla lista, l’EMFA, il nuovo Regolamento europeo per la libertà dei media, approvato a marzo dal Parlamento europeo. Obbligatorio per tutti gli Stati membri, dovrebbe garantire l’indipendenza editoriale, la trasparenza nei finanziamenti e proteggere i giornalisti da sorveglianze arbitrarie e interferenze politiche. Soprattutto impone una governance indipendente per i media di servizio pubblico. Un principio che, applicato in Italia, richiederebbe una radicale revisione del controllo politico sulla Rai. Ma sull’adozione dell’EMFA, la presidente del Consiglio non ha fornito alcuna certezza. Nessuna dichiarazione ufficiale. Nessun calendario di attuazione.

    La normativa europea vieta interferenze nella linea editoriale, impone che i finanziamenti pubblici siano trasparenti e prevede la creazione di un organismo europeo di vigilanza. A essere incompatibile non è solo il sistema Rai, ma anche l’intero impianto della proprietà editoriale in Italia. È un cortocircuito che richiede una volontà politica esplicita per essere sciolto. Finora non pervenuta.

    Una legge a nome Meloni, ferma da mesi

    Poi ci sono i giornalisti che faticano a farsi pagare. In Italia oltre il 60% dei giornalisti attivi è freelance, molti dei quali collaborano con le testate senza un contratto regolare. Quando il compenso non arriva, l’unica strada è il tribunale civile. Tempi lunghi, spese elevate, cause che spesso non valgono il costo dell’azione.

    È per questo che la Fnsi e l’Ordine dei giornalisti chiedono da anni l’attuazione della liquidazione giudiziaria dei compensi: uno strumento che consenta al giudice di determinare rapidamente il pagamento spettante, anche in assenza di un contratto scritto, sulla base dei minimi stabiliti dal contratto nazionale. Una misura approvata nel 2021, con un emendamento firmato proprio da Giorgia Meloni. Un nome in calce che non è bastato a portarla all’attuazione.

    Il paradosso è tutto qui: la legge c’è, ma non funziona. Il dossier giace da cinque mesi in un cassetto del ministero della Giustizia, mentre il governo continua a lodare il pluralismo dell’informazione nelle dichiarazioni ufficiali.

    Infine, l’ultima frontiera dell’anomalia italiana: il carcere per i giornalisti condannati per diffamazione. Nonostante le sentenze della Corte costituzionale e le raccomandazioni del Consiglio d’Europa, l’Italia continua a prevedere la pena detentiva per chi scrive. Si moltiplicano le querele temerarie, le richieste di risarcimento milionarie, i procedimenti strumentali che producono solo un effetto: silenziare.

    L’EMFA chiede agli Stati membri di garantire che le misure contro la disinformazione non si traducano in strumenti per intimidire i media. In Italia, invece, le cause civili e penali restano il principale strumento usato da imprenditori, politici e amministratori pubblici per colpire le redazioni e i singoli giornalisti.

    La premier ha detto di tenere alla libertà di stampa. Il sindacato le chiede di provarlo con atti concreti: attuare l’EMFA, riformare la governance della Rai, far uscire la liquidazione giudiziaria dal cassetto, abolire il carcere per la diffamazione. Ad oggi, però, le promesse sono tutte a scadenza. E nessuna è stata rinnovata.

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  • Pornografia minorile: +83% di casi in un anno e lo Stato resta indietro

    Oggi è la Giornata nazionale contro la pedofilia e la pedopornografia. Puntuali arrivano i comunicati istituzionali. Parole, molte. Ma se bastassero le parole, oggi non ci troveremmo di fronte a un’emergenza permanente. Se bastassero i comunicati, non ci sarebbero stati 2.809 casi trattati nel solo 2024 tra pedopornografia e adescamento online. Non ci sarebbe stato bisogno di 144 arresti e oltre mille denunce.

    Secondo i dati diffusi da Save the Children, nel primo semestre del 2024 le vittime di pornografia minorile in Italia sono quasi raddoppiate: da 75 a 137. Il 66% ha meno di 14 anni. Gli episodi di adescamento online sono saliti a 370, con oltre la metà delle vittime tra i 10 e i 13 anni, e un drammatico 7% sotto i 10. L’estorsione sessuale digitale – la sextortion – ha coinvolto 127 minori, l’87% dei quali adolescenti. Crescono anche i casi di revenge porn: erano 29 nel 2023, sono già 42 nei primi mesi del 2024. Eppure, nel lessico politico di governo, il termine “educazione sessuale” resta tabù. Mentre i dati raccontano una realtà dove la violenza sessuale passa attraverso legami di fiducia tradita, amicizie simulate, relazioni abusanti nei contesti familiari e scolastici.

