In questi giorni più di venti aziende tecnologiche — tra cui Google, Amazon, Microsoft, Palantir e IBM — si sono sedute al tavolo del Ministero della Giustizia britannico per disegnare un nuovo ecosistema penale. I verbali, ottenuti dal Guardian, descrivono una giustizia “abilitata da dati e tecnologia”: braccialetti intelligenti, robot di contenimento, riconoscimento dell’andatura, veicoli autonomi per il trasporto detenuti e, soprattutto, dispositivi sottocutanei per il tracciamento in tempo reale. Il tutto per “creare una prigione fuori dalla prigione” e compensare la mancanza cronica di spazi e personale.
Shabana Mahmood, ministro laburista della Giustizia, ha dichiarato di non essere “schizzinosa” su queste tecnologie. Keir Starmer, da parte sua, ha ribadito che l’intelligenza artificiale sarà il perno della “trasformazione del settore pubblico”. I gruppi per i diritti civili parlano apertamente di “scenario da incubo”. Eppure, un secondo incontro con le stesse aziende è già stato fissato.
Dal laboratorio inglese al silenzio italiano
In Italia, ufficialmente, nulla di simile. Nessun chip impiantato, nessun algoritmo a decidere il destino di un imputato, nessun robot a sorvegliare i corridoi delle celle. Ma l’assenza di annunci non coincide con l’assenza di traiettoria.
Nel carcere di Sollicciano è in fase di test un robot di sorveglianza, il “Custode X2”, finanziato con fondi Esa e prodotto dall’Istituto Italiano di Tecnologia. A Cagliari, droni e veicoli autonomi — sviluppati da Eni e Fincantieri — vengono sperimentati per la sorveglianza perimetrale e il trasferimento dei detenuti. Il carcere di Bollate utilizza tecnologie di riconoscimento dell’andatura in collaborazione con Leonardo, mentre a Rebibbia e Poggioreale sono attivi sistemi di riconoscimento facciale forniti da Huawei e Palantir.
Il progetto “Hermes”, finanziato dal Pnrr e sviluppato da Expert System, è stato implementato in sette istituti penitenziari italiani. Analizza dati comportamentali, cartelle cliniche e comunicazioni per prevedere recidiva e rischio suicidario. È già al centro di una causa civile presso la Corte d’Appello di Roma per “discriminazione algoritmica” nei confronti di detenuti stranieri e con disturbi psichiatrici.
Dati e algoritmi
La distinzione tra giustizia penale e cybersicurezza si assottiglia. L’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale collabora con la Procura Nazionale Antimafia per l’analisi predittiva di reti criminali. Nulla vieta che le stesse tecnologie vengano impiegate nei penitenziari, in nome della prevenzione o dell’efficienza.
Ma c’è un ma. Il sistema Sari — Sistema Automatico di Riconoscimento Immagini — fu bloccato dal Garante per la Privacy nel 2021 per violazioni al Gdpr. Era previsto per la polizia, ma le sue implicazioni sul diritto alla riservatezza e alla presunzione d’innocenza furono giudicate incompatibili con la normativa europea. Nonostante ciò, i sistemi di riconoscimento facciale sono oggi attivi in alcune carceri italiane, e nel caso di “Hermes” l’Unione europea ha avviato una procedura d’infrazione per la violazione dell’articolo 22 del Gdpr.
Un futuro importabile
La distanza con il Regno Unito è più temporale che sostanziale. La stessa retorica — digitalizzazione, efficienza, risparmio — ha già fatto breccia nei documenti ufficiali italiani. Il protocollo d’intesa del giugno 2024 tra il Dap e operatori tecnologici prevede un ampliamento delle collaborazioni pubblico-private anche in ambito detentivo. Il piano del Ministero della Giustizia (Piao 2023-2025) parla di “automazione dei processi decisionali” e “interventi innovativi sulla sicurezza interna”.
In Parlamento, una mozione Pd-Verdi per sospendere i fondi Pnrr destinati a progetti di AI penitenziaria è stata rinviata in Commissione per l’opposizione di Lega e Fratelli d’Italia. Nessuna proposta per regolamentare queste tecnologie è stata approvata. Intanto, Amazon e Microsoft forniscono infrastrutture cloud al sistema giudiziario italiano, mentre aziende israeliane come Paragon hanno già accusato l’Italia per uso improprio di spyware.
L’invisibilità come strategia
Nessun annuncio, nessuna legge, nessuna protesta. L’importazione del modello britannico non avverrà con un decreto, ma per sottrazione. Sottrazione di personale, di garanzie, di dibattito. I chip sottocutanei faranno discutere, ma intanto l’Italia sperimenta già un penitenziario algoritmico, senza chiamarlo per nome.
La cronica carenza di agenti penitenziari — denunciata da sindacati e relazioni parlamentari — è il pretesto perfetto per delegare la gestione dei corpi alle macchine. I corpi ci sono, il personale no. Restano i dati. E quelli, a quanto pare, interessano a molti.
L’articolo Sorvegliati, profilati, puniti: il futuro penale secondo le big tech sembra essere il primo su LA NOTIZIA.