Canada, Groenlandia, golfo del Messico e canale di Panama: sono solo i primi obiettivi delle minacce espansionistiche di The Donald. Da America First ad America Everywhere. Logiche coloniali che credevamo sepolte, un presidente egoista e dominatore che condanna gli Usa all’isolamento. Ma nel futuro rimarranno solo le macerie di un’ambizione fallita.
L’imperialismo è di nuovo tra noi. Non sotto nuove spoglie, ma con la stessa brutalità ideologica che ne ha segnato la storia. Donald Trump, con il suo ritorno trionfale alla ribalta politica, ha spogliato la retorica populista di ogni sottigliezza, trasformandola in un manifesto di espansionismo travestito da patriottismo. Un leader che non si limita più a declamare America First, ma sogna di imporre America Everywhere. Nel 2019 Trump proclamava che «il futuro non appartiene ai globalisti». Era un messaggio chiaro, radicato in un nazionalismo che rifiutava ogni vincolo multilaterale. Ma oggi quel messaggio ha mutato forma. La critica ai globalisti si è trasformata in una visione imperialista: un’agenda che include l’annessione della Groenlandia, il ridisegno dei confini nordamericani e persino l’appropriazione simbolica di mari e rotte commerciali.

Una strategia inquietante: il ritorno alle logiche coloniali
La Groenlandia è il primo tassello di questa ambizione. Una terra ricca di risorse naturali e cruciale dal punto di vista strategico. Trump non si è limitato a proporne l’acquisto: ha ventilato l’uso della forza economica e persino militare per appropriarsene. La Danimarca ha risposto con fermezza, ribadendo che la Groenlandia non è in vendita. Ma al di là delle dichiarazioni ufficiali, questo episodio ha rivelato una strategia inquietante: un ritorno a logiche coloniali che si credevano sepolte.
Senso di incredulità di fronte alle minacce dell’America
E non è tutto. L’idea di annettere il Canada come 51esimo Stato non è solo un affronto alla sovranità canadese, ma un attacco diretto a un’identità nazionale costruita sulla differenziazione dagli Stati Uniti. Justin Trudeau, primo ministro dimissionario canadese, ha liquidato la proposta come un tentativo di distrazione, mentre i dazi imposti dall’amministrazione Trump minacciano di compromettere l’economia nordamericana. La risposta del Canada è stata ferma, ma ciò che rimane è un senso di incredulità di fronte a un’America che, invece di rafforzare le sue alleanze, le minaccia.

Panama e Messico respingono ogni pressione esterna
L’America Latina, intanto, osserva con apprensione. Trump ha suggerito di ribattezzare il Golfo del Messico come «Golfo d’America». Un gesto apparentemente simbolico, ma intriso di arroganza culturale e politica. Claudia Sheinbaum, presidente del Messico, ha ribadito le radici storiche di quel nome, dichiarando che il Messico non tollererà provocazioni. Sul fronte panamense, il canale di Panama è tornato al centro delle attenzioni statunitensi, con Trump che accusa la Cina di avere un’influenza indebita sulle rotte commerciali. Panama, tuttavia, ha riaffermato la propria sovranità, respingendo ogni pressione esterna.

Una versione distorta del vecchio concetto del “Manifest destiny”
Ma perché questo ritorno all’imperialismo? Perché Trump, e chi lo sostiene, vedono nell’espansionismo una narrazione capace di galvanizzare un elettorato disilluso. Personaggi come Charlie Kirk celebrano queste ambizioni come un ritorno alla «energia maschile americana», una versione distorta del “Manifest destiny“, un concetto radicato nel XIX secolo che giustificava l’espansione territoriale degli Usa come un destino inevitabile voluto dalla Provvidenza. Tuttavia, dietro questa retorica si cela una strategia miope, come sottolineato da John Bolton, ex consigliere per la sicurezza nazionale di Trump. «Episodiche e transazionali», ha definito queste mosse, più orientate a rafforzare l’immagine personale di Trump che a perseguire una visione strategica a lungo termine.
Un attacco diretto ai principi dell’ordine internazionale
E mentre gli Stati Uniti si isolano ulteriormente, il mondo osserva con preoccupazione. Gli alleati storici si chiedono quale sia il futuro delle relazioni transatlantiche, mentre le nazioni emergenti vedono in queste mosse un segnale di arroganza che mina la credibilità americana. La verità è che l’espansionismo trumpiano non è solo un problema per la diplomazia: è un attacco diretto ai principi stessi su cui si fonda l’ordine internazionale.

L’imperialismo è tornato, ma in futuro non può durare
Che messaggio inviano gli Stati Uniti quando abbracciano una visione più vicina al XIX secolo che al XXI? Come possono sperare di mantenere la loro influenza globale se alienano i loro alleati e rafforzano la percezione di un’America egoista e dominatrice? Il neo-imperialismo di Trump non è solo un ritorno al passato: è un monito per il futuro. Finché gli Stati Uniti non comprenderanno che la forza di una nazione risiede nella sua capacità di costruire relazioni basate sul rispetto reciproco, continueranno a essere prigionieri di una narrazione che li condanna all’isolamento. L’imperialismo è tornato, ma non può durare. Perché ogni confine violato lascia cicatrici, e ogni nazione piegata alimenta una resistenza che cresce con il tempo. E forse, quando la polvere si sarà posata, ciò che rimarrà non sarà la grandezza di un impero, ma le macerie di un’ambizione fallita.
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