    La prevenzione che manca, la repressione che arriva troppo tardi

    L’abuso sessuale sui minori in Italia non è una deriva occasionale, è un sistema che sopravvive nella cecità istituzionale e nelle pieghe di un impianto normativo che reagisce con forza quando il danno è fatto, ma interviene troppo poco e troppo tardi per prevenirlo. Le leggi ci sono. L’apparato repressivo è ampio, articolato, persino aggiornato alle nuove forme di criminalità digitale. Ma la risposta continua a essere sbilanciata: dopo, mai prima. Quando la violenza è già accaduta. Quando i video sono già stati scambiati. Quando le vite sono già spezzate.

    Nel frattempo, l’infrastruttura preventiva resta fragile. Le scuole italiane, seppur presidio privilegiato di accesso ai minori, non hanno un obbligo nazionale di attivare programmi di educazione sessuo-affettiva. Manca un protocollo operativo vincolante per formare il personale scolastico e sanitario a riconoscere i segnali di disagio. I servizi sociali, dove esistono, operano con risorse insufficienti, senza garanzie di omogeneità territoriale. Le ONG – da Telefono Azzurro a Save the Children, da Terre des Hommes al CISMAI – sopperiscono come possono, raccogliendo dati, sostenendo le vittime, promuovendo campagne. Ma non può spettare al terzo settore il compito esclusivo di difendere l’infanzia.

    Serve un cambio di paradigma. Le soluzioni esistono, sono scritte nero su bianco nel report allegato oggi proprio da Save the Children: introdurre per legge programmi obbligatori di educazione affettiva, sessuale e digitale, strutturati per età, dalla primaria alla secondaria. Formare tutti i professionisti che lavorano con i minori – insegnanti, medici, operatori dei servizi, magistrati – all’individuazione precoce dei segnali d’abuso. Finanziare reti di servizi multidisciplinari per l’assistenza legale, psicologica, sanitaria e sociale delle vittime e delle famiglie, in ogni area del Paese. Rafforzare i canali di segnalazione, anche anonima, e semplificare l’accesso alle tutele. E poi creare un sistema nazionale di monitoraggio permanente, centralizzato, trasparente.

    Un sistema che fallisce: quando le istituzioni voltano lo sguardo

    I casi emblematici non mancano. Il Forteto – la comunità toscana dove per decenni minori affidati dal Tribunale sono stati abusati e manipolati – mostra cosa succede quando le istituzioni non comunicano, quando i segnali vengono ignorati, quando i sistemi di vigilanza falliscono. All’opposto, l’operazione internazionale che ha smantellato “Kidflix”, una piattaforma con 1,8 milioni di utenti attivi nel dark web, rivela quanto sia cruciale la cooperazione transnazionale, la tracciabilità delle criptovalute, l’utilizzo di tecnologie investigative avanzate. Ma nemmeno questo basta, se non si agisce a monte, sulle cause sociali e culturali che rendono un minore vulnerabile alla manipolazione.

    È necessaria anche una nuova cultura pubblica. L’educazione digitale non può essere opzionale. Gli strumenti di parental control non possono sostituire la responsabilità dello Stato. La prevenzione dell’abuso sessuale deve diventare una priorità strutturale della politica educativa, sanitaria, penale. E serve il coraggio di agire anche dove è più scomodo: nei contesti familiari, dove avviene la maggior parte degli abusi. Nel 70% dei casi, l’autore è un conoscente stretto, un familiare, un adulto di fiducia. La difesa dell’infanzia passa anche attraverso lo smantellamento dei miti rassicuranti su casa, scuola e comunità.

    Contro la pedofilia non serve un giorno all’anno. Serve una strategia continua. Serve un investimento pubblico stabile. Serve la consapevolezza che un Paese che non protegge i propri bambini è un Paese che fallisce la sua stessa civiltà. Serve, infine, la volontà politica di non lasciarli soli. Non più. Mai più.

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